Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
San Remo, 10 novembre
Sono qui da ieri sera. Venite.
VIOLA
San Remo, 21 novembre
VIOLA fa sapere alla sola persona dalla quale è conosciuta, che ella aspetta inutilmente da otto giorni.
San Remo, 8 dicembre
Perché non siete venuto, GIACINTO? Avete letto le mie del 10 e 21 novembre? Avete dimenticato la vostra promessa? Dove siete? Ho bisogno di voi.
San Remo, 16 dicembre
Mi sono ingannata; perdonatemi. Voi siete come tutti gli altri.
Sorrento, 22 dicembre
Io sono precisamente come tutti gli altri, cara signora VIOLA; anzi, come tutti quegli altri che hanno bisogno di pace, e a cui i medici prescrivono il riposo dell’anima e del corpo, e il clima di Nizza o di Napoli.
GIACINTO
San Remo, 25 dicembre
Godeteveli. Parto domani. E’ inutile dirvi dove andrò, poiché è inutile che mi scriviate. Addio.
VIOLA
Sorrento, 20 gennaio
Alla signora VIOLA – non del pensiero. – Mia cara, giacché ai vostri occhi devo comparire assolutamente colpevole, eccovi la mia giustificazione: ve la mando come posso. Per altro, nessuno vi conosce, nemmen io, e voi non avete esitato per la prima a far correre le poste ai nostri piccoli segreti. Sono stato malato, molto malato; ho creduto di morire, e ho avuto paura. Vedete quanto io sia lontano dal mondo e dalle sue illusioni, se vi confesso anche cotesto! Ho vista la vita dall’altro lato. Se sapeste che rovescio! La giovinezza, il passato, voi! Quante cose si veggono nelle cortine stinte di un letto d’albergo, a cinque lire per notte, coll’odore delle medicine sotto il naso, e il russare dell’infermiera in un canto! Mi sembrava di non dovermi alzare più. Andavo cercando col pensiero tutto ciò che si era presa la mia vita, e non lo trovavo: il giuoco, gli amici, le amiche… E i sogni della giovinezza… Vi rammentate, quella prima sera che mi bruciaste l’anima colle lenti del vostro cannocchiale? Che miseria! E pensare che tutto ciò ora non mi fa battere il cuore come la voce grossa del dottore il quale mi misura la febbre col termometro!
Che cosa volete, cara VIOLA! Ritorno dal paese freddo delle ombre, dove anche il fiore del pensiero intirizzisce; e mi scaldo tranquillamente a questo bel meriggio d’inverno, come un ebete, con un plaid sulle ginocchia, le orecchie ben calde dentro il mio berretto di lontra; e sorrido soltanto al sole che mi bacia le mani diacce, gialle, di un bel giallo d’oro, come i mucchi di luigi che illuminavano le nostre notti di Montecarlo, dove quell’altro mi vinceva anche voi.
Vi rammentate, a Venezia? Avevate un colletto alto da uomo, un ferro di cavallo alla cravatta, un cappellino grigio, a tese piatte, con un ciuffo di piume di struzzo sul davanti: ricordi che mi sembrano gai e festosi in questa bella giornata d’inverno: – l’occhiata lunga e calda che mi lasciaste nel vestibolo, sirena! e la furberia con la quale vi nascondevate dietro le spalle oneste e larghe del vostro compagno, nel palchetto, per puntare il cannocchiale su di me! Quante belle cose ci dicevamo! Due o tre volte chinaste il capo e sorrideste: un sorriso che voleva dire tante cose: – Vi saluto! – Davvero? – Sì! – Venite? – che so io… forse non lo sapevate voi stessa. Io sorrisi e chinai il capo come voi. Che potevamo dire di più? Tutto l’amore umano non è in quel linguaggio senza parole? – Chi sei? – Mi piaci! – Mi vuoi? – Quel bel signore che vi dava il braccio non avrebbe potuto chiedervi né sentirsi rispondere altro da voi, neppure nel momento in cui posava la sua testa accanto alla vostra sul medesimo guanciale. Eppure, tutta la notte questa visione non mi fece chiudere occhio.
Lasciamo stare, lasciamo stare! Ecco che ricasco di nuovo nella fantasticheria erotica – la più malsana divagazione della mente, dice il mio medico. Ora non c’é nulla per me che valga una buona nottata di sonno profondo, collo spirito e il corpo nella bambagia tiepida delle coperte. Erano tante notti che non potevo dormire, mangiato dalla tosse, mangiato dalla febbre! Sentite, quando vi dicono che in cotesti momenti hanno pensato a voi, che siete stata il conforto, il sollievo, che so io, vi mentiscono come furfanti. In principio, forse, quando il male non ha compìto il suo lavorìo, quando il medico non ha fatto il viso lungo, quando non si è visto passare lo spettro nero nelle prime ombre della sera… Allora, forse… quando il sangue ancora ricco dà con la febbre quella sensazione di benessere, si può pensare a lei, alla donna, alla treccia bionda sul guanciale, alla mano bianca che apre dolcemente le cortine, agli occhi lucenti che aspettano… Così mi guardavate, dal fondo di quella l’oggia. – Che cosa ne avete fatto del vostro bel cavaliere? Sapete, ultimamente lo incontrai a Napoli. Non volle riconoscermi, e fece bene. Ho un sospetto che quell’uomo in dominò della cavalchina fosse lui, e che abbia udito quando deste l’indirizzo al gondoliere…
Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, ecco quello che vi ho detto poi, nelle lunghe notti senza sonno e senza sogni. E vi ho detto anche peggio. Che ve ne importa? Che me ne importa? Io voglio dormire, voglio dormire soltanto. Voi siete bella, sana, giovane, ricca. Avete lì San Mauro ai vostri piedi, Giuliano che vi fa ridere, il duca che vi manda delle violette da Nizza. Lasciatemi in pace.
Vedete, è un’ora che vi scrivo. Il sole m’ha lasciato adagio adagio, e col sole le liete fantasie che suscitava la vostra memoria. Ora ho freddo, e la nebbia è calata anche su di voi. Che colpa ne ho io? Se vedeste com’è triste questo mare che illividisce, e questo verde che si fa scuro! Sento il bisogno del bel fuoco che scoppietta nel camino, e del buon brodo che fuma nella tazza. Se stanotte potessi dormire senza cloral’io, quanto sarei felice! Vedete quanto poco ci vuole per avere la felicità? Il dottore m’assicura che sto meglio, e che forse fra un mese o due potrò lasciare Sorrento… Giacché dovete sapere che odio Sorrento, odio questo mare, questo cielo, questo verde implacabile, in mezzo al quale sono costretto a vivere, se voglio vivere. Ora difatti mi sento meglio, ho pensato a voi, ho riletto le vostre lettere, ho sentito rifiorire in me qualcosa del passato che credevo morto, e che mi rianima invece, e mi riscalda. Dunque anch’io posso rivivere? Allora, allora… No, non voglio pensare ad altro. Il medico dice che mi fa male. Il mio male siete voi. Non mi importa più di nulla, capite! Sentite… siete già in collera? Vi chiedo perdono. Sono un uomo dell’altro mondo: eccovi spiegato il motivo del mio silenzio. Non pensate più a me. Se mi vedeste ora, volgereste il capo dall’altra parte. Lasciatemi in pace.
Sorrento, 25 marzo
E’ proprio vero. Sto meglio, son quasi guarito, sapete? Il male non era così grave come si temeva. Chi ne sa nulla? Questi medici, dottoroni! non lo sanno neppur loro. Certo è che son guarito, guarito! Oggi ho fatto una lunga passeggiata a piedi. Che bel sole! che bel verde! Quella ragazza che mi vende le viole ha detto che non mi ha mai visto così di buona cera. Anche qui si fa la corte, come laggiù la fanno a voi, e non potete immaginare quanto sia ingenua e credula la civetteria dei malati. Le ho dato venti lire. Quanta gente si può far contenta con venti lire. Ho portato il plaid sul braccio, tutto il dopo pranzo.
C’è un povero storpio che suona da un’ora il valzer di Madama Angot sotto le mie finestre. Sì, quella musichetta gaia può avere il suo merito anch’essa quanto il vostro Chopin e il vostro Mendelssohn. Le belle sere passate nel vostro salottino, guardandovi le mani e accarezzandovi i capelli! Non mi sgridate. Sono un gran colpevole che vi domanda perdono e viene a picchiarsi il petto dietro la vostra porta. Dove siete? Che avete pensato di me? Ero tanto lontano da voi, tanto! Ed ora desidero tanto di rivedervi! Basta, non ne parliamo. Non me lo merito, lo so. L’avete ancora quel serpentello d’oro al braccio? Come mi farebbe bene una bella chiacchierata con voi, di quelle chiacchierate che sapete fare, mezzo sdraiata sulla poltrona, e colle scarpette accavalciate l’una sull’altra! Sono circa sei mesi che non parlo. E vedete, che perciò chiacchiero, chiacchiero per lettera, e vi corro dietro con la mente, e con qualche altra cosa anche, qui nel petto… Se siete tuttora in collera, dovreste perdonarmi soltanto al pensare che, se voleste dirmi dove siete, verrei a piedi, come un pellegrino, a sciogliere il voto, foste anche in capo al mondo! Non mi sgomenterei, no! Ora son forte. Ah, com’è bella la vita!
Sì, vi avevo promesso: «Quando mi permetterete di venirvi a trovare… dovunque sarete…» Poi fui in collera con voi che m’avete lasciato partire. Quella sera che mi posaste la fronte sul petto, a Villa d’Este? Perché non siete venuta con me? Eravate tutta tremante. Mi amavate dunque? Perché non avete voluto che ci acciuffassimo pei capelli, io e quell’uomo? Che notte ho passato sotto le vostre finestre! Fu là che presi la tosse… E ve ne volli. Sì, sì, quando vi seppi partita, partita con colui, vi odiai, fui malato, volli dimenticarvi. Giuliano mi disse che San Mauro vi faceva la corte, e che il duca portava discretamente al collo la vostra catena. Che m’importa adesso? Io so che avete le mani bianche e che ve le siete lasciate baciare da me. So che a San Remo non siete più da un pezzo, e che mi avete aspettato colà, e che siete partita senza dire per dove. Ed io vi ho lasciata partire! Ero pazzo allora, o son pazzo adesso? Nessuno potrebbe dirlo. Quello che so di certo, è che in questo momento vorrei baciare ancora le vostre mani bianche.
Sorrento, 11 aprile
VIOLA cara! VIOLA bella! VIOLA bionda! Eccomi ginocchioni dinanzi a voi, con le mani in croce, la fronte sul tappeto. Lasciatemi baciare le vostre scarpette piccine! Sì, sì, lo so, sono molto colpevole. Non merito il perdono. Ditemelo, ma ditemelo voi stessa. Sono otto giorni che ho fatte le valige, e che aspetto una vostra parola, dura, assai dura, che mi dica di venirmi a chiedere perdono. Pensare che forse eravate sola a San Remo, e che avreste lasciato l’uscio socchiuso… Ah, come darei della testa nella parete! Sono stato peggio di colpevole: sono stato uno sciocco. Non ci cascate anche voi, se mi amate ancora, per picca, per dispetto. Pensate che potremmo vederci, soli, dirci colla bocca tutto ciò che ci siamo detto quella sera alla Fenice col cannocchiale! Vi dico delle cose pazze. Sono pazzo, vi giuro…
Sorrento, 16 aprile
GIACINTO supplica e scongiura a mani giunte VIOLA di fargli avere un rigo, una parola, qualunque sia, perché il silenzio implacabile di lei gli mette addosso tutte le febbri.
Sorrento, 29 aprile
Sentite, non ne posso più. Aspetterò qui la vostra lettera sino a domani. Domani, ultimo giorno d’aprile, non so quel che farò. Vi amo, vi amo, mi sento morire un’altra volta. Fatelo per pietà almeno, VIOLA! Stanotte ho tossito di nuovo e ho avuto la febbre.
Sorrento, 8 maggio
Ah, che siate proprio tale quale vi avevo giudicata! senza cuore, senza spirito, senz’altro che lo spumeggiare delle vostre trine e lo scintillìo dei vostri diamanti, frivola e dura altrettanto! Vi odio, vi detesto! Voi mi fate morire, consunto da questa febbre che mi avete messa nel sangue, maledetta! Tenetevi il duca che v’insulta co’ suoi doni. Tenetevi Giuliano, che si ride di voi. Tenetevi San Mauro che vi mette in un mazzo con le ballerine della Scala. Io vi ho buttato in faccia la giovinezza mia, che avete distrutto, la vita che mi avete succhiata coi baci, vampiro!
GIACINTO
Genova, 8 maggio
Aspettatemi. Verrò.
VIOLA
Napoli, 14 maggio
No, no, mio caro GIACINTO. E’ meglio non vederci più. Sono stata a trovarvi, incognita; l’albergatore mi aveva aperta una finestra sul giardino, dove eravate a passeggiare. Come siete mutato, mio povero e caro GIACINTO!
VIOLA è morta.