Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “Per le vie” (1883)
Novelle di Giovanni Verga
– Mal’erba? – Presente! – Qui ci manca un bottone, dov’è? – Io non so, caporale. – Consegnato! – Sempre così: il cappotto come un sacco, i guanti che gli davano noia, e non sapere più cosa farsi delle mani, la testa più dura di un sasso all’istruzione e in piazza d’armi. Selvatico poi! Di tutte le belle città dove si trovava di guarnigione, non andava a vedere né le strade, né i palazzi, né le fiere, nemmeno i baracconi o le giostre di legno. L’ora di sortita se la passava vagabondo per le vie fuori porta, colle braccia ciondoloni, o stava a guardare le donne che strappavano l’erba, accoccolate per terra in piazza Castello; oppure si piantava davanti il carrettino delle castagne, e senza spendere mai un soldo. I camerati si divertivano alle sue spalle. Gallorini gli faceva il ritratto sul muro col carbone, e il nome sotto. Egli lasciava fare. Ma quando gli rubavano per ischerzo i mozziconi che teneva nascosti nella canna del fucile, imbestialiva, e una volta andò in prigione per un pugno che accecò mezzo il Lucchese – si vedeva ancora il segno nero – e lui cocciuto come un mulo a ripetere: – Non è vero. – O allora, chi gli ha dato il pugno al Lucchese? – Non so -. Poi stava seduto sul tavolaccio, col mento fra le mani. – Quando torno al mio paese! – Non diceva altro.
– Infine, conta su. Ci hai l’amante al tuo paese? – domandava Gallorini. Egli lo fissava, sospettoso, e dimenava il capo. Né sì né no. Poscia si metteva a guardare lontano. Ogni giorno con un pezzetto di lapis faceva un segno su di un piccolo almanacco che aveva in tasca.
Gallorini invece ci aveva l’amante. Un donnone coi baffi che gli avevano visto insieme al caffè una domenica, seduti con un bicchier di birra davanti, e aveva voluto pagar lei. Il Lucchese se ne accorse ronzando lì intorno colla Gegia, la quale non gli costava mai nulla. Egli trovava delle Gegie dappertutto, colla sua parlantina graziosa, e perché non si avessero a male d’esser messe tutte in fascio sin pel nome, diceva che quello era l’uso del suo paese, quando una vi vuol bene, si chiami, Teresa, Assunta o Bersabea.
In quel tempo cominciò a correre la voce che s’aveva a far la guerra coi Tedeschi. Va e vieni di soldati, folla per le strade, e gente che veniva a vedere l’esercizio in Piazza d’Armi. Quando il reggimento sfilava fra le bande e i battimani, il Lucchese marciava baldanzoso come se la festa fosse stata fatta a lui, e Gallorini non la finiva più di salutare amici e conoscenti, col braccio sempre in aria, che voleva tornar morto o ufficiale, diceva.
– Tu non ci vai contento alla guerra? – domandò a Mal’erba quando fecero i fasci d’armi alla stazione.
Mal’erba si strinse nelle spalle, e seguitò a guardar la gente che vociava e gridava: – Evviva! –
Il Lucchese vide pur la Gegia, curiosa, la quale stava a vedere da lontano, in mezzo alla folla, tenendosi alle costole un ragazzaccio in camiciotto che fumava la pipa. – Questo si chiama mettere le mani avanti! – borbottava il Lucchese, che non poteva allontanarsi dalle file, e a Gallorini domandava se la sua s’era arruolata nei granatieri, per non lasciarlo.
Era come una festa dappertutto dove arrivavano. Bandiere, luminarie, e i contadini che correvano sull’argine della strada ferrata, a veder passare il treno zeppo di chepì e di fucili. Ma alle volte poi la sera, nell’ora in cui le trombe suonavano il silenzio, si sentivano prendere dalla melanconia della Gegia, degli amici, di tutte le cose lontane. Appena arrivava la posta al campo correvano in folla a stendere le mani. Mal’erba solo se ne stava in disparte grullo, come uno che non aspettava nulla. Egli faceva sempre il segno nell’almanacco, giorno per giorno. Poi stava a sentire la banda, da lontano, e pensava a chi sa cosa.
Una sera finalmente successe un gran movimento nel campo. Ufficiali che andavano e venivano, carriaggi che sfilavano verso il fiume. La sveglia suonò due ore dopo mezzanotte; nondimeno distribuivano già il rancio e levavano le tende. Poscia il reggimento si mise in marcia.
La giornata voleva esser calda. Mal’erba, il quale era pratico, lo sentiva alle buffate di vento che sollevavano il polverone. Poi era piovuto a goccioloni radi. Appena cessava l’acquata, di tratto in tratto, e lo stormire del granoturco, i grilli si mettevano a cantare forte nei campi, di qua e di là dello stradale. Il Lucchese che marciava dietro a Mal’erba si divertiva alle sue spalle: – Su le zampe, camerata! Cos’hai che non dici nulla? Pensi forse al testamento? –
Mal’erba con una spallata s’assestò lo zaino sulle spalle, e borbottò: – Cammina! – Lascialo stare, – prese a dire Gallorini. – Sta pensando all’innamorata, che se l’ammazzano i Tedeschi ne piglia un altro.
– Cammina tu pure! – rispose Mal’erba.
All’improvviso nella notte passò il trotto di un cavallo, e il tintinnìo di una sciabola, fra le due file del reggimento che marciavano dai due lati della strada.
– Buon viaggio! – disse poi il Lucchese, che era il buffo della compagnia. – E tanti saluti ai Tedeschi, se li incontra -.
A destra, in una gran macchia scura, biancheggiava un caseggiato. E il cane di guardia latrava furibondo, correndo lungo la siepe.
– Quello è cane tedesco, – osservò Gallorini, che voleva dire la barzelletta come il Lucchese. – Non lo senti all’abbaiare? –
La notte era ancora profonda. A sinistra come sopra un nugolone nero, che doveva essere collina, spuntava una stella lucente.
– O che ora sarà mai? – domandò Gallorini. Mal’erba levò il naso in aria, e rispose tosto:
– Ci vorrà almeno un’ora a spuntare il sole!
– Che sugo! – brontolò il Lucchese. – Farci far la levataccia per un bel nulla!
– Alt! – ordinò una voce breve.
Il reggimento scalpicciava ancora, come una mandra di pecore che si aggruppi. – O chi s’aspetta? – borbottò il Lucchese dopo un pezzetto. Passò di nuovo un gruppo di cavalieri. Stavolta nell’alba che cominciava a rompere si videro sventolare le banderuole dei lancieri, e avanti un generale, col berretto gallonato sino in cima, e le mani ficcate nelle tasche dello spenser. Lo stradale cominciava a biancheggiare, diritto, in mezzo ai campi ancora oscuri. Le colline sembravano spuntare ad una ad una nel crepuscolo incerto; e in fondo si vedeva un fuoco acceso, forse di qualche boscaiuolo, o di contadini che erano scappati dinanzi a quella piena di soldati. Gli uccelletti, al mormorio, si svegliavano a cinguettare sui rami dei gelsi che si stampavano nell’alba.
Poco dopo, a misura che il giorno andavasi schiarendo si udì un brontolìo cupo verso la sinistra, dove l’orizzonte s’allargava in un chiarore color d’oro e color di rosa, come se tuonasse, e faceva senso in quel cielo senza nuvole. Poteva essere il mormorio del fiume o il rumore dell’artiglieria in marcia. Ad un tratto corse una voce: – Il cannone! – E tutti si voltavano a guardare verso l’orizzonte color d’oro.
– Io sono stanco! – brontolò Gallorini. – Ormai dovrebbe far l’alto! – appoggiò il Lucchese.
Le chiacchiere andavano morendo a misura che i soldati si avanzavano nella giornata calda, fra le strisce di terra bruna, di seminati verdi, le vigne che fiorivano sulle colline, i filari di gelsi diritti sin dove arrivava la vista. Qua e là si vedevano dei casolari e delle cascine abbandonate. Accostandosi ad un pozzo, per bere un sorso d’acqua, videro degli arnesi a terra, accanto all’uscio di un cascinale, e un gatto che affacciava il muso fra i battenti sconquassati, miagolando.
– Guarda! – fece osservare Mal’erba. – Ci hanno il grano in spiga, povera gente!
– Vuoi scommettere che non ne mangi di quel pane? – disse il Lucchese.
– Sta’ zitto, jettatore! – rispose Mal’erba. – Io ci ho l’abitino della Madonna -. E fece le corna colle dita.
In quella si udì tuonare anche a sinistra, verso il piano. Da principio, dei colpi rari, che echeggiavano dal monte. Poscia un crepitìo come di razzi, quasi il villaggio fosse in festa. Al di sopra del verde che coronava la vetta si vedeva il campanile tranquillo, nel cielo azzurro.
– No, non è il fiume – disse Gallorini.
– E neppure dei carri che passano.
– Senti! senti! – esclamò Gallorini. – Laggiù la festa è cominciata.
– Alt! – ordinarono ancora. Il Lucchese ascoltava, colle ciglia in arco, e non diceva più nulla. Mal’erba aveva vicino un paracarro, e ci s’era messo a sedere, col fucile fra le gambe.
Il cannoneggiamento doveva essere in pianura. Si vedeva il fumo di ogni colpo, come nuvolette dense, che si levavano appena al di sopra dei filari di gelsi, e si squarciavano lentamente. I prati scendevano quieti verso la pianura, con il canto delle quaglie fra le zolle.
Il colonnello, a cavallo, parlava con un gruppo d’ufficiali, fermi sul ciglione della strada, guardando di tratto in tratto verso la pianura col cannocchiale. Appena si mosse al trotto, le trombe del reggimento squillarono tutte insieme: – Avanti! –
A destra e a sinistra si vedevano dei campi nudi. Poi qualche pezza di granoturco ancora. Poi delle vigne, poi delle gore d’acqua, infine degli alberetti nani. Spuntavano le prime case di un villaggio; e la strada era ingombra di carriaggi e di vetture. Un vocìo, un tramestìo da sbalordire.
Sopraggiunse di galoppo un cavalleggiero, bianco di polvere. Il suo cavallo, un morello tozzo e tutto crini, aveva le narici rosse e fumanti. Indi passò un ufficiale di stato maggiore, gridando come un ossesso di sgombrare la strada, picchiando colla sciabola a diritta e a manca su quei poveri muli borghesi. Attraverso gli olmi del ciglione si videro sfilare correndo dei bersaglieri neri, colle piume al vento.
Ora si erano messi per una stradicciuola che piegava a diritta. I soldati rompevano in mezzo al seminato, talché a Mal’erba gli piangeva il cuore. Sulla china di un monticello, videro un gruppo d’ufficiali a cavallo, con la scorta di lancieri dietro, e i cappelli a punta di carabinieri. Tre o quattro passi innanzi, a cavallo e col pugno sull’anca, c’era un pezzo grosso a cui i generali rispondevano colla mano alla visiera, e gli ufficiali passandogli dinanzi, salutavano colla sciabola.
– O chi è colui? – chiese Mal’erba.
– Vittorio, – rispose il Lucchese. – Che non l’hai mai visto nei soldi, sciocco! –
I soldati si voltavano a guardare, finché potevano. Poscia Mal’erba osservò fra sé: – Quello è il Re! –
Più in là c’era un torrentello asciutto. L’altra riva coperta di macchie saliva verso il monte, sparso di olmi scapitozzati. Il cannoneggiamento non si udiva più. Un merlo a quella pace s’era messo a fischiare nella mattinata chiara.
Tutt’a un tratto scoppiò come un uragano. La vetta, il campanile, ogni cosa fu avvolta nel fumo. Dei rami d’albero che scricchiolavano, della polvere che si levava qua e là nella terra, ad ogni palla di cannone. Una granata spazzò via un gruppo di soldati. In cima della collina si udivano di tratto in tratto delle grida immense, come degli urrà. – Madonna santa! – balbettò il Lucchese. I sergenti andavano ordinando di mettere a terra i zaini. Mal’erba obbedì a malincuore perché ci aveva due camicie nuove e tutta la sua roba.
– Lesti! lesti! – andavano dicendo i sergenti. Da una stradicciuola sassosa arrivarono di galoppo alcuni pezzi d’artiglieria, con un fragore di terremoto; gli ufficiali avanti, i soldati curvi sulla criniera irta dei cavalli fumanti, frustando a tutto andare, i cannonieri aggrappati ai mozzi e alle ruote, che spingevano su per l’erta.
In mezzo al rumore furioso delle cannonate si vide rovinare fuggendo per la china un cavallo ferito, colle tirelle pendenti, nitrendo, scavezzando viti, sparando calci disperati. Più giù, a frotte, soldati laceri, sanguinosi, senza chepì, che agitavano le braccia. Infine dei drappelli interi che rinculavano passo passo, fermandosi a far fuoco alla spicciolata, in mezzo agli alberi. Trombe e tamburi suonarono la carica. Il reggimento si slanciò alla corsa su per l’erta, come un torrente d’uomini.
Al Lucchese gli parlava il cuore: – Che furia per quel che ci aspetta lassù! – Gallorini gridava: – Savoia! – E a Mal’erba che aveva il passo pesante: – Su le zampe, camerata! – Cammina! – ripeteva Mal’erba.
Appena sulla vetta, in un praticello sassoso, si trovarono di faccia ai Tedeschi che si avanzavano fitti in fila. Corse un lungo lampo su quelle masse che formicolavano; la fucilata crepitò da un capo all’altro. Un giovanetto ufficiale, escito allora dalla scuola, cadde in quel momento, colla sciabola in pugno. Il Lucchese annaspò alquanto, colle braccia aperte, come se inciampasse, e cadde egli pure. Ma dopo non si vide più nulla. Gli uomini si azzuffavano petto a petto, col sangue agli occhi.
– Savoia! Savoia! –
Infine i Tedeschi ne ebbero abbastanza, e cominciarono a dare indietro passo passo. I cappotti grigi li inseguivano a stormi. Mal’erba nella furia del correre, pigliò come una sassata che lo fece zoppicare. Poi si accorse che gli colava il sangue pei pantaloni. Allora infuriato come un bue si slanciò a testa bassa, menando baionettate. Vide un gran diavolo biondo che gli veniva addosso con la sciabola sul capo, e Gallorini che gli appuntava alla schiena la bocca del fucile.
Le trombe suonavano a raccolta. Ora tutto quello che restava del reggimento, a stormi, a gruppi, correva verso il villaggio, che rideva al sole, in mezzo al verde. Però alle prime case si vide la carneficina che ci era stata. Cannoni, cavalli, bersaglieri feriti, tutto sottosopra. Gli usci sfondati, le imposte delle finestre che pendevano come cenci al sole. In fondo a una corte c’era un mucchio di feriti per terra, e un carro colle stanghe in aria, ancora carico di legna.
– E il Lucchese? – domandò Gallorini senza fiato.
Mal’erba l’aveva visto cadere. Nondimeno si voltò indietro per istinto verso il monte che formicolava di uomini e di cavalli. Le armi luccicavano al sole. Si vedevano, in mezzo alla spianata, degli ufficiali a piedi, i quali guardavano lontano col cannocchiale. Le compagnie calavano ad una ad una per la china, con dei lampi che correvano lungo le file.
Potevano essere le 10 – le 10 del mese di giugno, al sole.
Un ufficiale s’era buttato come arso sull’acqua dove lavavano gli scopoli dei cannoni. Gallorini stava disteso bocconi contro il muro del cimitero, colla faccia sull’erba; là almeno, dalle fosse, nell’erba folta, veniva un po’ di frescura. Mal’erba, seduto per terra, s’ingegnava a legarsi come poteva la gamba col fazzoletto. Pensava al Lucchese, poveretto, che era rimasto per via, a pancia in aria.
– Tornano! tornano! – si udì gridare. La tromba chiamava all’armi. Ah! stavolta era proprio stufo Gallorini! Nemmeno un momento di riposo! Si alzò come una bestia feroce, tutto lacero, e afferrò il fucile. La compagnia si schierava in fretta, alle prime case del paesetto, dietro i muri, alle finestre. Due pezzi di cannone allungavano la gola nera in mezzo alla strada. Si vedevano venire i Tedeschi in file serrate, un battaglione dopo l’altro, che non finivano mai.
Là fu colpito Gallorini. Una palla gli ruppe il braccio. Mal’erba lo voleva aiutare. – Che cos’hai? – Nulla, lasciami stare -. Il tenente faceva anche lui alle fucilate come un semplice soldato, e bisognò correre a dargli una mano, Mal’erba dicendo ad ogni colpo: – Lasciate fare a me che è il mio mestiere! – I Tedeschi scomparvero di nuovo. Poi fu ordinata la ritirata. Il reggimento non ne poteva più. Fortunati Gallorini e il Lucchese che riposavano. Gallorini s’era seduto a terra, contro il muro, e non si voleva più muovere. Erano circa le 4, più di otto ore che stavano in quella caldura colla bocca arsa di polvere. Però Mal’erba ci aveva preso gusto e domandava: – Ora che si fa? – Ma nessuno gli dava retta. Scendevano verso il torrentello, accompagnati sempre dalla musica che facevano le cannonate sul monte. Poscia da lontano videro il villaggio formicolare di uniformi di tela. Non si capiva nulla, né dove andavano, né cosa succedeva. Alla svolta di un ciglione s’imbatterono nella siepe dietro la quale il Lucchese era caduto. E neppure Gallorini non c’era più. Tornavano indietro alla rinfusa, visi nuovi che non si conoscevano, granatieri e fanteria di linea, dietro agli ufficiali che zoppicavano, laceri, strascinando i passi, col fucile pesante sulle spalle.
Calava la sera tranquilla, in un gran silenzio, dappertutto.
A ogni tratto si incontravano carri, cannoni, soldati che andavano al buio, senza trombe e senza tamburi. Quando furono di là del fiume, seppero che avevano persa la battaglia.
– O come? – diceva Mal’erba. – O come? – E non sapeva capacitarsi.
Poi, terminata la ferma, tornò al suo paese, e trovò la Marta che s’era già maritata, stanca d’aspettarlo. Anche lui non aveva tempo da perdere, e prese una vedova, con del ben di Dio. Qualche tempo dopo, lavorante alla ferrovia lì vicino, arrivò Gallorini, con moglie e figli anche lui.
– Tò Mal’erba! O cosa fai tu qui? Io faccio dei lavori a cottimo. Ho imparato il fatto mio all’estero, in Ungheria, quando m’hanno fatto prigioniero, ti rammenti? Mia moglie m’ha portato un capitaletto… Mondo ladro, eh? Credevi fossi arricchito? Eppure il nostro dovere l’abbiamo fatto. Ma chi va in carrozza non siamo noi. Bisogna dare una buona sterrata, e tornare a far conto da capo -. Coi suoi operai ripeteva pure le stesse prediche, la domenica, all’osteria. Essi, poveretti, ascoltavano, e dicevano di sì col capo, sorseggiando il vinetto agro, ristorandosi la schiena al sole, come bruti, al pari di Mal’erba, il quale non sapeva far altro che seminare, raccogliere e far figliuoli. Egli dimenava il capo per politica, quando parlava il suo camerata, ma non apriva bocca. Gallorini invece aveva girato il mondo, sapeva il fatto suo in ogni cosa, il diritto e il torto; sopra tutto il torto che gli facevano, costringendolo a sbattezzarsi e lavorare di qua e di là pel mondo, con una covata di figliuoli e la moglie addosso, mentre tanti andavano in carrozza.
– Tu non ne sai nulla del come va il mondo! Tu, se fanno una dimostrazione, e gridano viva questo o morte a quell’altro, non sai cosa dire. Tu non capisci nulla di quel che ci vuole! –
E Mal’erba rispondeva sempre col capo di sì. – Adesso ci voleva l’acqua pei seminati. Quest’altro inverno ci voleva il tetto nuovo nella stalla.