Decadentismo e novecento
28 Dicembre 2019Confronto fra i Malavoglia e Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga
28 Dicembre 2019Nell’Inferno, precisamente nel Canto X, Dante incontra il fiero Farinata degli Uberti, assieme a Cavalcante de’ Cavalcanti, e conosce il suo destino di esule.
Questo passo continua a sviluppare i temi dell’eresia e della divisione politica, con un’intensa riflessione sulla condizione dei dannati, la loro percezione del tempo e il legame tra il mondo terreno e quello ultraterreno.
Introduzione
Nel Canto X, Dante e Virgilio si trovano nel sesto cerchio dell’Inferno, dove sono puniti gli eretici. I dannati sono rinchiusi in tombe infuocate, e tra loro spiccano le figure di Farinata degli Uberti, un eminente capo ghibellino, e Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del poeta Guido Cavalcanti, amico di Dante. Il dialogo che segue verte su questioni politiche e personali, e riflette anche il concetto di conoscenza limitata dei dannati rispetto al futuro e al presente.
Analisi
Il primo incontro in questo brano è con Cavalcante de’ Cavalcanti, che emerge dalla tomba per chiedere notizie del figlio Guido, un poeta appartenente alla stessa cerchia culturale di Dante. Cavalcante, vedendo Dante, sospetta che il poeta sia lì grazie al proprio ingegno (“altezza d’ingegno”) e si chiede perché Guido non sia con lui, temendo per la sorte del figlio.
Dante risponde dicendo che non è lì per propria volontà, ma è condotto da Virgilio, “forse” colui che Guido aveva disprezzato (un riferimento alle tensioni filosofiche tra Guido, razionalista, e Virgilio, simbolo di sapienza antica). Questa affermazione lascia intendere che Guido sia morto, causando un drammatico crollo emotivo in Cavalcante, che, sconvolto, si ritrae nuovamente nella sua tomba.
L’altro dialogo, con Farinata degli Uberti, si concentra maggiormente su questioni politiche. Farinata, che resta impassibile durante tutto il confronto, esprime il suo tormento non tanto per la pena fisica, ma per il dolore di vedere che la sua “arte” politica, quella dei ghibellini, non è stata appresa dai suoi discendenti e dalla sua fazione. Farinata profetizza a Dante che in breve tempo egli stesso sperimenterà il peso di questa “arte”, alludendo al futuro esilio di Dante da Firenze.
Il discorso di Farinata si sposta poi sulla questione politica: chiede a Dante perché il popolo fiorentino sia tanto ostile verso i suoi discendenti. Dante risponde collegando l’odio popolare alla battaglia di Montaperti, in cui il sangue dei fiorentini fu sparso a causa della vittoria dei ghibellini. Farinata, tuttavia, afferma di essere stato l’unico a difendere Firenze quando i ghibellini volevano distruggerla.
Nella parte finale, Dante chiede a Farinata di spiegare la capacità di prevedere il futuro e il legame con la conoscenza dei dannati. Farinata spiega che i dannati possono vedere il futuro, ma non hanno cognizione degli eventi presenti a meno che non venga loro riferito da qualcuno, e che questa conoscenza si estinguerà completamente dopo il Giudizio Universale.
Commento
Questo brano mette in risalto due grandi temi danteschi: la politica e la condizione esistenziale dei dannati. L’incontro con Farinata e Cavalcante è emblematico della profondità emotiva e filosofica dell’Inferno, dove il dolore personale si mescola con le grandi questioni politiche del tempo. La figura di Cavalcante rappresenta il dolore del padre per la possibile perdita del figlio, e il suo crollo emotivo dimostra come anche le grandi figure storiche e intellettuali siano vulnerabili di fronte all’affetto familiare.
Farinata, d’altra parte, incarna la figura del grande leader politico, ma il suo tormento non è tanto legato alla pena fisica, quanto alla consapevolezza che il suo retaggio politico e familiare è destinato a fallire. La sua “magnanimità” si manifesta non tanto nell’accettazione della pena, ma nel disprezzo per essa, così come nella sua difesa eroica di Firenze, nonostante le divisioni politiche.
Il dialogo finale tra Dante e Farinata introduce una riflessione sulla conoscenza dei dannati. Essi sono in grado di vedere il futuro, ma non hanno alcuna percezione del presente. Questo è un segno dell’incompletezza della loro condizione: sanno cosa accadrà, ma sono ciechi rispetto alla realtà corrente. Questo limita la loro comprensione e amplifica il loro tormento, perché sono costretti a vivere nell’incertezza e nella separazione dalla realtà.
Parafrasi
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
Cavalcante de’ Cavalcanti mi guardò intorno, come se desiderasse vedere se qualcun altro fosse con me; e una volta che i suoi sospetti furono del tutto dissipati,
piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?”.
disse, piangendo: “Se stai attraversando questo oscuro carcere grazie alla tua grande intelligenza, dov’è mio figlio? E perché non è con te?”
E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.
E io gli risposi: “Non sono qui per mia volontà: colui che mi aspetta (Virgilio) mi sta conducendo qui, forse colui che vostro figlio Guido disprezzò”.
Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Le sue parole e il tipo di pena mi avevano già fatto capire chi fosse; ecco perché la mia risposta fu così diretta.
Di sùbito drizzato gridò: “Come?
dicesti ‘elli ebbe’? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”.
Improvvisamente si rizzò gridando: “Come? Hai detto ‘ebbe’? Non è più vivo? Non vede ancora la dolce luce del sole?”
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Quando si accorse che esitavo a rispondere, si lasciò ricadere supino nella sua tomba, e non si mostrò più.
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
Ma quell’altro grande spirito (Farinata), accanto al quale mi ero fermato, non cambiò espressione, non mosse il collo né piegò il busto;
e sé continüando al primo detto,
“S’elli han quell’arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
e, riprendendo il discorso, disse: “Se i miei discendenti hanno appreso male quell’arte (la politica), questo mi tormenta più di questa tomba infuocata.”
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.
Ma non passeranno cinquanta cicli lunari (la luna è la “donna” che qui regge) prima che tu stesso sappia quanto quell’arte è pesante.”
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”.
E se mai tornerai nel dolce mondo dei vivi, dimmi: perché il popolo fiorentino è così ostile contro i miei discendenti in ogni legge?”
Ond’io a lui: “Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio”.
E io a lui: “La carneficina e la grande devastazione che rese l’Arbia rossa di sangue fa sì che ancora oggi nel nostro tempio si preghi contro di voi.”
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Dopo aver mosso il capo sospirando, disse: “Non fui io solo responsabile di ciò, e sicuramente non sarei stato coinvolto senza un giusto motivo.”
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”.
Ma fui io solo, quando fu deciso da tutti di distruggere Firenze, colui che la difese apertamente.”
“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
“Oh, se mai la vostra discendenza avrà pace,” lo pregai, “scioglimi quel dubbio che ha avvolto il mio pensiero.”
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo”.
“Sembra che voi possiate vedere, se ho capito bene, ciò che il futuro porta con sé, ma abbiate una conoscenza diversa del presente.”
“Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose”, disse, “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
“Noi vediamo le cose future come chi ha una vista debole,” disse, “ciò che è lontano, grazie alla luce del Sommo (Dio), ci appare.”
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Ma quando le cose si avvicinano o accadono, la nostra intelligenza è inutile; e se qualcuno non ce lo riferisce, non sappiamo nulla del vostro mondo.”
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta”.
Perciò puoi capire che la nostra conoscenza sarà del tutto morta da quel momento in cui la porta del futuro ci sarà chiusa.”
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: “Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
Allora, come punito dal senso di colpa, dissi: “Dunque, riferirete a quel caduto (Cavalcante) che suo figlio è ancora tra i vivi;
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto”.
e se prima sono rimasto in silenzio nella risposta, fategli sapere che l’ho fatto perché già stavo riflettendo sull’errore che mi avete chiarito.”
E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.
E già il mio maestro mi stava richiamando; perciò pregai lo spirito più rapidamente di dirmi chi era con lui nella tomba.
Dissemi: “Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”.
Mi disse: “Qui giaccio con più di mille altri: qui dentro c’è Federico II e il cardinale (Ottaviano degli Ubaldini); degli altri taccio.”
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Poi sparì; e io mi voltai verso il mio antico poeta, riflettendo su quel discorso che mi sembrava ostile.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.
Egli si mosse, e poi, mentre camminavamo, mi disse: “Perché sembri così confuso?” E io gli risposi alla sua domanda.
“La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito:
“Conserva nella tua mente ciò che hai sentito contro di te,” mi ordinò quel saggio (Virgilio); “e ora fermati qui,” e indicò con il dito:
“quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio”.
“Quando sarai di fronte alla dolce luce di colei (Beatrice) il cui bell’occhio tutto vede, da lei saprai il cammino della tua vita.”
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,
Poi mosse il piede a sinistra: lasciammo il muro e ci dirigemmo verso il centro (della città di Dite) per un sentiero che conduceva a una valle,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
il cui fetore era tanto insopportabile da arrivare fino in cima.
Solo Testo degli ultimi versi del decimo canto dell’Inferno di Dante
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,57
piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?”.60
E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.63
Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.66
Di sùbito drizzato gridò: “Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”.69
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.72
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;75
e sé continüando al primo detto,
“S’elli han quell’arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.78
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.81
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”.84
Ond’io a lui: “Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio”.87
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.90
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”.93
“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.96
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo”.99
“Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose”, disse, “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.102
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.105
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta”.108
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: “Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;111
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto”.114
E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.117
Dissemi: “Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”.120
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.123
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.126
“La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito:129
“quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio”.132
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,135
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.