Marco Porcio Catone
28 Dicembre 2019Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
28 Dicembre 2019Il Canto XVII del Paradiso fa parte della terza cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri, e contiene l’ultima profezia sull’esilio di Dante.
In questo canto, Dante si trova nel Cielo di Marte e parla con il suo trisavolo, Cacciaguida.
I primi 60 versi di questo canto tipicamente trattano:
- L’anticipazione di Dante nell’ascoltare una profezia da Cacciaguida.
- Un paragone tra i sentimenti di Dante e quelli di Fetonte quando si avvicinò a suo padre Apollo.
- L’incoraggiamento di Cacciaguida a Dante affinché parli liberamente e ponga le sue domande.
- Dante che esprime le sue preoccupazioni riguardo al suo futuro esilio da Firenze.
Questo canto è particolarmente importante perché affronta il destino personale di Dante e la profezia del suo esilio. Tocca anche temi come la famiglia, il destino e il rapporto tra cielo e terra.
Il canto inizia con Dante che si paragona a Fetonte, il quale chiese conferma della sua paternità ad Apollo. Questo paragone serve a sottolineare l’importanza del momento e l’ansia di Dante nell’affrontare la rivelazione del suo futuro.
Cacciaguida, vedendo i pensieri di Dante, lo incoraggia a esprimere liberamente le sue domande. Dante, quindi, chiede chiarimenti sulle predizioni sul suo futuro che ha sentito durante il suo viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio.
Questa parte del canto è cruciale per comprendere il percorso personale di Dante e il suo ruolo come poeta-profeta. La profezia dell’esilio, in particolare, diventa un elemento centrale non solo per la vita di Dante, ma anche per la struttura e il significato dell’intera Divina Commedia.
Testo dei primi 60 versi del diciassettesimo canto del Paradiso di Dante
Testo
Qual venne a Climenè, per accertarsi tal era io, e tal era sentito Per che mia donna «Manda fuor la vampa non perché nostra conoscenza cresca «O cara piota mia che sì t’insusi, così vedi le cose contingenti mentre ch’io era a Virgilio congiunto dette mi fuor di mia vita futura per che la voglia mia saria contenta Così diss’ io a quella luce stessa Né per ambage, in che la gente folle ma per chiare parole e con preciso «La contingenza, che fuor del quaderno necessità però quindi non prende Da indi, sì come viene ad orecchia Qual si partio Ipolito d’Atene Questo si vuole e questo già si cerca, La colpa seguirà la parte offensa Tu lascerai ogne cosa diletta Tu proverai sì come sa di sale |
Parafrasi Come Fetonte andò da sua madre Climene per accertarsi di ciò che aveva sentito dire sul suo conto (cosa che ancora oggi rende i padri prudenti nel parlare ai figli), così ero io, e così mi percepivano sia Beatrice che Cacciaguida, che prima si era spostato per parlare con me. Perciò Beatrice mi disse: “Esprimi il tuo desiderio, in modo che esca ben definito dal tuo interno: non perché la nostra conoscenza aumenti con le tue parole, ma perché tu ti abitui a esprimere la tua sete, così che gli altri possano dissetarti”. “O mio caro antenato, che ti sei innalzato così in alto, tu che, come le menti terrene vedono che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi, così vedi le cose future prima che accadano, guardando Dio in cui tutti i tempi sono presenti; mentre ero con Virgilio sul monte che purifica le anime e scendendo nel mondo dei morti, mi furono dette parole gravi sul mio futuro, anche se mi sento ben preparato ai colpi della sorte; perciò il mio desiderio sarebbe soddisfatto se potessi sapere quale destino mi si avvicina: perché una freccia prevista arriva più lenta”. Così dissi a quella luce che mi aveva parlato prima; e come volle Beatrice, espressi il mio desiderio. Non con parole ambigue, in cui la gente sciocca si perdeva prima che fosse ucciso l’Agnello di Dio che toglie i peccati, ma con parole chiare e in preciso latino rispose quell’amore paterno, velato e visibile nel suo stesso sorriso: “La contingenza, che non si estende fuori del libro della vostra materia, è tutta dipinta nella visione eterna di Dio; tuttavia da ciò non prende necessità, se non come dall’occhio in cui si riflette una nave che scende per un fiume. Da lì, come giunge all’orecchio una dolce armonia dall’organo, mi viene alla vista il tempo che ti si prepara. Come Ippolito dovette partire da Atene per colpa della spietata e perfida matrigna, così tu dovrai partire da Firenze. Questo si vuole e questo già si cerca, e presto sarà fatto da chi lo pensa là dove Cristo si vende ogni giorno. La colpa sarà attribuita alla parte offesa, come è solito accadere; ma la vendetta divina sarà testimone della verità. Tu lascerai ogni cosa più caramente amata; e questa è la freccia che l’arco dell’esilio scocca per prima. Tu proverai come sa di sale il pane altrui, e come è duro cammino lo scendere e il salire per le scale degli altri.” |