Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon
28 Dicembre 2019Seconda parte del Carme dei Sepolcri vv. 91-172
28 Dicembre 2019I versi 37-75 del Canto XXXIII dell’Inferno di Dante Alighieri narrano il tragico racconto del conte Ugolino della Gherardesca, imprigionato e lasciato morire di fame insieme ai suoi figli e nipoti.
Questo episodio è uno dei più drammatici e celebri di tutta la Divina Commedia, situato nel nono cerchio dell’Inferno, riservato ai traditori.
Analisi e Contesto
Ugolino inizia il suo racconto spiegando che parlare del suo dolore è straziante, ma che è disposto a farlo se questo può gettare infamia sul traditore che sta rosicchiando, l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Il conte Ugolino era infatti un nobile pisano tradito dall’arcivescovo Ruggieri, con il quale aveva tramato per il controllo di Pisa. Tuttavia, Ruggieri lo tradì, lo fece arrestare e imprigionare nella Torre della Muda, insieme ai suoi figli e nipoti, dove furono lasciati morire di fame.
L’immagine del sogno profetico di Ugolino è particolarmente potente e descrive come lui si sia visto in sogno, insieme ai suoi figli, inseguito da cani feroci guidati da Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, altre famiglie pisane che parteciparono al suo tradimento. Questo sogno rappresenta la predizione della loro morte imminente.
Il risveglio è ancora più angosciante: Ugolino sente i suoi figli piangere e chiedere del pane, ma non può fare nulla per aiutarli. Questo momento è uno dei più strazianti della Divina Commedia, e la crudeltà della situazione è sottolineata dall’invito di Ugolino a Dante (e al lettore) di considerare quanto sia doloroso immaginare tale scena senza commuoversi.
Questa parte del canto XXXIII è emblematica della profondità psicologica e dell’orrore morale che Dante riesce a infondere nella sua opera, rendendo il tradimento e la fame elementi centrali del tormento infernale.
Testo dei versi 37-75 del Canto trentatreesimo dell’Inferno di Dante E PARAFRASI
SOLO Testo dei versi 37-75 del Canto trentatreesimo dell’Inferno di Dante
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.39
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?42
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;45
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.48
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.51
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.54
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,57
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi60
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.63
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?66
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.69
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,72
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.75