[Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de’ Donati di Fiorenze col quale molto parla.]
Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava ïo sì come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché ‘l tempo che n’è imposto più utilmente compartir si vuole».
Io volsi ‘l viso, e ‘l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l’andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar s’udìe ‘Labïa mëa, Domine‘ per modo tal, che diletto e doglia parturìe.
«O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?», comincia’ io; ed elli: «Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo».
Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d’anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l’ossa la pelle s’informava.
Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando più n’ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco la gente che perdé Ierusalemme, quando Maria nel figlio diè di becco!’.
Parean l’occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge ‘omo’ ben avria quivi conosciuta l’emme.
Chi crederebbe che l’odor d’un pomo sì governasse, generando brama, e quel d’un’acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».
Mai non l’avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», rispuos’ io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr’ io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».
Ed elli a me: «De l’etterno consiglio cade vertù ne l’acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e ‘n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar n’accende cura l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire ‘Elì‘, quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese, da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l’ora del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua sù venuto ancora? Io ti credea trovar là giù di sotto, dove tempo per tempo si ristora».
Ond’ elli a me: «Sì tosto m’ha condotto a ber lo dolce assenzo d’i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, e liberato m’ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedov’ella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica che la Barbagia dov’ io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica? Tempo futuro m’è già nel cospetto, cui non sarà quest’ ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna, già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder qui non m’inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira là dove ‘l sol veli».
Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l’altr’ ier, quando tonda vi si mostrò la suora di colui»,
e ‘l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m’ha d’i veri morti con questa vera carne che ‘l seconda.
Indi m’han tratto sù li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che ‘l mondo fece torti.
Tanto dice di farmi sua compagna che io sarò là dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio è questi che così mi dice», e addita’lo; «e quest’ altro è quell’ ombra per cuï scosse dianzi ogne pendice