Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
Quando la signora Silverio tornò insieme al marito – da Nuova York, da Melbourne, chi lo sa? – tutti videro ch’era finita per lei, povera Ginevra. Metteva del rossetto; portava ancora la pelliccia nel mese di maggio; veniva a cercare il sole e l’aria di mare alla Riviera di Chiaja, dalle due alle quattro, nella carrozza chiusa, come un fantasma. Ma ciò che stringeva maggiormente il cuore era la macchia sanguigna di quell’incarnato falso nel pallore mortale delle sue guance, e il sorriso con cui rispondeva al saluto degli amici – quel triste sorriso che voleva rassicurarli.
Anche il Comandante non si riconosceva più: aveva la barba quasi grigia, le spalle curve, e delle rughe che dicevano assai su quella faccia abbronzata d’uomo di mare. Indovinavasi ciò che avessero dovuto fargli soffrire i farfalloni che svolazzavano un tempo intorno alla sua bella Ginevra, adesso che non era più geloso di lei, ed era tornato a prendersela sotto il braccio pietosamente, chinando il capo a tutti i suoi capricci, quasi sapesse che la poveretta non ne avrebbe avuti per molto tempo…
Dopo era ripartito subito, per ordine superiore, dicevasi; e dicevasi pure che l’ordine d’imbarcare l’avesse chiesto colla stessa sollecitudine con cui un tempo aveva desideravo di non lasciare la moglie e il Dipartimento di Napoli. Essa, disperatamente, s’attaccava alla vita colle manine scarne, povera donna, e affaticavasi a menare a spasso i suoi guai e i suoi terrori segreti, ai balli, in teatro, come ripresa dalla febbre mondana – e forse era la stessa febbre che la teneva in piedi, sotto le armi, torturandosi delle ore dinanzi allo specchio, per strascinarsi poi col fiato ai denti sino al suo palchetto, o per passare soltanto da una sala da ballo. – Ma così felice, sotto la carezza dei binoccoli che si puntavano sul suo petto anelante, e sembravano scaldarle il sangue nelle vene! Così grata a quell’anima buona che venisse a farle un briciolo di corte! – Senza cadere in tentazione, no! La tentazione ormai era lontana, e le aveva lasciato i lividori sulle carni. – Tanto che sorrideva al marito, quando egli era ancora lì, come a dirgli:
– Vedi, che male c’è?… –
Aveva preso un quartiere in via di Chiaja, per stare notte e giorno in mezzo al rumore e al movimento della città; perché gli amici venissero a trovarla più facilmente, all’uscire dal teatro o prima di pranzo, e riceveva specialmente il mercoledì sera. Suo marito stesso me ne aveva fatto cenno al caffè, prima di partire, dimenticando le sue prevenzioni contrarie e forse anche i suoi sospetti: – Venga a trovarla, povera Ginevra. Le farà tanto piacere -.
Ella accoglieva con gran festa tutti quanti. Appena mi vide, mi corse incontro col suo bel sorriso che innamorava, stendendomi le mani.
Era proprio tornata la bella signora Silverio che ci faceva perdere la testa a tutti noi della Regia Marina, quando i dis’inganni e le amarezze non avevano ancora spento il suo bel sorriso civettuolo, e messo qualcosa di duro nella linea delle sue labbra. – Ho lasciato tutto lì, le noie, le cose tristi! – pareva dire; e faceva un gesto grazioso col braccio esile, accennando lontano, allorché tornavano nel discorso i ricordi malinconici.
Al primo vederla, sotto il gran paralume chinese vicino al quale stava più volentieri, non mi parve nemmeno tanto patita. Dei pizzi superbi davano una certa vaporosità alla sua figurina snella, e dei grossi filari di perle le coprivano interamente la scollatura del vestito. Ripeteva sovente: – Adesso sto bene. Son guarita interamente -.
Sorrideva anche delle sue paure. Soleva rammentarle soltanto per far capire che le avevano lasciato una grande indulgenza per tutte le debolezze e tutti gli errori umani. – E i tradimenti anche! – mi disse, spalancando gli occhioni, e accennando col muovere del capo e col sorriso che mi accusavano. – Sapete che sono stata molto male, caro d’Arce? Ho creduto di fare il gran viaggio! Torno da lontano, adesso… di laggiù, dove si sa tutto, e tutto si perdona!… –
Si volse a cercare la sua amica Maio, e la pregò lei stessa di offrirmi il thè. Da lontano vidi i suoi occhi fissi su di noi, nel breve istante che scambiammo un profondo inchino cerimonioso. Poi la bella Maio tornò a raccogliere gli omaggi altrui come una regina.
Quando andai a posare la tazza vuota sul tavol’inetto, al quale la signora Ginevra appoggiava di tanto in tanto la mano, coll’aria un po’ stanca e affaticata, ella mi chiese a bruciapelo, fissandomi in viso quegli occhi luminosi:
– Così? Non avete più nulla da dirvi, né voi né lei?
– Ahimè, no.
– Oooh! – esclamò ridendo, – oooh!… –
E inzuccherò senza pietà il thè dell’Ammiraglio.
La contessa Ardil’io le offrì di aiutarla. Ella accettò subito per venire a sedere accanto a me su di un canapè d’angolo.
– Abbiamo molte cose da dirci; ma è meglio non parlarne, è vero? A che serve oramai? Siamo perfettamente ragionevoli tutti e due… Allora… quando seppi il torto che avete fatto alla parola datami… il giuramento del marinaio, vi rammentate?… – E sorrideva, povera Ginevra. – Però non ve ne volli… né a voi, né a lei… Ebbi dei torti anch’io… Ma voi sapevate che non ero libera… –
Allora mi parlò francamente di Alvise, il solo che non potesse farsi vivo fra i suoi amici. – Anch’io ho bisogno di perdono, lo so!… Ora tutto ciò è passato… lontano tanto!… Vedete come ve ne parlo?… –
Tornava a fare quel gesto vago, tirando in su i guanti lunghissimi. Tutta la sua civetteria riducevasi adesso a una cura gelosa di nascondere le sue povere carni mortificate. E di colui pel quale aveva sentito forse più trionfante la vanità della sua bellezza, quando appariva in una festa, colle spalle e le braccia nude, soltanto per lui, discorreva adesso tranquillamente, con una certa amara disinvoltura. Solamente non lo chiamava più pel suo nome di battesimo:
– Povero Casalengo… Un buon amico e un uomo di mondo… Dei pochi che sappiano pigliarlo com’è, il mondo!… –
Rammentava ancora gli altri, passando in rivista delle memorie che accendevano dei punti luminosi nelle sue pupille. D’un solo non fece motto, forse perché era ancora troppo presente dinanzi ai suoi occhi, quando parevano oscurarsi a un tratto, e pareva come delle ombre livide le lambissero il viso emaciato.
Ma tornava subito gaia e sorridente, occupandosi dei suoi invitati, facendosi in quattro per pensare a tutti. Si avventurò sino all’uscio del salotto ove fumasi, col fazzoletto alla bocca, con quella gaiezza che rendeva così ospitale la sua casa.
– No, no, mi piace anzi! Fumerei anch’io, se non mi facesse tossire -. Avrebbe chiuso gli occhi, e si sarebbe lasciata soffocare per far piacere agli altri, ed avere tutte le sere la casa piena di gente sana e allegra che la facessero illudere d’esser sana e allegra lei pure. Aveva inchiodato Sansiro al pianoforte, e minacciava di fare un giro di valzer.
– No! con lei, no! giammai! – mi disse respingendomi con le braccia tese.
Sembrava proprio rivivere nel suo elemento, e parlava insino di «lasciarsi andare» a bere «qualcosa di forte» eccitandosi, colle guance già accese e il sorriso ebbro, lei che aspirava soltanto delle lunghe boccate d’etere «per tenersi su». Però, di tanto in tanto, alla sfuggita, guardavasi furtivamente negli specchi, e l’occhiata ansiosa, quasi smarrita, tradiva l’interno sbigottimento. Tutt’a un tratto, mentre mesceva il thè a dei giovanotti ch’erano giunti tardi, venne meno fra le braccia di Serravalle, tutta di un pezzo, come un cencio. Nondimeno, appena si riebbe alquanto, cercò di rassicurare amici ed amiche che le si affollavano intorno, volgendo la cosa in scherzo, bianca come il suo vestito, facendosi vento col fazzoletto, balbettando, col sorriso smorto:
– Ah!… la colpa è di Serravalle!… Non posso vedermelo accanto senza cadergli fra le braccia… E’ destinato, povero Serravalle!… Si rammenta, quella volta che si ballava insieme in casa Maio? –
Fu l’ultima sua festa, povera donna. A poco a poco gli amici dileguarono quasi tutti; e ciò la rattristiva assai, quantunque non lo dicesse. Chiedeva di loro ai pochi fedeli che continuavano a farle visita, di tanto in tanto. Un giorno che le recai il saluto di Alvise provò un gran piacere. – Ah, Casalengo… si rammenta!… – mormorò lieta.
Volle anche sapere a chi Casalengo facesse la corte, in quel tempo, e le sfavillavano gli occhi alle piccole maldicenze che si fanno sottovoce nei circoli mondani.
– Colui, sì!… sa vivere! – ripeté, e accennava pure col capo, assorta.
Mi era grata del tempo che rubavo «all’altra mia amica» per dedicarlo a lei, e mi chiamava «il suo buon fratello». – Fratello, non è vero? – ripeteva colla sua grazia maliziosa. E c’era quasi un rimasuglio di rancore involontario nella carezza della parola affettuosa.
Alcune volte, quando mi diceva quelle cose, specie sull’imbrunire, che provava una gran tristezza e mi aveva pregato di non lasciarla mai sola, al vedere i suoi occhi luminosi, il sorriso ancora dolce che le rianimava il viso e pareva dissiparne le ombre, mi sentivo riprendere irresistibilmente da quella moribonda, con un’immensa dolcezza amara.
Essa preferiva quell’ora, l’angolo del salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava il suo pallore e il suo male. Era il suo pudore e l’ultima sua civetteria. Nell’ombra sentiva che il suo profumo e la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra che avevo conosciuta un tempo.
– Colei lo sa che siete qui… che fate un’opera buona… per meritarvi il paradiso? –
Come diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come attiravano verso di lei quell’anelito frequente e quelle povere mani febbrili!
– No… non mi fiderei più degli amici… e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro d’Arce! –
Una sera che aveva tossito più del solito, e parlava più triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che schermivasi dalla luce colla mano aperta:
– Noi non siamo stati mai… nulla. Ecco perché mi siete rimasto fedele -.
Le si era fatta la voce un po’ roca. Tutto ciò che le veniva alla mente e sulle labbra aveva la stessa velatura stanca, e un abbandono che avvinceva me pure. Senza quasi avvedermene le avevo preso la mano, ed essa me la lasciò, calda ed inerte. Allora, senza guardarmi, quasi senza volerlo, mi confidò il segreto di ciò che aveva sofferto laggiù, lontana da tutti, in paese straniero. Una storia semplice e dolorosa, senza dramma, senza neppure l’ombra di una rivale. Colui pel quale aveva abbandonata la sua casa e la sua patria non l’amava più: ecco tutto. – Amore… chi lo sa?
Anch’io avevo amato Casalengo… o m’era parso, prima di lasciarlo per quell’altro… Per una parola che ci suoni meglio all’orecchio, per un’occhiata che lusinghi il nostro vestito nuovo, per una frase musicale che ci faccia sognare ad occhi aperti… Ecco perché ci perdiamo, e ciò che forma quest’amore. Quando egli non ebbe più dinanzi altre seduzioni con cui confrontare la mia, quando non temé più altri rivali… Una mattina, sull’alba, tornò pallido e fosco. Aveva perduto. Giuocava da un pezzo, da che non mi amava più. E si voleva uccidere perché non poteva pagare… Non per me… Lui che aveva tutte le delicatezze, tutta la poesia, tutta la nobiltà dell’animo.
E l’ultima rottura fra di noi, l’ingiuria che non poté perdonarmi, fu quando gli offrii d’aiutarlo, io ch’ero parte di lui, che vivevo soltanto per lui, che gli avevo sacrificato ben altro, che non sapevo cosa farmi del mio denaro… Mi lasciava appunto per questo, perché egli non ne aveva più. L’onore degli uomini è così fatto. Poi, quand’egli fu partito, colui che aveva detto di non poter vivere senza di me, lasciandomi sola e moribonda in un albergo… mio marito ebbe pietà di me – lui che non mi amava più e non doveva più amarmi… Pagò un altro debito d’onore anche lui… –
Parlava calma, con un filo di voce, interrompendosi di tratto in tratto e lasciando morire in un soffio certe parole. Le passò sul volto un sorriso che la fece sembrare più pallida.
– Povero d’Arce! V’ho intronate le orecchie per narrarvi le solite storie. Cose che succedono a tutti… Lo sappiamo e torniamo a cascarci. Allora vuol dire che dev’essere così, non è vero? Anche voi… –
Nel luglio e l’agosto stette meglio. Però non si lasciò indurre a mutar paese per qualche tempo. Il silenzio e la quiete della campagna le facevano paura. Volle piuttosto andare alla festa di Piedigrotta. S’era fatto fare apposta un vestito elegantissimo, e aveva combinato una carrozzata allegra, nella quale ero invitato io pure. – La Maio, no! – mi disse sfavillante. Tutto quel chiasso e quel movimento l’eccitavano assai.
Tornò stanchissima e si mise a letto per due o tre giorni. Dopo si strascinò ancora un pezzo fra letto e lettuccio. La tristezza delle giornate autunnali la pigliava lentamente. Se non mi vedeva all’ora solita, mi teneva il broncio, quasi avessi mancato a una tacita promessa. Faceva spesso dei progetti per l’avvenire; s’illudeva più facilmente, ora che le fuggiva la terra sotto i piedi, e che non aveva più la forza di strascinarsi sino al canapè. Così tenacemente s’attaccava al mio braccio, che le parlavo anch’io di Sorrento e di Nizza, col cuore stretto. Ella diceva di sì, di sì, tutta contenta, tornando ad affermare col capo, tornando a sorridere come una bambina.
Consultava insieme a me delle guide e dei giornali di mode, e aveva fissato l’epoca del viaggio: – Dopo il carnevale, appena tornerà la primavera. Tornerò a rifiorire anch’io, vedrete! tutti v’invidieranno la vostra bella amica… Amica, veh! –
Aveva ordinato degli abiti da ballo per quell’inverno. Si faceva bella ancora per me. Diceva «che erano le sue prove generali». Una sera si fece trovare in abito da ballo, presso un gran fuoco. Com’era contenta, povera Ginevra! Quel sorriso ingenuo nella bocca e negli occhi che le mangiavano il viso, mi mise un brivido nei capelli: lo stesso brivido che mi faceva trasalire quando l’udivo gemere sottovoce nella stanza accanto per abbigliarsi – e quel giorno che la cameriera mi chiamò spaventata, cercando colle mani tremanti la boccettina d’etere sopra la tavoletta. Essa, pure in quel momento, coprivasi colle mani il misero petto scarno…
Una volta mi disse: – Quanto saremmo stati felici… allora… di poterci vedere liberamente, come adesso!… –
In dicembre peggiorò rapidamente. Non si alzò più dal letto; non parlò più di viaggi. Il parlare stesso la stancava. La baraonda e l’allegria fragorosa del Natale napoletano le davano noia. Sembrava distaccarsi a poco a poco da ogni cosa.
Però voleva ancora che andassi a vederla spesso, più che potevo, e lagnavasi che tutti l’abbandonassero. Stava poi ad ascoltarmi, immobile, guardandomi fisso. Alle volte i suoi occhi si offuscavano, quasi guardassero dentro se stessa, o in un gran buio, e il viso le si affilava maggiormente, con un’espressione d’angoscia vaga. Dopo sembrava ritornare da lontano, con una cert’aria smarrita. Mi sorrideva dolcemente, quasi per scusarsi dell’involontaria distrazione, ma in modo che stringeva il cuore.
In quei giorni tornò a Napoli suo marito, chiamato per telegrafo. Essa volle festeggiare con lui l’ultima sera dell’anno, e invitò pochi amici. Le avevano apparecchiato un tavolino accanto al letto, e dei fiori, un gran numero di candele nella camera. Era raggiante, poveretta, e sembrava proprio una bambina, sparuta, fra le gale e i pizzi della cuffia e del corsetto. Ci salutava col capo ad uno ad uno, alzando verso di noi la coppa nella quale aveva fatto versare un dito di champagne, e beveva cogli occhi alla nostra salute, senza accostarvi le labbra, come sapesse ciò che si trova in fondo al bicchiere, come anche i nostri auguri la rattristassero. Infine si lasciò vincere dalla comune gaiezza; parve che tornasse a sorridere a una vaga speranza, e sorrideva a tutti, a tutti noi, cogli occhi e le labbra, col viso pallido e magro.
Il capo d’anno le recai dei fiori, un gran fascio di rose che ero andato a cogliere per lei a Capodimonte. Ella si levò giuliva a sedere, e le volle sul letto, tutte. Ripeteva: – Quante! quante! – scegliendo le più belle, immergendovi le mani…
Era tanto contenta! Mi mostrò i regali che le avevano mandato gli amici, e le amiche… – tutti quanti! – La camera n’era piena, sulle mensole, sul canapè, da per tutto. Ella indicava ad uno ad uno il nome del donatore. Dalla gioia mi pose un braccio intorno al collo, dicendomi:
– Ma nessuno come voi!… nessuno! Voi siete il mio caro fratello, non è vero? E mi vorrete sempre bene così, sempre sempre… perché non fummo mai altro!… Un momento… ci fu il pericolo… Vi rammentate? Ma era scritto lassù!… lassù… –
In quel momento portarono il regalo del marito: un magnifico abito da ballo che la cameriera spiegò trionfante sulla poltrona. Ella indovinò la delicata e pietosa intenzione d’illuderla che c’era nella scelta del dono, e ne fu scossa profondamente. Non disse nulla; gli occhi le si fecero più grandi e più lucenti, e tornò a coricarsi, tirandosi la coperta fino al mento.
Mi lasciò senza dirmi addio, povera e cara Ginevra! L’ultima volta che la vidi, in presenza del marito e di due o tre altri, ella sembrava già non fosse più di questo mondo. Non mi disse nulla; non sembrò nemmen accorgersi di me. Stava zitta, chiusa, cogli occhi sbarrati e fissi. Il Comandante rispondeva per lei qualche parola, colla voce rauca, i capelli arruffati, la barba incolta, pallido anche lui, e col viso gonfio dalle notti insonni. Un momento appena, udendo la mia voce, ella volse su di me quegli occhi che non guardavano e non dicevano più nulla: e tornò a rivolgerli altrove, indifferente. Li attirava adesso soltanto una striscia di luce che moriva sulle tendine istoriate.
Fu l’ultima volta che la vidi. Dopo, l’uscio delle sue stanze rimase chiuso per tutti. Erano arrivati dei parenti da Venezia e da Genova. Gli amici erano tornati a chiedere di lei o a lasciare il loro nome alla porta: tutti coloro che avevano ballato in quella casa e vi avevano passato delle ore liete. Parecchi ci avevano perduto anche la testa, un tempo, e parlavano di lei che moriva, a voce bassa, prima di tornare al Circolo o al teatro, facendosi piccini dinanzi al marito che ripigliava il suo posto in casa sua, all’ultima ora, invecchiato in un mese, rispondendo alle condoglianze e alle strette di mano collo sguardo chiuso e la mano gelida.
Seppi ch’era morta dall’invito per assistere ai funerali. Nelle sale dove essa ci aveva ricevuti festante, era una gran folla, e molti fiori, come il primo giorno dell’anno, sulle mensole, sui tavolini, sul pianoforte. C’erano tuttora gli avanzi delle candele dei candelabri posti dinanzi agli specchi dove ella s’era guardata. Le sue amiche misero dei fiori sulla bara. La signora Maio soffocava i singhiozzi con un fazzolettino di pizzo.
Prima di morire aveva detto che voleva una semplice bara coperta di raso bianco, e una semplice lapide col suo nome. Non ci furono discorsi sulla tomba. La sua orazione funebre fu fatta da Casalengo, che venne a trovarmi la sera stessa, per parlarmi di lei.
– Povera Ginevra! – e non disse altro.