Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Per le vie” (1883)
Novelle di Giovanni Verga
La donna dell’uovo glielo aveva predetto alla sora Arlìa: – Sarai contenta, ma prima passerai dei guai -.
Chi l’avrebbe immaginato quando sposò il Manica colla sua bella bottega di barbiere in via dei Fabbri, lei pettinatora anch’essa, giovani e sani tutti e due! Solo don Calogero, suo zio, non aveva voluto benedire quel matrimonio – per lavarsene le mani come Pilato – diceva. Sapeva come fossero tutti tisici di padre in figlio a casa sua, ed era riescito a mettere un po’ di pancia collo scegliere la vita quieta del prevosto.
– Il mondo è pieno di guai, – predicava don Calogero. – Ed è meglio starsene alla larga -.
I guai infatti erano venuti a poco a poco. Arlìa, sempre incinta da un anno all’altro, che le clienti stesse disertavano per la malinconia di vederla arrivare col fiato ai denti, e quel castigo di Dio della pancia grossa. Poi le mancava il tempo di stare in giorno colla moda. Suo marito aveva sognato una gran bottega da parrucchiere nel Corso, colle profumerie nella vetrina; ma aveva un bel radere barbe a tre soldi l’una. I figliuoli si facevano tisici uno dopo l’altro, e prima d’andarsene al camposanto si mangiavano colla propria carne il poco guadagno dell’annata.
Angiolino, che non voleva morire così giovane, si lamentava nella febbre: – Mamma, perché m’avete messo al mondo? – Tale e quale come gli altri suoi fratelli morti prima. La mamma, allampanata, non sapeva che rispondere, dinanzi al letticciuolo. Avevano fatto l’impossibile; s’erano mangiato il cotto e il crudo: brodi, medicine, pillole piccine come capocchie di spilli. Arlìa aveva speso tre lire per una messa, ed era andata ad ascoltarla ginocchioni in S. Lorenzo, picchiandosi il petto pei suoi peccati. La Vergine nel quadro sembrava che ammiccasse di sì cogli occhi. Ma il Manica, più giudizioso, si metteva a ridere colla bocca storta, grattandosi la barba. Infine la povera madre afferrò il velo come una pazza, e corse dalla donna dell’uovo. Una contessa che voleva tagliarsi i capelli dalla disperazione dell’amante ci aveva trovata la consolazione.
– Sarai contenta, ma prima passerai dei guai, – le rispose quella dell’uovo.
Lo zio prete aveva un bel dire: – Tutte imposture di Satanasso! – Bisogna provare cosa sia avere il cuore nero d’amarezza, mentre s’aspetta la sentenza, e quella vecchia vi legge il vostro destino tutto in un bianco d’uovo! Dopo le pareva di trovare a casa il figliuolo alzato, che le dicesse allegro: – Mamma, sono guarito -.
Invece il ragazzo se ne andava a oncia a oncia, stecchito nel lettuccio, e quegli occhi se lo mangiavano. Don Calogero, che di morti se ne intendeva, come veniva a vedere il nipote, si chiamava poi in disparte la mamma, e le diceva: – Pei funerali me ne incarico io. Non ci pensate -.
Però la sventurata sperava sempre, accanto al capezzale. Alle volte, quando saliva anche Manica a sentire del figliuolo, colla barba lunga di otto giorni e il dorso curvo, provava compassione di lui che non ci credeva. Come doveva patirci il poveretto! Ella almeno aveva in cuore le parole della donna dell’uovo, come un lume acceso, sino al momento in cui lo zio prete s’assise ai piedi del letto colla stola. Poi, quando si portarono via la sua speranza nella bara del figliuolo, le parve che si facesse un gran buio dentro il suo petto. E balbettava dinanzi a quel lettuccio vuoto: – O dunque cosa m’aveva promesso quella dell’uovo? -. Suo marito dal crepacuore aveva preso il vizio di bere. Infine, adagio adagio, si fece una gran calma nel suo cuore. Tale e quale come prima. Ora che i guai l’erano caduti tutti sulle spalle sarebbe venuta la contentezza. Ai poveretti accade spesso così.
Fortunata, l’ultima che le restasse di tanti figli, si alzava la mattina pallida e colle pèsche color di madreperla agli occhi, a simiglianza dei fratelli che eran morti tisici. Le clienti stesse la lasciavano ad una ad una, i debiti crescevano, la bottega si vuotava. Manica, suo marito, aspettava gli avventori tutto il giorno, col naso contro la vetrina appannata. Lei chiedeva alla figliuola: – Ti dice di sì il cuore per quello che ci ha promesso la sorte?
Fortunata non diceva nulla, cogli occhi accerchiati di nero come i suoi fratelli, fissi in un punto che vedeva lei. Un giorno sua madre la sorprese per le scale con un giovanotto che sgattajolò in fretta al veder gente, e lasciò la ragazza tutta rossa.
– Oh, poveretta me!… Che fai tu qui? –
Fortunata chinò il capo.
– Chi era quel giovanotto? che voleva?
– Niente.
– Confidati con tua madre, col sangue tuo. Se tuo padre sapesse!… –
Per tutta risposta la ragazza alzò la fronte e le fissò in faccia gli occhi azzurri.
– Mamma, io non voglio morire come gli altri! –
Il maggio fioriva, ma la fanciulla s’era mutata in viso, ed era divenuta inquieta sotto gli occhi ansiosi della madre. I vicini le cantavano: – Badi alla sua ragazza, sora Arlìa -. Il marito istesso, colla cera lunga, un giorno l’aveva presa a quattr’occhi nella botteguccia nera, per ripeterle:
– Bada a tua figlia, intendi? Che almeno il sangue nostro sia onorato! –
La poveretta non osava interrogare la figliuola al vederla tanto stral’unata. Le fissava soltanto addosso certi occhi che passavano il cuore. Una sera, dinanzi alla finestra aperta, mentre dalla strada saliva la canzone di primavera, la ragazza le mise il viso in seno, e confessò ogni cosa piangendo a calde lagrime.
La povera madre cadde su una seggiola, come se le avessero stroncato le gambe. E tornava a balbettare, colle labbra smorte: – Ah! Ora come faremo? -. Le pareva di vedere Manica nell’impeto del vino, col cuore indurito dalle disgrazie. Ma il peggio erano gli occhi con i quali la ragazza rispondeva:
– Vedete questa finestra, mamma?… la vedete com’è alta?… –
Il giovane, un galantuomo, aveva mandato dallo zio prete a tastare il terreno per sapere che pesci pigliare. – Don Calogero s’era fatto prete apposta onde non sentir parlare dei guai del mondo. Il Manica si sapeva che non era ricco. L’altro capì l’antifona e fece sentire che gli dispiaceva tanto di non esser ricco lui per fare a meno della dote.
Allora la Fortunata si allettò davvero, e cominciò a tossire come i suoi fratelli. Parlava spesso all’orecchio della mamma, col viso rosso, tenendola abbracciata, e ripeteva:
– Vedete com’è alta quella finestra?… –
E la mamma doveva correre di qua e di là a pettinare le signore pel teatro, sempre con lo spavento di quella finestra dinanzi agli occhi se non trovava la dote per la figlia, o se il marito s’accorgeva del marrone.
Di tanto in tanto le tornavano in mente le parole di quella dell’uovo, come uno spiraglio di luce. Una sera che tornava a casa stanca e scoraggiata, passando dinanzi alla vetrina di una lotteria, le caddero sotto gli occhi i numeri stampati, e per la prima volta le venne l’ispirazione di giuocare. Allora con quel fogliolino giallo in tasca le pareva d’avere la salute della figliuola, la ricchezza del marito, e la pace della casa. Pensava anche come una dolcezza all’Angiolino e agli altri figliuoli da un pezzo sotterra nel cimitero di Porta Magenta. Era un venerdì, il giorno degli afflitti, nel sereno crepuscolo di primavera.
Così ogni settimana. Si levava di bocca i pochi soldi della giocata per vivere colla speranza di quella grande gioia che doveva capitarle all’improvviso. L’anime sante dei suoi figliuoli ci avrebbero pensato di lassù. Manica, un giorno che i fogliolini gialli saltarono fuori dal cassetto, mentre cercava di nascosto qualche lira da passar mattana all’osteria, montò in una collera maledetta.
– In tal modo se ne andavano dunque i denari?… – Sua moglie non sapeva che rispondere, tutta tremante.
– Però, senti, se il Signore mandasse i numeri?… Bisogna lasciare l’uscio aperto alla fortuna -.
E in cuor suo pensava alle parole di quella dell’uovo.
– Se non hai altra speranza – brontolò Manica con sorriso agro.
– E tu che speranza hai?
– Dammi due lire! – rispose lui bruscamente.
– Due lire! o Madonna!… cosa vuoi farne?
– Dammi una lira sola! – ripeté Manica stravolto.
Era una giornata buia, la neve dappertutto e l’umidità che bagnava le ossa. La sera Manica tornò a casa col viso lustro d’allegria. Fortunata diceva invece:
– Per me sola non c’è conforto -.
Alle volte ella avrebbe voluto essere come i suoi fratelli sotto l’erba del camposanto. Almeno quelli non tribolavano più, ed anche i genitori ci avevano fatto il callo, poveretti.
– Oh! il Signore non ci abbandonerà del tutto, – balbettava Arlìa. – Quella dell’uovo me l’ha detto. Ho qui un’ispirazione -.
Il giorno di Natale apparecchiarono la tavola coi fiori e la tovaglia di bucato, e quest’anno invitarono lo zio prete ch’era la sola provvidenza che restasse. Il Manica si fregava le mani e diceva:
– Oggi si ha a stare allegri -. Pure il lume appeso al soffitto ciondolava malinconico.
Ci fu il manzo, il tacchino arrosto, ed anche un panettone col Duomo di Milano. Alle frutta il povero zio, vedendoli piangere, siffatta giornata, con un buon bicchiere in mano di barbera anche lui, non seppe tener duro e dovette promettere la dote alla ragazza. L’amante tornò a galla, Silvio Liotti, commesso di negozio con buone informazioni, pronto a riparare il mal fatto. Manica col bicchiere in mano diceva a don Calogero:
– Vedete, vossignoria; questo qui ne aggiusta tante -.
Ma era destino che dove era l’Arlìa la contentezza non durasse. Il genero, ragazzo d’oro, si mangiò la dote della moglie, e dopo sei mesi Fortunata tornava a casa dai genitori a narrar guai e a mostrar le lividure, affamata e colle busse. Ogni anno un figliuolo anche lei come sua madre, e tutti sani come lasche che se la mangiavan viva. Alla nonna sembrava che tornasse a far figliuoli, ché ognuno era un altro guaio, senza morir tisico. Divenuta vecchia, doveva correre sino a Borgo degli Ortolani, e in fondo a Porta Garibaldi, per buscarsi dalle bottegaie qualche mesata da quattro lire. Suo marito anch’esso, che gli tremavano le mani, faceva appena dieci lire al sabato, tutti tagli e tele di ragno per stagnare il sangue. Il resto della settimana poi o dietro la vetrina sudicia ingrugnato, o all’osteria col cappello a sghimbescio sull’orecchio. Anch’essa ora i denari del terno li spendeva in tanta acquavite, di nascosto, sotto il grembiale, e il suo conforto era di sentirsene il cuor caldo, senza pensare a nulla, seduta di faccia alla finestra, guardando di fuori i tetti umidi che sgocciolavano.