seconda parte della Metodologia per l’insegnamento del greco e del latino
di Giovanni Ghiselli
4. 1. Lo studio della storia presenta varie possibilità di approccio: da quello politico ed economico, al sociologico, allantropologico, allo psicologico.
Sommario:
Rostovzev. Auerbach. S. Mazzarino su Tucidide e Tacito con la crisi dell’agricoltura italica. La storia degli anelli doro in Plinio il Vecchio e nel Satyricon. Luperini: il legame profondo e necessario tra disciplinarità e interdisciplinarità. La necessità della conoscenza dei contenuti. La SSIS (la Mastrocola e il sottoscritto). La storia esemplare con modelli e contromodelli. Tito Livio, Tacito e la grandezza del passato rispetto alla sopravvenuta decadenza. Il filum di tradizionalismo che unisce Catone- Sallustio-Livio e Tacito. Polibio: la storia come correzione (diovrqwsi”). Posidonio e Diodoro: gli storiografi quali benefattori dell’umanità. Tucidide e la maggiore grandezza del presente. Plutarco e i suoi estimatori: Montaigne, Shakespeare, Vittorio Alfieri, Foscolo, Nietzsche e la storia monumentale. Seneca (Naturales quaestiones) sconsiglia di proporre contromodelli. Machiavelli e Guicciardini. Le interpretazioni contrastive della Storia inducono il giovane a pensare. Vite composite e variopinte. Proust. Le Vite di Demetrio Poliorcete e di Antonio secondo Plutarco. Luciano e la processione della Tuvch. Mussolini e il colonnello Aureliano Buendía di Márquez.
Testo:
Dalla storia si possono ricavare tanti e vari argomenti: l’economia, la politica istituzionale, la psicologia, secondo i gusti di chi la insegna e di chi deve impararla. Ci furono anni, quando era di moda il marxismo, nei quali era obbligatorio il discorso economico-strutturale; ora che Marx è stato messo in soffitta, si preferiscono le sovrastrutture. Quindi sono passati in secondo piano i “severi/economici studi” e vale più “il proprio petto/esplorar”[1].
Se una volta, dietro richiesta dei ragazzi, si studiava il Rostovzev[2] prima ancora di leggere Tacito, ora si cerca l’approccio antropologico, o si studia la psicologia della fanciulla Ottavia, che era costretta a celare i propri sentimenti, o si fa notare il determinismo geografico.
La storiografia antica si presta comunque a letture diverse. Auerbach sostiene che gli antichi “non vedono forze, bensì vizi e virtù, successi ed errori; la loro impostazione del problema non è evoluzionistica né nei riguardi dello spirito né in quelli della materia; è invece moralistica”[3].
S. Mazzarino invece ritiene che al pensiero storico classico non manchi un’ampia e approfondita considerazione dei fatti economici:”Basta pensare, per es., all’archeologia di Tucidide, tutta fondata su aJcrhmativa[4] e crhmavtwn th;n kth’sin[5]; concetti che lì sono fondamentali, non già semplici riferimenti. Tacito () Plinio il Vecchio () hanno interpretato con acutezza i fatti sociali dell’epoca giulio-claudia”[6]. Si pensi alla crisi dell’agricoltura italica dovuta allestendersi dei latifondi; per esempio: latifundia perdidere Italiam” scrive Plinio il Vecchio[7].
Per quanto riguarda l’autore degli Annales[8]:“Questa idea della crisi economica dell’Italia domina il pensiero di Tacito, e dà ad esso toni di tristezza profonda: infatti, la ritroviamo in un passo degli Annali, XII, 43, meritatamente celebre”[9]:”at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est “, eppure, per Ercole, una volta l’Italia mandava vettovaglie per le legioni in province lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare l’Africa e l’Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della navigazione.
Lo storico si riferisce all’ultimo periodo del principato di Claudio (41-54), ma già Ottaviano Augusto temeva che le campagne rimanessero non coltivate a causa dell’ozio della plebe, e decise di abolire le distribuzioni frumentarie:”quod earum fiduci? cultur? agrorum cessaret ” [10], poiché, confidando in queste, la gente trascurava la coltivazione dei campi. Tuttavia l’imperatore non perseverò nel proponimento. Poi “Una grande crisi scoppiò nel 33 d. C. : i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori fosse proibita l’usuraNe derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i quali svendevano i campi per pagare i debiti”[11]. Durante il I sec. d. C. sotto gli imperatori Giulii e Claudii :” anche in Italia le grandi tenute divennero sempre più estese e a poco a poco assorbirono le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano”[12].
La “mancanza di vendita” di molti prodotti italici era dovuta anche alla emancipazione economica delle province: le condizioni del mercato peggioravano di giorno in giorno a misura che si svolgeva la vita economica delle province occidentaliA questo mutamento s’accompagnò il crescente raccogliersi della proprietà rurale nelle mani di pochi ricchi proprietari”[13].
Nello stesso tempo della crisi dilagavano, tra i ricchi e gli arricchiti, il lusso e lo spreco. La politica finanziaria di Tiberio cercò, molto blandamente, di porvi un freno. Ecco la tendenza: “lotta contro il rialzo dei prezzi; e d’altra parte, proprio per quella sua moderatio nei riguardi degli ottimati, esitazione e anzi rinunzia a prendere rigidi provvedimenti contro il lusso delle dites familiae nobilium aut claritudine insignes[14]. Dalle nuove esigenze fu particolarmente incoraggiato il commercio con l’India, come chiaramente attestano i reperti numismatici di questa regione. In queste condizioni, il lamento che la moneta pregiata prendesse la via dei mercati stranieri (pecuniae nostrae ad externas aut hostiles gentes transferuntur [15] ) restava una protesta platonica, e denunziava un “drenaggio di oro” a cui Tiberio stesso dichiarava di non poter porre rimedio”[16].
Passiamo a Plinio il Vecchio e vediamo un interessante squarcio di storia sociale scritta da un autore antico”.
Questo cavaliere dell’Italia settentrionale, freddo e saggio, ci ha descritto (naturalmente con disdegno) le ambizioni e la luxuria dei nuovi ricchi dell’epoca ClaudiaCome esponente dell’altissima borghesia equestre, egli si intendeva di fatti economici. Nella travagliata epoca giulio-claudia, gli sembrava dominante lambizione di tutti, di portar anuli aurei, che in verità sono distintivi dei cavalieri: sotto Tiberio si era stabilito che solo i nati liberi e di libero avo, con censo equestre e facoltà di sedere nei 14 ordines al teatro (vale a dire, solo i veri e propri cavalieri), potessero portare anuli aurei ; con Caligola, anche i liberti avevano quegli ornamenta, ciò che prima non era avvenuto mai”; all’epoca di Claudio (che era stato anche censore), ben 400 persone furono accusate per questo abuso. Nonostante i provvedimenti di Tiberio, i liberti erano dunque decisi a sfondare”, anche contro la legge; e, al solito, il principato di Caligola aveva aperto ad essi la strada; l’ordine equestre”, commentava Plinio, si voleva distinguere dal resto dei liberi, e doveva subire l’intrusione dei liberti!” Oppure: quelli che non appartengono all’ordine equestre non si fanno scrupolo di firmare con lanulus, dalla parte dove è loro: una trovata dell’epoca di Claudio”; ed anche i servi portano anuli coperti, all’esterno, di oro” (la stessa nota troviamo nel Satyricon di Petronio)” [17].
Entrato nella sala del banchetto, addobbato di rosso, Trimalchione ostenta gli anelli portati nella mano sinistra: uno grande placcato d’oro (anulum grandem subauratum 32, 3) e uno d’oro massiccio, ma tutto come costellato di pezzetti di ferro ( totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum), quindi denuda il braccio destro armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo (32, 4), ornato da un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio intrecciato con una lamina luccicante; infine si cincischiò i denti con uno stuzzichino d’argento (pinn? argente? dentes perf?dit, 33). E’ un monumento classico, aere perennius, al cattivo gusto, alla volgarità dell’eterno cafone arricchito.
“La storia degli anelli d’oro: il più interessante capitolo di storia del costume dell’epoca imperiale, particolarmente dell’epoca giulio-claudiaClaudio eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi liberti[18] c’è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l’impero. Sono una borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i rischi della legge, pur di portare l’anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l’intensificazione dell’economia monetariaburocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali) significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di pagamento. L’economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a morte”[19].
L’economia non conosce tradizioni, o, se ne ha, non esita un solo istante a distruggerle nel caso che non gli siano più utili”[20].
Come si vede non è impossibile l’approccio economico” e sociologico ai testi classici. Uno dei tanti.
Da qualche tempo è ammessa, anzi è praticata più o meno bene da molti insegnanti, linterdisciplinarità che al sottoscritto negli anni Ottanta costò due ispezioni in tre anni, volute dal preside Magnani del Liceo classico Galvani. Costui del resto venne sbugiardato pesantemente entrambe le volte dagli ispettori ministeriali: Adelelmo Campana e Antonio Portolano, due uomini intelligenti, i quali elogiarono il mio metodo e il mio operato, sebbene allora fosse innovativo. Ora piuttosto è di moda. Non dico che si debbano seguire le mode, casomai che si possono prevedere, e che non è male assecondare i gusti dell’utenza quando questa presenta richieste plausibili.
Si è scoperto insommail legame profondo e necessario fra disciplinarità e interdisciplinarità. In altri termini, si è arrivati alla coscienza che, nello studio della letteratura (ma il discorso vale anche per altre materie umanistiche), linterdisciplinarità non comporta affatto una rinuncia ai contenuti disciplinari e che in esso il ricorso alla storia, alla antropologia, alla storia dell’arte, alla psicoanalisi, alla filosofia, e persino alla geografia e alla fisica è finalizzato a insegnare meglio la letteratura, non a confondere tale insegnamento con altre discipline. Nel campo dello studio della letteratura, un uso rigoroso della interdisciplinarità non è tuttologia, ma è il suo esatto opposto: è l’impiego di discipline diverse al fine di capire meglio o di spiegare meglio un testo letterario o un fenomeno letterario (un movimento, un tema, un periodo storico)”[21].
In ogni caso è necessario conoscere i contenuti, le parole e le idèe contenute, appunto, in un libro, anzi in tanti libri, per insegnare, con un taglio o con un altro, una materia o anche solo un argomento.
Oggi c’è la SSIS: Scuola di Specializzazione per lInsegnamento Secondario. Si tratta di una scuola per chi si è laureato nella materia che amava e ora la vuole insegnare. Si dà per scontato che non la sappia insegnare e quindi glielo si insegna in una scuola apposita, successiva alla laurea. Una volta ci si laureava e basta, quattro anni di università e poi automaticamente si andava a insegnare la materia in cui si era laureatiOggi invece si fa tre+due, si prende la laurea e poi si aggiungono i due anni SSIS, dove ti insegnano a insegnareCos’è cambiato? Che prima si pensava così: basta che uno sappia bene la sua materia e la saprà insegnare di sicuro; si pensava, cioè, che il conoscere bene a fondo la propria materia fosse di per sé unassicurazione del saperla insegnare: si dava allora, evidentemente, molto valore alla conoscenza. Adesso invece si pensa: non importa che cosa uno conosce o non conosce, l’importante è che sappia insegnare. Ma insegnare che cosa? Nessuno pensa che il che cosa” sia importante: la materia, l’argomento, l’oggettoil complemento oggetto. Si insiste sul verbo, e non sul complemento oggetto”[22]. La Mastrocola generalizza, esagera e sbaglia: io insegno alla SSIS, in quella dell’Università di Bologna dove tengo un corso di didattica della letteratura greca con laboratorio, e in quella dell’Università di Bolzano dove faccio laboratorio di didattica della cultura e della civiltà letteraria italiana: ebbene l’uno e l’altro corso partono dalla metodologia, ma assai presto questa viene applicata agli autori e alle loro opere. Certo, gli insegnanti che non conoscono la materia, quelli che non sanno insegnarla, ci sono, eccome, ma ci sono sempre stati. La SSIS, io credo, attraverso i docenti esperti, e bravi, quando lo sono, aiuta i laureati indicando loro le vie meno contorte per arrivare alla mente e al cuore[23] dei ragazzi, per aiutarli a crescere in termini tanto culturali quanto umani, e suggerisce sia i metodi, sia le letture più efficaci per cogliere questo scopo, ossia questo bersaglio. Il discorso sul metodo che sto componendo riflette questo lavoro, ed è il lavoro di una vita dedicata allo studio, all’insegnamento e al rafforzamento della vita stessa, della mia e di quella dei miei allievi.
La storia comunque fornisce esempi, modelli e contromodelli.
Secondo Tito Livio[24] la conoscenza della tradizione storica è necessaria per l’educazione delle persone: essa fornisce a chi la possiede il grande strumento dei modelli positivi da imitare, e di quelli negativi da respingere:”Hoc illud est praecipue in cognitione rerum sal?bre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri: inde tibi tuaeque rei publicae quod imit?re capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites“[25], questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia: che tu consideri attentamente esempi di ogni tipo situati in una tradizione illustre: di qui puoi prendere quanto c’è da imitare per te e per il tuo Stato, di qui quello che c’è da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel risultato.
Tito Livio nella Praefatio (11) celebra il passato remoto come il tempo della grandezza:”nulla umquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit “, mai nessuno Stato fu più grande né più virtuoso né più ricco di buoni esempi, e preferisce i fatti antichi al punto che, nel raccontarli, scrive più avanti il mio animo diviene, misteriosamente, antico:”Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto anticus fit animus“(XLIII, 13, 2).
La guerra più grande, per i mezzi e le energie impiegate, è stata quella annibalica. Nel proemio alla seconda guerra punica Livio scrive:”Nam neque validiores opibus ullae inter se civitates gentesque contulerunt arma, neque his ipsis tantum umquam virium aut roboris fuit “(XXI, 1), infatti né alcune altre città e popoli più possenti per i mezzi combatterono, né mai queste stesse ebbero tanta forza e vigore.
Livio: nella cui praefatio domina l’esaltazione della storia romana, argomento proprio dell’opera sua: nulla umquam res publica nec maior nec sanctior(Liv. Praef. 11); ed anzi, per ciò, la storia antica è da Livio-a differenza di Tucidide- di gran lunga preferita alla moderna (Liv. praef. 5)”[26].
Anche Tacito, negli Annales, antepone la storia e la storiografia antica, quella della repubblica, ricca di grandi personaggi e grandi avvenimenti, alla recente, di minor levatura:” Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum “( IV, 32), mi rendo conto che la maggior parte degli avvenimenti che ho riferito e riferirò appaiono forse piccoli e indegni di ricordo; mentre chi espose il passato narrò “ingentia bella…expugnationes urbium, fusos captosque reges “, grandi guerre, città espugnate, re sbaragliati e fatti prigionieri, per quanto riguarda la politica estera, e nell’interna”discordias consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium certamina libero egressu memorabant “, raccontavano conflitti tra consoli e tribuni, leggi agrarie e frumentarie, lotte tra plebei e patrizi, spaziando liberamente. Quindi la fatica dei contemporanei si occupa di un campo ristretto ed è senza gloria:” nobis in arto et inglorius labor” . Lo stesso contenuto della storia si restringe nel passaggio dalla repubblica all’impero.
Come Sallustio[27], anche Tacito pensava spesso in termini di antica grandezza e di sopravvenuta decadenza”[28].
Ma soprattutto: c’è una linea unitaria, come un filum, che nella storiografia romana conduce da Catone a Sallustio a Tacito. Questi tre storici insistono particolarmente sulla disciplina et vita dell’Italia (Catone), sulla cura degli antichi pro Italica gente (Sallustio), sulla necessità di conservare lantiquus mos italico e di impedire-per una malintesa tendenza provinciale-il decadimento economico dell’Italia (Tacito)il filum Catone-Sallustio-Tacito è per eccellenza significativo nella storia della storiografia romana”[29]. Direi che questo filum passa anche per Tito Livio che celebra gli antiqui mores e lamenta il decadere della disciplina e il dilagare dei vizi con l’avvento della ricchezza e del lusso: ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora , quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus, perventum est” (Praefatio, 9), a quegli aspetti ciacuno rivolga attenzione con acutezza, quale tipo di vita, quali sono stati i costumi, gli uomini e le capacità attraverso i quali l’impero è stato creato e ingrandito; poi mi si segua con attenzione per vedere come, decadendo poi un poco alla volta la disciplina, rilassandosi in un primo tempo i costumi, siano poi scivolati sempre più in basso, poi abbiano preso a cadere a precipizio, finché si è giunti a questi tempi, nei quali si è giunti al punto che non possiamo sopportare né i vizi né i rimedi.
Polibio[30] nel Proemio delle sue Storie afferma che per gli uomini non c’è nessuna correzione (diovrqwsi”) più disponibile che la conoscenza dei fatti passati (th'” tw’n progegenhmevnwn pravxewn ejpisthvmh” , 1, 1).
Vediamo un suggerimento correttivo applicato a un naufragio che la flotta romana subì nel 255 nei pressi di capo Passero, durante la prima guerra punica. Delle loro 364 navi solo 80 si salvarono.
Ebbene, gli insuccessi potranno esserci ancora poiché i Romani affrontano ogni cosa con violenza (crwvmenoi biva/, I, 37, 7) e ritengono che nulla sia per loro impossibile. Da una parte essi hanno successo grazie a un simile slancio (dia; th;n toiauvthn oJrmhvn), ma a volte falliscono in modo evidente, soprattutto nelle imprese sul mare. Dunque i disastri potranno ripetersi finché questi vincitori di uomini non correggeranno tale audacia e violenza e{w~ a[n povte diorqwvswntai toiauvthn tovlman kai; bivan (I, 37, 10) per cui credono di poter navigare e marciare in qualsiasi stagione.
Gli storiografi insomma sono educatori e perfino benefattori del genere umano
Le Storie dopo Polibio di Posidonio (andavano dal 143 al 70) non sono conservate, ma ve ne è traccia notevole nella benemerita Biblioteca di Diodoro[31]: e soprattutto nel proemio diodoreo sono sviluppati pensieri che sembrano risalire appunto al proemio posidoniano. Innanzi tutto l’idea stoica della storia universale come proiezione della fratellanza universale che collega in un nesso solidale-come membra di un unico corpo, secondo l’espressione senechiana-tutti gli esseri umani. La storia universale “riconduce ad un’unica compagine gli uomini, divisi tra loro nello spazio e nel tempo, ma partecipi di un’unica reciproca parentela” (Diodoro, I, 1, 3). Oltre che “strumento della provvidenza (uJpourgoi; th'” qeiva” pronoiva”) “, perciò gli storici sono anche benefattori del genere umano: e la storiografia-prosegue Diodoro-oltre ad essere profh’ti” th'” ajlhqeiva” è anche “madrepatria della filosofia (mhtrovpoli” th'” filosofiva”)” (I, 2, 2) )”[32].
Diodoro aggiunge che bisogna supporre (uJpolhptevon) che la storia abbia il potere di attrezzare i caratteri per la kalokajgaqiva. La storia ha immortalato le qualità degli eroi. Gli altri monumenti durano poco tempo, mentre la forza della storia ha nel tempo un custode che veglia della sua eterna trasmissione ai posteri. L’arte della parola è divisa in più parti e accade che l’arte poetica allieti più che giovare (sumbaivnei th;n me;n poihtikh;n tevrpein ma’llon h[per w’felei’n, I, 2, 7), la legislazione punisca, ma non educhi, e altri generi non contribuiscono alla felicità, altri mescolano il danno al vantaggio, altri falsificano la verità, mentre la storia, siccome in essa le parole si accordano ai fatti (sumfwnouvntwn ejn aujth’/ tw’n lovgwn toi’~ e[rgoi~) comprende nei suoi scritti tutti gli altri vantaggi. Essa esorta gli uomini alla giustizia, denunciando le persone ignobili ed encomiando quelle di valore e fornisce una grandissima esperienza ai lettori (8).
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Anche una città o una costituzione può essere esemplare: è il caso della politeivva ateniese secondo il Pericle di Tucidide[33] il quale viceversa privilegia la vicinanza nel tempo poiché “faceva dell’esperienza diretta il primo requisito di una storiografia seria”[34] ; inoltre lo storico antico considera superiore l’importanza dell’ultimo conflitto rispetto a tutti i precedenti per la maggior quantità delle forze economiche e militari entrate in campo. :”Crwvmeqa ga;r politeiva/ ouj zhlouvsh/ tw’n pevla” novmou”, paravdeigma de; ma’llon aujtoi; o[nte” h] mimouvmenoi eJtevrou”” (II, 37, 1), infatti ci avvaliamo di una costituzione che non invidia le leggi dei vicini, poiché siamo noi esemplari piuttosto che imitatori di altri. Il modello pericleo è quello della democrazia diretta: una governo retto da un uomo colto scelto da un popolo colto che si lasciava guidare[35] , che andava a teatro a vedere i drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e altri autori di tale livello.
Analogo frutto si può cogliere dalle biografie di Plutarco[36] il quale suggerisce di utilizzare le sue Vite parallele quali modelli positivi o negativi: infatti si dà catarsi non solo assimilando il valore, ma anche respingendo i vizi; questo accade ponendosi di fronte alla storia come davanti a uno specchio (w{sper ejn ejsovptrw/), sia imitando la virtù degli uomini grandi e buoni, il cui esempio aiuta a respingere quella dose eventuale di pochezza (” ei[ ti fau’lon”) o malvagità (“h] kakovhqe””) o volgarità (” h] ajgennev”” ), che le compagnie di coloro con i quali si deve vivere vi insinuano (“aiJ tw’n sunovntwn ejx ajnavgkh” oJmilivai prosbavllousin”), sia prendendo quali contromodelli uomini grandi e cattivi[37]. Queste parole indicano, tra l’altro, gli antivalori della malvagità e della volgarità.
“E’ una concezione che ha qualche punto in comune con l’idea aristotelica della catarsi-commenta Canfora[38]-, dell’analogia che lo spettatore (in questo caso il lettore) istituisce tra se medesimo ed i paqhvmata dell’eroe al quale si accosta”.
Catarsi e mimesi nellAmleto di Shakespeare.
Non molto diversamente lAmleto di Shakespeare che dice: I have heard–that guilty creatures, sitting at a play,-have, by the very cunning of the scene,-been struck so to the soul that presently-they have proclaimd their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dallabilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.
Così del resto faceva Machiavelli leggendo. Lo racconta nella Lettera a Francesco Vettori :”Venuta la sera, mi ritorno in casa et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e, rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni. E quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi tranferisco in loro…Die 10 Decembris 1513 “.
La lettura dei classici dunque per il segretario fiorentino aveva un valore catartico. Lo stesso significato positivo ha per Plutarco lo scrivere biografie: nella medesima prefazioneinfatti l’autore afferma anche: il mio lavoro mi appare proprio come un conversare, un vivere quotidianamente in intimità con costoro, quando, per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti uno per uno, e considero quanto grande e quale sia (” o{sso” e[hn oi|ov” te”[39]), scegliendo fra le loro azioni quelle che furono le più importanti e le belle per la conoscenza:”ta; kuriwvtata kai; kavllista pro;” gnw’sin ajpo; tw’n pravxewn lambavnonte””. Insomma “il biografo si rimira nello specchio della storia per accordare la propria esistenza ai grandi paradigmi di virtù fornitigli dai suoi personaggi, vive anzi con loro (come poi Montaigne), desideroso di preservare nell’animo la memoria fragrante di ciò che varrà poi ad espellere l’ignobile sentore della quotidianità. Gli exempla virtutis costituiscono il più sicuro esercizio di virtù per l’autore”[40].
Quindi Plutarco cita un frammento di Sofocle[41]:”feu’ feu’, tiv touvtou cavrma mei’zon a]n lavboi””, ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di questa, e, aggiunge, kai; pro;~ ejpanovrqwsin hjqw’n ejnergovteron ; (I, 4) quale più efficace per il raddrizzamento dei costumi? Lo studio della Storia allora infonde gioia in chi lo coltiva, come la poesia: Erodoto narra che in attesa del canto di Arione, nel cuore dei pur spietati marinai corinzi che lo avevano condannato a morte per derubarlo, si insinuò il piacere [42].
“Che profitto trarrà dalla lettura delle Vite del nostro Plutarco? La mia guida si ricordi a che cosa mira il suo compito; e imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione”[43].
Per l’uomo moderno, Plutarco significa Shakespeare”[44], e viceversa. E allora diciamo subito che alcune tragedie di Shakespeare (il Giulio Cesare, l’Antonio e Cleopatra, il Coriolano ) dipendono da Plutarco che il drammaturgo inglese leggeva nella traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella francese (del 1559) del vescovo Amyot che tradusse pure i Moralia (1572)[45]. Nonostante la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano , situazioni e frasi che riproducono gli originali di Plutarco, tanto che Elias Canetti in un passo[46] de La provincia dell’uomo , afferma che ” Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue pagine accadono cose terribili, come nelle pagine del suo seguace Shakespeare”.
Plutarco, biografo di eroi, fu oggetto di culto da parte di Vittorio Alfieri :”Ma il libro dei libri per me, e che in quell’ inverno mi fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare”[47].
Aspettando i cavalli in Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il racconto, gli batté il cuore: quelle immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitavano la sua emulazione: -Non potrei essere anch’io come loro?- E il potere cera, perché le sue forze non erano da meno”[48].
Foscolo nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis scrive:”Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure della umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti”[49].
La storia occorre innanzitutto allattivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presenteChe i grandi momenti nella lotta degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni la cresta montuosa dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi- è questo il pensiero fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale“[50].
“Nella mancanza di dominio su se stessi, in ciò che i romani chiamano impotentia , si rivela la debolezza della personalità moderna”[51].
Un ajntifavrmako” , un ottimo contravveleno di questa impotenza, può essere Plutarco:”Se invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete da essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino paralizzante dell’educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non lasciarvi maturare per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora che non siano quelle col ritornello “Il signor Taldeitali e il suo tempo”. Saziate le vostre anime con Plutarco ed osate credere in voi stessi, credendo ai suoi eroi. Con un centinaio di uomini educati in tal modo non moderno, ossia divenuti maturi e abituati all’eroico, si può oggi ridurre all’eterno silenzio tutta la chiassosa pseudocultura di questo tempo”[52].
Seneca sconsiglia di proporre contromodelli: nella Praefatio al III libro delle Naturales quaestiones afferma che è molto meglio spengere i propri vizi piuttosto che raccontare ai posteri quelli degli altri: “quanto satius est sua mala extinguere quam aliena posteris tradere! ” ( 5), quanto meglio è spengere i propri vizi che tramandare ai posteri quelli degli altri! Seguono gli esempi di Filippo e di Alessandro e di tutti gli altri che furono pestes mortalium non meno rovinose di inondazioni e incendi. A questo proposito si rifletta sul caso della docente del liceo classico romano messa sotto accusa per avere fatto leggere degli scritti di Hitler con altri di altri autori.
Machiavelli dà questo consiglio: debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi e quelli che sono stati eccellentissimi imitare” (Il Principe, VI).
Anche Guicciardini ricava insegnamenti dalla storia e dagli storiografi: Insegna molto bene Cornelio Tacito a chi vive sotto a tiranni el modo di vivere e governarsi prudentemente, così come insegna a tiranni e modi di fondare la tirannide”[53]. Tuttavia in un altro dei Ricordi (110) scrive: Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi il corso di uno cavallo”.
Il criterio deve essere quello della discrezione: E grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola: perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circostanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su libri, ma bisogna le insegni la discrezione”[54] .Questi giudizi contrastanti possono indurre il giovane a pensare criticamente e a giudicare (krivnein) secondo il proprio orientamento psicologico.
Molte vite del resto sono composite e variopinte. Nel secondo volume della Recherche di Proust il pittore Elstir dice a Marcel:”Le vite che ammirate, le attitudini che giudicate nobili, non sono state predisposte dal padre di famiglia o dal precettore; sono state precedute da esordi ben diversi, hanno subito l’influsso del male o della banalità che regnavano intorno a loro. Rappresentano una lotta e una vittoria”[55].
In effetti le parti sostenute durante una pur breve esistenza di un uomo possono mutare o alternarsi.
Plutarco nota questa alternanza dell’umana sorte nella prefazione alle Vite di Demetrio e Antonio. Personaggi, entrambi compositi, comunque adatti piuttosto a fare da paradigmi negativi che positivi: le loro grandi nature portavano grandi virtù, come grandi vizi: entrambi furono dediti alle passioni dell’amore e del vino, furono uomini di guerra, munifici, sontuosi, insomma uJbristaiv , eccessivi. Ebbero grandi successi alternati a grandi cadute e chiusero in modo simile la loro vicenda terrena.(Prefazione alle Vite di Demetrio e Antonio, 1, 8). Più avanti, raccontando la Vita del Poliorcete, Plutarco aggiunge:”Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio, e che essa in altre vicende, non divenne altrettante volte piccola e di nuovo grande, né umile da splendida , e poi di nuovo forte da misera . Perciò dicono pure che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofasse la Fortuna con il verso di Eschilo: “Tu davvero mi rendi tronfio, tu sembri bruciarmi[56]” ( Vita di Demetrio, 35, 3-4).
Di Antonio si può mettere in evidenza la teatralità[57].
Luciano[58] paragona la nostra vita a una processione in costume guidata dalla Fortuna che attribuisce le parti agli umani e spesso cambia maschere e ruoli di alcuni durante il corteo: ” Pollavki” de; kai; dia; mevsh” th'” pomph'” metevbale ta; ejnivwn schvmata”[59].
Si può pensare alle alterne vicende di Mussolini[60]: fu un maestro di scuola, un vagabondo, un demagogo, un dittatore e finì davanti al plotone di esecuzione, come certi personaggi di Márquez. Sentiamo lincipit di Cent’anni di solitudine: Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”[61].
Giovanni Ghiselli
note:
[1] Leopardi, Palinodia al Marchese Gino Capponi, del 1835, vv. 233-235.
[2] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano. La prima edizione (in inglese) è del 1926.
[4] Tucidide, Storie, I, 11, 3. Significa scarsità di risorse senza le quali secondo lo storiografo della guerra del Peloponneso non si possono allestire grandi flotte né fare guerre grandi come quella del Peloponneso.
[5]I, 13, 1. E’ l’accumulo di ricchezze necessari allo sviluppo di una grande potenza.
[6] S. Mazzarino, L’impero romano, (del 1974) vol.I, p. 214, n. 4.
[8] Gli Annales, composti da Tacito negli anni successivi al 111 d. C., dovevano continuare l’opera di Livio: il titolo dei manoscritti Ab excessu divi Augusti echeggia il liviano Ab urbe condita. Dell’opera che doveva andare dalla morte di Augusto a quella di Nerone ci sono arrivati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI con gli avvenimenti dalla morte di Augusto (14 d. C.) a quella di Tiberio (con una lacuna per gli anni 29-31); inoltre i libri XI-XVI con il regno di Claudio, dal 47, e quello di Nerone fino al 66.
[9] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 458.
[19] S. Mazzarino, L’impero romano, 1, pp. 215-216.
[20] P;P: Pisolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, p. 2695.
[21] R: Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 12.
[22] P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 71.
[23] Ai professori che ogni giorno si apprestano a dare giudizi sulle capacità intellettuali dei loro allievi un invito a riflettere prima su quanta educazione emotiva hanno distribuito, perché, a se stessi almeno, non possono nascondere che l’intelligenza e l’apprendimento non funzionano se non li alimenta il cuore” (U. Galimberti, Lospite inquietante, p. 48).
[24] 59 a. C.-17 d. C. Ha scritto Ab Urbe condita libri. L’opera comprendeva 142 libri che partivano dalle origini mitiche e arrivavano al 9 a. C. Ci sono arrivati i primi dieci, poi quelli dal 21 al 45 e frammenti degli altri.
[28] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 464.
[29] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 459 e p. 460.
[30] 200 ca-118 ca a. C. Scrisse Storie che trattavano il periodo compreso tra il 264 e il 146 a. C. Ci sono arrivati i primi 5 integrali; degli altri possediamo epitomi e frammenti, anche consistenti (in particolare quelli dei libri VI-XVIII).
[31] Vissuto nel I sec. a. C. è autore della Biblioteca storica, una grande compilazione di storia universale. Andava dalle origini all’età di Giulio Cesare. Constava di 40 libri. Ce ne sono arrivati i primi cinque e frammenti degli altri (n. d. r.).
[32] Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 528
[33] Ateniese, visse tra il il 460 ca e il 400 ca a. C. Scrisse la Storia della Guerra del Peloponneso in 8 libri che raccontano, dopo una breve introduzione, con proemio, capitoli metodologici, archeologia, pentecontaetia, gli anni dal 431 all’autunno del 411. Gli anni successivi della grande guerra tra i Greci si trovano nelle Elleniche di Senofonte probabilmente composte su carte tucididèe.
[34]A. Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca , p. 51
[35] Tucidide fa l’elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera (“katei’ce to; plh’qo” ejleuqevrw””) e non si faceva condurre più di quanto la conducesse ( Storie, II, 65, 8).
[44] Mazzarino, op. cit., p. 138. L’autore continua così:”significa Robespierre e Verginaud e Danton; solo uno storico di razza (sia pure uno storico moralista, storico dell’ ethos di grandi individui) poteva trasmetterci l’eredità classica, in quanto eredità di tradizione storica, in maniera così rilevante e decisiva.
[45] Traduzioni approvate, da Montaigne che, qualche anno più tardi, scrive nei Saggi :” Io do giustamente, mi sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo per la semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli altri, né per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto spinoso…ma soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere un libro tanto degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal pantano; grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai maestri di scuola; è il nostro breviario”(II, 4, pp. 467-468).
[46] In Opere 1932-1973 , trad. it. Bompiani, Milano, 1990, p. 1812.
[47] Vita , Epoca terza, cap. VII. Siamo nel 1769; Alfieri è ripatriato per un mezzanno” .
[48] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 2, p. 371.
[57] Nella Vita di Antonio, accoppiata con quella di Demetrio, Plutarco cita due versi dellEdipo re (il quarto leggermente modificato e il quinto senza ritocchi poli~ ) per significare la dissolutezza pestifera di Antonio: quando il triumviro si recò in Oriente, l’Asia intera, come quella famosa città di Sofocle (Tebe) era piena di fumi di incenso, e insieme di peani e di gemiti (24, 3).
Subito dopo Plutarco racconta che Antonio entrò in Efeso preceduto da donne vestite come le Baccanti e da uomini e fanciulli abbigliati da Satiri e da Pan; la città era piena di edera, tirsi, zampogne e flauti e la gente acclamava Antonio come Dioniso che dà gioia e amabile. Per alcuni sarà stato tale, ma per i più era Wmhsth;~ kai; jAgriwvnio~ (24, 4-5), Dioniso Crudivoro e Selvaggio.
Quando Cleopatra si recò da lui risalendo il fiume Cidno, con teatralità ancora più vistosa, si diffuse dappertutto la voce che Afrodite con il suo corteo andava da Dioniso per il bene dell’Asia (wJ~ hJ jAfrodivth kwmavzoi pro;~ to;n Diovnuson ejp j ajgaqw`/ th`~ jAsiva~, 26, 5). Quindi Plutarco racconta alcune buffonate che i due amanti compivano divertendo gli Alessandrini i quali dicevano che Antonio con i
Romani usava la maschera tragica e con loro quella comica ( levgonte~ wJ~ tw`/ tragikw`/ pro;~ tou;~ JRomaivou~ crh`tai proswvpw/, tw`/ de; kwmikw/` pro;~ aujtouv~, 29, 4).