8 marzo
27 Gennaio 2019Sofia Giacomelli
27 Gennaio 2019di Giovanni Ghiselli
Ricorrono frequentemente, accanto a “cultura” e “scuola”, le parole “merito-meritocrazia”, e “competitività”.
Con questo articolo vorrei analizzarle in breve, eppure non senza una prospettiva diacronica che mi permetta di utilizzare i miei autori greci e latini. Temo che le parole in questione abbiano subito un restringimento e un avvilimento semantico. Cercherò dunque di rivendicare e restituire loro la pienezza del significato. Parto dalla più importante.
Cultura non è erudizione, ma paideia, bildung, formazione insomma della persona. E’ illuminante la distinzione che Euripide fa nelle Baccanti quando scrive: il sapere non è sapienza” (v. 395).
Non è inutile notare che il sapere” è designato dal drammaturgo con una aggettivo sostantivato al neutro (sofón), un termine che può evocare lo studio dellerudito rinchiuso nelle biblioteche, mentre il sostantivo sofía indica la saggezza dell’uomo capace di rispettare e amare la vita, ed è parola di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo sapore di ricchezza mentale feconda, produttiva.
Il sapere non è sapienza, afferma dunque il primo stasimo delle Baccanti, e procede con l’auspicio di tenere la mente e l’anima lontane dagli uomini straordinari (vv.428-429).
Ma chi sono gli “straordinari”? Si può rispondere ricordando Delitto e castigo. Gli straordinari sono i modelli negativi che Raskòlnikov, il giovane protagonista del romanzo, ricava dalla storia: sono quei presunti superuomini che si considerano al di sopra delle leggi.
“Gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un po’, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i i modi la legge, per il semplice fatto di essere straordinari”. Così argomenta il personaggio di Dostoevskij, uno studente povero.
Quindi, per assimilarsi a questi presunti superuomini, il ragazzo ammazza due vecchie, ma viene tradito dai propri nervi e finisce in Siberia. Un monito da tenere presente. Se Raskòlnikov guardava a Napoleone come esempio da imitare, ora i modelli pericolosi per tanti sprovveduti sono, ben più meschinamente, i vari Briatore di turno sulla ribalta.
Una buona difesa da tali abbagli che accecano le menti è la cultura.
Chi ha la buona abitudine di leggere gli ottimi autori viene spinto a indagare se stesso ( Eraclito), a conoscere se stesso (come prescriveva l’oracolo delfico), a trarre comprensione anche dal dolore (Eschilo), a sviluppare in pieno la propria personalità fino a diventare quello che veramente è (Pindaro). Labitudine alla lettura, soprattutto per chi proviene da famiglie scarsamente secolarizzate, si prende a scuola.
Bisogna lottare perché la sostanza dell’umanesimo, della cultura, della civiltà, rimanga nelle nostre aule scolastiche. E non solo. In Il giuoco delle perle di vetro, Bildungsroman di Herman Hesse leggiamo queste parole profetiche: “Si sa o si intuisce che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell’ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di valore e di autorità, e si cade nel caos (.) Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani, rossi e bianchi non s’intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abaco che non fossero dettati dagli interessi dei grandi, né venissero modificati a ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos”.
Passiamo al merito. Questa è una parola che contiene l’idea di reciprocità. Si compie bene un lavoro e se ne ottiene un compenso.
Reciprocità, ovviamente nel bene, non è una brutta parola, come non lo è contrappasso” nel male.
Nel poema agricolo di Esiodo leggiamo : “a se stesso apparecchia il male l’uomo che lo prepara per un altro, e il pensiero cattivo è pessimo per chi l’ha pensato” (Opere e giorni, vv. 265-266).
Tommaso d’Aquino spiega il contrappasso con queste parole: ” Sed haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit patiatur” (S. Theol. II, II, 61, 4 3), ma questo è il sistema del giudizio divino, che uno riceva secondo quello che ha fatto
Io diffido di chi sbandiera la propria generosità e santità ripetendo di essere uno che fa del bene a tutti senza aspettarsi nulla in cambio. Mi ricorda il sanguinario Riccardo III di Shakespeare, quando, ancora duca di Gloucester, in un breve monologo dice di se stesso che “copre la propria nuda scelleratezza con vecchi scampoli carpiti a casaccio alla Sacra Scrittura e tanto più sembra un santo quanto più fa il diavolo” ( Riccardo III, I, iii).
Il merito dunque merita compenso e vuole essere riconosciuto. La capacità, l’impegno, la lealtà. la generosità sono meritevoli di riconoscimento in termini di onore innanzitutto, poi anche di remunerazione materiale, che non costituisca però una umiliazione di chi ha avuto in dono dal destino talento e volontà inferiori
Intendo dire che la mercede del merito non deve essere sproporzionata rispetto alle necessità di ogni persona, di ogni famiglia.
Le disuguaglianze colossali sono una negazione della democrazia e della libertà.
La meritocrazia, come la democrazia, dovrebbe escludere la pre-potenza che appartiene alla gamma dei significati della parola kratos. Merito massimo, soprattutto nel caso dell’uomo politico, è impiegare le proprie capacità per il bene della comunità. Governare, amministrare deve essere un servizio reso alla comunità, non una fonte di lucro individuale e colossale. Minister deve essere uno che compie un servizio.
Meritevole, e davvero morale, è il servizio che si rende favorendo la vita, la propria e quella degli altri.
Concludo con la competitività. Esiodo la chiama Eris e distingue quella buona da quella cattiva
Buono è lo spirito di emulazione che, posto alle radici della terra (Opere e giorni, 19), ossia alla base del progresso umano, spinge a migliorarsi continuamente, a fare sempre meglio.
Da biasimare è invece lEris che fa crescere la guerra e la contesa funesta” (v. 14), ossia la competizione che tira a fregare per dirla con parole povere e molto dirette.
Ricorrere ai classici aiuta anche a capire che “il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate. Invece il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di “artifici scaltri”. Sono parole che Euripide attribuisce a Polinice nella tragedia Fenicie, ma si potrebbero attribuire a tante personae, parola latina che indica maschere, personaggi ubiqui, onnipresenti nelle trasmissioni televisive dove vanno e vengono per ciarlare e arzigogolare, oscurando o perfino nascondendo la verità che in greco è invece alètheia, etimologicamente “non latenza”.
Qualcuno potrebbe obiettare che senza reciprocità, senza compenso, senza competitività non vi è motivazione. Rispondo che la spinta più forte ad agire viene dal constatare che le nostre azioni contribuiscono al bene comune oltre che al nostro.
Tanti giovani, ben lungi dall’essere fannulloni, e pure tanti non giovani provano questo nobile desiderio.
E’ nell’incrocio fra il voler acquisire sapere e la soddisfazione di trasmetterlo che si sostanzia, da sempre una ricompensa reciproca fra l’allievo e il docente. Chi non lo sa? Eppure è un dato che sembra smarrito.
Giovanni ghiselli [email protected]
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Nella riunione in cui ci siamo trovati per proporre gli argomenti di questo numero della rivista, abbiamo detto e ripetuto le parole cultura”, merito-meritocrazia”, e competitività”.
Con questo articolo vorrei analizzarle in breve, eppure non senza una prospettiva diacronica che mi permetta di utilizzare i miei autori greci e latini. Temo che le parole in questione abbiano subito un restringimento semantico. Cercherò dunque di rivendicare e restituire loro la pienezza del significato. Parto dalla più importante.
Cultura non è erudizione ma paideia, bildung, formazione insomma della persona. E illuminante la distinzione che Euripide fa nelle Baccanti quando scrive “to; sofo;n d j ouj sofiva” ( vv. 395), il sapere non è sapienza.
Non è inutile notare che il sapere, la pretesa saggezza dell’uomo, è designato con una aggettivo sostantivato al neutro, un termine che ha carattere di artificiosità; mentre il sostantivo sofiva- che indica la saggezza dell’uomo che sente rispetto e amore per la vita -è parola di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo sapore di vita feconda, produttiva. Come sono le donne beate loro e tutte le femmine di tutti-i sereni animali-che avvicinano a Dio”, per dirla con Umberto Saba[1].
Il sapere non è sapienza, afferma dunque il primo stasimo delle Baccanti, e procede con l’auspicio di tenere la mente e l’anima lontane
dagli uomini straordinari (vv.428-429).
Questi, gli straordinari, nel romanzo Delitto e castigo, sono i modelli negativi che Raskolnikov, il giovane protagonista del libro, ricava dalla storia: sono quei presunti superuomini che si considerano al di sopra delle leggi. Una storia fatta anche di ingiustizie, prepotenze, massacri.
“Gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un po, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i i modi la legge, per il semplice fatto d’essere straordinari”. Questo aveva pensato e scritto il personaggio di Dostoevskij. Poi, per dimostrare a se stesso di essere uno straordinario”, il ragazzo ammazza due vecchie. Ma in seguito i nervi e il senso di colpa lo tradiscono, viene scoperto, e finisce in Siberia.
Ebbene, io credo che molti giovani di oggi abbiano bisogno dello scudo della cultura per difendersi dall’invasione dei modelli diffusi dalla pubblicità, televisione e gran parte della stampa, paradigmi negativi che fanno una propaganda martellante e ubiqua all’egoismo, alledonismo, al consumismo. Se Raskolnikov guardava a Napoleone come esempio da imitare, ora i modelli degli ignoranti sono i vari Briatore di turno sulla ribalta.
Viceversa, dagli ottimi autori il giovane potrebbe prendere l’abitudine di indagare se stesso ( Eraclito), di conoscere quindi se stesso (oracolo delfico citato da diversi scrittori), di trarre comprensione anche dal dolore, dalle difficoltà sormontabili ma non evitabili (Eschilo, Hermann Hesse e tanti altri), di sviluppare la propria personalità e diventare chi veramente è (Pindaro, Nietzsche), non un povero burattino della pupazzata consumistica, né una disgraziata vittima dell’astuzia affaristica. La scuola educativa deve insegnare a pensare e a parlare.
Si deplora, molto giustamente, la violenza sulle donne, ma non si risale alle cause: è limbestiamento di chi non sa parlare, di chi non conosce parole belle e, perché no, seduttive, che spinge alla violenza. E una regressione ai tempi primitivi quali descrive Lucrezio: Venere nelle selve congiungeva i corpi degli amanti; di fatto conquistava ciascuna femmina, o la reciproca brama o l’impetuosa violenza del maschio (vel violenta viri vis), accesa dalla libidine sfrenata, o una mercede: ghiande e bacche o pere scelte (De rerum natura, V, 962-965).
Brama cieca, violenza e prostituzione dunque, in mancanza di civiltà e di cultura. Questo è un aspetto, tra i più dolorosi dell’ignoranza afasica, ma ce ne sono altri conseguenti al declino della scuola e dell’educazione che la scuola dovrebbe dare.
Bisogna comunque lottare perché la sostanza dell’umanesimo, della cultura della civiltà, rimanga nelle nostre aule scolastiche.
Per inserire i mostri della notte nel culto della persona umana, per trasformare le Erinni in Eumenidi, le maledizioni in benedizioni.
Dopo alcuni anni di cattivo funzionamento della scuola, non funziona più niente.
“Si sa, o si intuisce, che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell’ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di valore e di autorità, e si cade nel caos () Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani[2], rossi e bianchi non s’intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abbaco che non fossero dettati dagli interessi dei grandi, né venissero modificati a ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos”[3].
Per quanto riguarda la cultura-educazione può bastare.
Passiamo al merito. Questa è una parola che contiene l’idea di reciprocità. Si compie bene un lavoro e se ne ottiene un compenso.
Reciprocità, ovviamente nel bene, non è una brutta parola, come non lo è contrappasso2 nel male.
Nel poema agricolo di Esiodo leggiamo leggiamo :” a se stesso apparecchia il male l’uomo che lo prepara per un altro[4], e il pensiero cattivo è pessimo per chi l’ha pensato”.
Tommaso d’Aquino spiega il contrappasso con queste parole: Sed haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit patiatur“[5].
Io diffido di chi sbandiera la propria generosità e santità dicendo che lui fa del bene a tutti, gratis et amore, senza aspettarsi nulla in cambio. Mi ricorda Riccardo III di Shakespeare, quando, ancora duca di Gloucester, in un breve monologo dice che copre la propria nuda scelleratezza con vecchi scampoli carpiti a casaccio alla Sacra Scrittura e tanto più sembra un santo quanto più fa il diavolo (I iii).
Il merito dunque merita compenso e vuole essere riconosciuto. Ma che cosa è meritevole di riconoscimento in termini di onore innanzitutto, poi anche di remunerazione[6] materiale, che non costituisca però una umiliazione di chi ha avuto in dono dal destino volontà e capacità inferiori?
Intendo dire che la mercede del merito non deve essere sproporzionata rispetto alle necessità di ogni essere umano.
Un operaio con cinque figli secondo me non dovrebbe guadagnare meno di un consigliere regionale celibe.
Le disuguaglianze colossali sono una negazione della democrazia e della libertà.
La meritocrazia tanto sbandierata, come la democrazia, dovrebbe escludere la pre-potenza che appartiene alla gamma dei significati della parola kravto~ (kratos). Merito massimo, soprattutto nel caso dell’uomo politico, è impiegare le proprie capacità per il bene comune. Meritevole è la generosità, laltruismo, la capacità di favorire la vita, la propria e quella degli altri. Meritoria è la buona eris di Esiodo, lo spirito di emulazione che spinge a fare sempre meglio. Da biasimare è invece la competitività che tira a fregare per dirla con parole povere e molto dirette.
Ricorrere ai classici aiuta anche a capire che il discorso della verità è semplice e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate. Invece il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di artifici scaltri”. Sono parole che Euripide attribuisce a Polinice nella tragedia Fenicie, ma si potrebbero attribuire a tanti dei nostri politici e tecnici che ciarlano a casaccio e arzigogolano nascondendo verità che in greco è invece áletheia [7], etimologicamente non latenza”.
Su questo abbiamo discusso per un paio di ore e ci siamo trovati sostanzialmente d’accordo. Il vostro umile cronista ha riferito quanto si è detto con l’aggiunta, gratuita, di qualche sua modestissima conoscenza del resto ricavata con una vita di studio. Una vita impiegata e adoperata in favore di chi vuole imparare.
Tanti giovani, ben lungi dall’essere fannulloni, e pure tanti non giovani provano questo nobile desiderio.
Un paio di giorni fa, sono andato al Liceo Tito Livio di Padova, invitato dallAICC[8].
Ho parlato per un’ora di Medea tra Euripide e Seneca. Ho avuto il rimborso del viaggio, peraltro non richiesto. Ebbene, il compenso del merito, il segno di quanto il mio lavoro è stato meritevole, è stata l’attenzione del pubblico, misto di ragazzi, di adulti e di vecchi come me, perfino più attempati di me che fra tre giorni compio 68 anni. Oramai sono settanta, ma la voglia di imparare e donare quanto ho imparato e imparo è sempre tanta[9].
Grande soddisfazione mi ha dato anche la discussione che la mia chiacchierata ha suscitato e alcuni riscontri ricevuti per posta elettronica. Riporto il più bello che rende onore alla cultura, ai giovani che la desiderano, e, forse non indegnamente, al mio lavoro di una vita.
Gentilissimo professore,
Sono rimasta incantata della sua esposizione e avrei voluto ascoltarla molto più a lungo.
Le chiedo la cortesia di inviarmi i materiali cui accennava giovedì a questo indirizzo email , [email protected], da cui Le sto scrivendo.
La ringrazio molto.
Cordiali saluti
Lucia Busnardo
Grazie a te Lucia, che tu sia ragazza o donna o anziana. Grazie a te e a quelli come te.
giovanni ghiselli [email protected]
Note:
[1] A mia moglie, Il Canzoniere, 1921.
[2] Oggi aggiungerei maschi e femmine” (ndr).
[3] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 33 e p. 368.
[4] oi| g j aujtw’/ kaka; teuvcei ajnh;r a[llw/ kaka; teuvcwn” (Opere e giorni, v.265),
[5] ma questo è il sistema del giudizio divino, che uno riceva secondo quello che ha fatto (S. Theol. II, II, 61, 4
[6] Munus è una parola che contiene, appunto, un’idea di reciprocità: significa infatti compito” e dono”.
[7] ajlhvqeia.
[8] Associazione italiana cultura classica
[9] Cfr. una battuta di Mastroianni, il protagonista di La città delle donne di Fellini: oramai sono cinquanta, ma la voglia è sempre tanta”