Canto tredicesimo dell’Inferno
28 Dicembre 2019Le arpie. Eneide, III, 192-269
28 Dicembre 2019Gli ultimi versi del Paradiso (vv. 67-145 del Canto XXXIII) rappresentano l’apice della Divina Commedia e costituiscono il momento culminante del viaggio di Dante: la visione diretta di Dio e la comprensione del mistero della Trinità.
In questa parte finale, Dante, giunto al cospetto della somma luce divina, si rende conto dell’ineffabilità di ciò che vede e cerca, con le limitate capacità umane, di esprimere questa visione trascendentale. Questi versi celebrano il limite del linguaggio e della ragione umana di fronte all’assoluto divino, ma al contempo suggellano il poema con un’immagine di armonia universale.
Versi 67-78: Invocazione e limite del linguaggio
Dante, riconoscendo l’insufficienza della sua capacità di descrivere pienamente ciò che ha visto, invoca Dio:
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi, (67-69)
Questi versi sono un’invocazione a Dio, la “somma luce”, affinché conceda a Dante un minimo di memoria di ciò che ha appena visto, permettendogli di esprimere almeno una scintilla di quella gloria con il suo linguaggio umano. Il poeta è consapevole che la visione di Dio supera i concetti umani e non può essere adeguatamente descritta. La luce è un simbolo tradizionale della presenza divina, e Dante prega che la sua lingua possa essere “tanto possente” da lasciare anche solo un riflesso di quella gloria per le future generazioni:
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente; (71-72)
Dante accetta il limite del suo linguaggio e riconosce che il suo ricordo sarà limitato, ma spera che quel poco che riuscirà a esprimere possa essere sufficiente a suggerire la grandezza della visione divina:
più si conceperà di tua vittoria (75).
Versi 79-96: La visione dell’unità universale
Dante descrive la potenza della luce divina e la sua esperienza diretta della visione di Dio. Il poeta afferma che, grazie alla grazia divina, è stato in grado di fissare il suo sguardo nella luce eterna e comprendere l’unità del creato:
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi! (82-84)
La visione culmina nella comprensione dell’unità dell’universo:
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna: (85-87)
Dante percepisce che tutto ciò che è sparso nell’universo, apparentemente disordinato e separato, trova la sua unità in Dio. Questa immagine di un “volume” in cui tutto è “legato con amore” simboleggia l’ordine divino che tiene insieme tutte le cose, sia le “sostanze” (ciò che è essenziale) sia gli “accidenti” (ciò che è contingente):
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. (88-90)
Dante ammette che quanto riesce a dire non è altro che un “semplice lume”, un pallido riflesso di ciò che ha realmente visto. Il suo tentativo di descrivere la visione è limitato dalla natura umana e dal linguaggio.
Versi 97-120: Il mistero della Trinità
In questa sezione, Dante descrive la visione della Trinità, la quale appare come tre cerchi di colori diversi ma della stessa “contenenza” (cioè della stessa essenza). L’immagine è straordinaria: Dante vede tre cerchi concentrici, ciascuno dei quali rappresenta una delle tre persone della Trinità:
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza; (115-117)
La descrizione continua con l’immagine del secondo cerchio che sembra essere riflesso dal primo, come l’iride dentro l’iride, e il terzo cerchio che è un foco che emana da entrambi:
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri. (118-120)
Questa immagine è una rappresentazione visiva e simbolica della Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, uniti in un’unica sostanza ma distinti nelle loro persone.
Versi 121-142: L’incapacità di comprendere pienamente il mistero divino
Dante si rende conto che, nonostante la sua elevazione spirituale, non è in grado di comprendere appieno il mistero della Trinità. Il poeta paragona la sua incapacità a quella di un geometra che cerca di misurare un cerchio senza riuscire a trovare il “principio” che cerca:
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige, (133-135)
Dante tenta di capire come l’immagine umana possa essere riflessa all’interno del cerchio divino, ma la sua ragione fallisce. Tuttavia, un fulgore improvviso, simbolo della grazia divina, colpisce la sua mente e gli permette di ottenere una comprensione intuitiva di ciò che la ragione non poteva afferrare:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne. (139-140)
Versi 143-145: L’amore che muove il mondo
La visione si chiude con l’immagine sublime dell’amore divino che governa l’intero universo:
l’amor che move il sole e l’altre stelle. (145)
Questa frase finale è una delle più celebri dell’intera Commedia e sintetizza la visione di Dante: l’amore di Dio è la forza che muove tutto, sia il mondo materiale (il sole e le stelle), sia quello spirituale. L’universo intero è retto dall’amore divino, che è al centro di tutto.
Temi principali
- L’ineffabilità della visione di Dio: Dante riconosce che la visione di Dio è impossibile da descrivere pienamente con il linguaggio umano. Il suo tentativo di esprimere la realtà divina è limitato, e questo conferma l’incommensurabilità tra il divino e l’umano.
- L’unità dell’universo in Dio: Nel momento della sua massima elevazione spirituale, Dante comprende che tutto ciò che sembra disperso nell’universo trova la sua unità in Dio, il centro e la fonte di tutto.
- Il mistero della Trinità: La visione dei tre cerchi rappresenta il mistero della Trinità, che Dante può vedere ma non comprendere pienamente con la ragione.
- L’amore come forza universale: La conclusione dell’opera sottolinea che l’amore divino è la forza che muove tutto ciò che esiste, dal cosmo al più piccolo atto umano. L’amore è il principio fondamentale dell’esistenza.
Conclusione
Gli ultimi versi del Paradiso rappresentano l’apice della riflessione dantesca sulla natura di Dio, dell’universo e della condizione umana. Dante raggiunge la visione finale dell’unità cosmica e dell’amore divino, ma al tempo stesso riconosce i limiti della sua comprensione e del suo linguaggio. L’opera si chiude con una celebrazione della forza universale dell’amore, che governa sia il mondo fisico sia quello spirituale.
Solo testo dei versi 79-142 del trentatreesimo canto del Paradiso di Dante
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,69
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;72
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria. 75
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi. 78
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito. 81
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!84
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:87
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. 90
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. 93
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo. 96
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa. 99
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;102
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto. 105
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella. 108
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;111
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava. 114
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;117
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri. 120
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’. 123
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!126
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,129
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo. 132
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,135
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;138
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne. 141
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,144
l’amor che move il sole e l’altre stelle.