Siena
27 Gennaio 2019Accoglienza
27 Gennaio 2019
Giovanni Boccaccio
Ottava Giornata
Novella Settima
Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’tafani e al sole.
Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n’avrebbono ancora, se stato non fosse che loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a color che tolto gli aveano il porco. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; ed essa prestamente così cominciò.
Carissime donne, spesse volte avviene che l’arte è dall’arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui.
Noi abbiamo per più novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s’è raccontato; ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d’una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo. E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno.
Egli non sono ancora molti anni passati, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’beni della fortuna convenevolmente abondante e nominata Elena; la quale rimasa del suo marito vedova, mai più rimaritar non si volle, essendosi ella d’un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorata; e da ogni altra sollicitudine sviluppata, con l’opera d’una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo.
Avvenne che in questi tempi un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d’esse (il che ottimamente sta in gentile uomo), tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienzia, cittadinescamente viveasi.
Ma, come spesso avviene, coloro ne’quali è più l’avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri. Al quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato ad una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza, quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere. E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollicitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il potere aver copia di lei.
La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno, ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava, accortasi di Rinieri, in sé stessa ridendo disse: – Io non ci sarò oggi venuta in vano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin per lo naso – . E cominciatolo con la coda dell’occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva, s’ingegnava di dimostrar gli che di lui le calesse; d’altra parte, pensandosi che quanti più n’adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l’aveva data.
Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l’animo rivolse a costei; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v’incominciò a passare, con varie cagioni colorando l’andate. Al qual la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s’accontò con la fante di lei, e il suo amor le scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di lei potesse avere.
La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l’ascoltò, e disse:
– Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di quello ch’e’va cercando. Dira’gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto più lui che egli non ama me; ma che a me si convien di guardar l’onestà mia, sì che io con l’altre donne possa andare a fronte scoperta, di che egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara avere.
Ahi cattivella, cattivella, ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari!
La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto.
Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa guisa il tenne gran tempo in pastura.
Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei sospicasse, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter fare cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l’aveva certa, se non che per le feste del Natale che s’appressava ella sperava di potere esser con lui; e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe.
Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad aspettare.
La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo:
– E potrai vedere quanto e quale sia l’amore, il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa.
Queste parole ascoltò l’amante con gran piacer d’animo disideroso di vedere per opera ciò che la donna con parole gli dava ad intendere. Era per avventura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che voluto non avrebbe; ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva.
La donna al suo amante disse dopo alquanto:
– Andiancene in camera, e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui tu se’divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante, la quale io gli ho mandata a favellare.
Andatisene adunque costoro ad una finestretta, e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un’altra favellare allo scolare e dire:
– Rinieri, madonna è la più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de’suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, e ancora non se n’è andato; ma io credo che egli se n’andrà tosto; e per questo non è ella potuta venire a te, ma tosto verrà oggimai; ella ti priega che non ti incresca l’aspettare.
Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose:
– Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio per me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può.
La fante, dentro tornatasi se n’andò a dormire.
La donna allora disse al suo amante:
– Ben, che dirai? Credi tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse là giù ad agghiacciare? – e questo detto, con l’amante suo, che già in parte era contento, se n’andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi beffe.
Lo scolare, andando per la corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s’aprisse; ma invano sperava.
Essa infino vicino della mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli disse:
– Che ti pare, anima mia, dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o l’amore ch’io gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti vi t’entrò l’altrieri?
L’amante rispose:
– Cuor del corpo mio, sì, assai conosco che così come tu se’il mio bene e il mio riposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.
– Adunque,- diceva la donna – or mi bacia ben mille volte, a veder se tu di’vero.- Per la qual cosa l’amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento milia la baciava. E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna:
– Deh! levianci un poco, e andiamo a vedere se ‘l fuoco è punto spento, nel quale questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.
E levati, alla finestretta usata n’andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve una carola trita al suon d’un batter di denti, che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano.
Allora disse la donna:
– Che dirai, speranza mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?
A cui l’amante ridendo rispose:
– Diletto mio grande, sì.
Disse la donna:
– Io voglio che noi andiamo infin giù all’uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e udirem quello che egli dirà; e per avventura n’avrem non men festa che noi abbiam di vederlo.
E aperta la camera chetamente, se ne scesero all’uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto che v’era il chiamò.
Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Iddio, credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi all’uscio disse:
– Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io muoio di freddo.
La donna disse:
– O sì che io so che tu se’uno assiderato; e anche è il freddo molto grande, perché costì sia un poco di neve! Già so io che elle sono molto maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora; ma egli se n’andrà tosto, e io verrò incontanente ad aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui, per venirti a confortare che l’aspettar non t’incresca.
Disse lo scolare:
– Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m’apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s’è messa la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v’attenderò quanto vi sarà a grado.
Disse la donna:
– Ohimè, ben mio dolce, che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s’apre, che leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t’aprissi; ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad aprirti.
Disse lo scolare:
– Ora andate tosto; e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo che appena sento di me.
Disse la donna:
– Questo non dee potere essere, se quello è vero che tu m’hai più volte scritto, cioè che tu per l’amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi. Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore.
L’amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono.
Lo scolare cattivello (quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti) accorgendosi d’esser beffato, più volte tentò l’uscio se aprir lo potesse, e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte, insieme con la sua simplicità; e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio transmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava, che prima d’esser con la donna non avea disiato.
La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s’avvicinò al dì, e cominciò l’alba ad apparire. Per la qual cosa la fante della donna ammaestrata, scesa giù, aperse la corte, e mostrando d’aver compassion di costui, disse:
– Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne. Egli n’ha tutta notte tenute in bistento, e te ha fatto agghiacciare; ma sai che è? Portatelo in pace, ché quello che stanotte non è potuto essere sarà un’altra volta; so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna.
Lo scolare sdegnoso, sì come savio, il quale sapeva niun’altra cosa le minacce essere che arme del minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontà s’ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse:
– Nel vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di me, infin quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di’, quello che stanotte non è stato sarà un’altra volta; raccomandalemi e fatti con Dio.
E quasi tutto rattrappato, come potè a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto delle braccia e delle gambe si destò. Per che, mandato per alcun medico e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fe’provedere.
Li medici con grandissimi argomenti e con presti aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il poterono de’nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere. Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua.
Ora avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era amato (non avendo alcun riguardo all’amore da lei portatogli), innamorato di un’altra donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in amaritudine si consumava. Ma la sua fante, la qual gran compassion le portava, non trovando modo da levar la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l’amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione, e che di ciò lo scolare dovesse essere gran maestro, e disselo alla sua donna.
La donna poco savia, senza pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata l’avrebbe, pose l’animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che per merito di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse.
La fante fece l’ambasciata bene e diligentemente, la quale udendo lo scolare, tutto lieto seco medesimo disse: – Iddio lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava – . E alla fante disse:
– Dirai alla mia donna che di questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse in India, io gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto; ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò, attendo di dire a lei, quando e dove più le piacerà; e così le di’, e da mia parte la conforta.
La fante fece la risposta, e ordinossi che in Santa Lucia del Prato fossero insieme.
Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che disiderava, e pregollo per la sua salute. A cui lo scolar disse:
– Madonna, egli è il vero che tra l’altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della quale per certo io so ciò che n’è, ma per ciò che ella è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né per altrui adoperarla. E il vero che l’amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi piace. Ma io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che voi per
avventura non v’avvisate; e massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé o l’uomo una donna, per ciò che questo non si può far se non per la propria persona a cui appartiene; e a far ciò convien che chi ‘l fa sia di sicuro animo, per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitari e senza compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta.
A cui la donna, più innamorata che savia, rispose:
– Amor mi sprona per sì fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per riaver colui che a torto m’ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga esser sicura.
Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda, disse:
– Madonna, a me converrà fare una imagine di stagno in nome di colui il qual voi disiderate di racquistare, la quale quando io v’arò mandata, converrà che voi, essendo la luna molto scema, ignuda in un fiume vivo, in sul primo sonno e tutta sola, sette volte con lei vi bagniate; e appresso, così ignuda, n’andiate sopra ad un albero, o sopra una qualche casa disabitata; e, volta a tramontana con la imagine in mano, sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte; le quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle più belle che voi vedeste mai, e sì vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quel che voi vogliate che si faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri; e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro; e come detto l’avrete, elle si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa. E per certo, egli non sarà mezza la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascierà.
La donna, udendo queste cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle braccia, mezza lieta divenuta disse:
– Non dubitare, che queste cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò del mondo; ché io ho un podere verso il Vai d’Arno di sopra, il quale è assai vicino alla riva del fiume, ed egli è testé di luglio, che sarà il bagnarsi dilettevole. E ancora mi ricorda esser non guari lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di castagnuoli che vi sono, salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto che v’è, a guardar di lor bestie smarrite (luogo molto solingo e fuor di mano), sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di fare quello che m’imporrai.
Lo scolare, che ottimamente sapeva e il luogo della donna e la torricella, contento d’esser certificato della sua intenzion, disse:
– Madonna, io non fu’mai in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se così sta come voi dite, non può essere al mondo migliore. E per ciò, quando tempo sarà, vi manderò la imagine e l’orazione; ma ben vi priego che, quando il vostro disiderio avrete e conoscerete che io v’avrò ben servita, che vi ricordi di me e d’attenermi la promessa.
A cui la donna disse di farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa.
Lo scolar lieto di ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte, e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza più indugio dovesse far quello che detto l’avea; e appresso segretamente con un suo fante se n’andò a casa d’un suo amico che assai vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto.
La donna d’altra parte con la sua fante si mise in via e al suo podere se n’andò; e come la notte fu venuta, vista faccendo d’andarsi al letto, la fante ne mandò a dormire, e in su l’ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d’Arno se n’andò, e molto dattorno guatatosi, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano, verso la torricella n’andò.
Lo scolare, il quale in sul fare della notte, col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s’era, e aveva tutte queste cose vedute, e passandogli ella quasi allato così ignuda, ed egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte, e appresso riguardandole il petto e l’altre parti del corpo, e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d’altra parte lo stimolo della carne l’assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva, e con fortavalo che egli da guato uscisse e lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin fu ad essere tra dall’uno e dal l’altro vinto. Ma nella memoria tornandosi chi egli era, e qual fosse la ‘ngiuria ricevuta, e perché e da cui, e per ciò nel lo sdegno raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo, e lasciolla andare.
La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, e appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare.
La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l’aspettare (senza che fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe) che ella vide l’aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l’avea, seco disse: – Io temo che costui non m’abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò questo m’ha fatto, mal s’è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua, senza che il I freddo fu d’altra qualità – . E perché il giorno quivi non la cogliesse, cominciò a volere smontare della torre, ma ella trovò non esservi la scala.
Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l’animo, e vinta cadde sopra il battuto della torre. E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s’incominciò a ramaricare d’avere altrui offeso, e appresso d’essersi troppo fidata di colui,
il quale ella doveva meritamente creder nimico; e in ciò stette
lunghissimo spazio.
Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, ricominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero, a sé stessa dicendo:- O sventurata, che si dirà da’tuoi fratelli, da’parenti e da’vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste ce avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che ad una ora avrai perduto il male amato giovane e il tuo onore! – E dopo questo venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra.
Ma, essendosi già levato il sole ed ella alquanto più dall’una delle parti più al muro accostatasi della torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie s’accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d’un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide ed ella lui. Alla quale lo scolare disse:
– Buon dì, madonna; sono ancor venute le damigelle?
La donna, vedendolo e udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli.
Lo scolare le fu di questo assai cortese.
La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello, e piagnendo disse:
– Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se’ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda, assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo ‘nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi. E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu amar non dei, ma per amor di te, che se’gentile uomo, che ti basti, per vendetta della ingiuria la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare, e che io possa di quassù discendere, e non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti, cioè l’onor mio; ché, se io tolsi a te l’esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai l’esserti potuto vendicare e l’averlomi fatto conoscere; non volere le tue forze contro ad una femina esercitare; niuna gloria è ad una aquila l’aver vinta una colomba; dunque, per l’amor di Dio e per onor di te, t’incresca di me.
Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad una ora aveva pia cere e noia nello animo; piacere della vendetta, la quale più che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua a compassion della misera. Ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza dello appetito, rispose:
– Madonna Elena, se i miei prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati come tu ora sai porgere i tuoi) m’avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire; ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed etti grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t’increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t’ingegna di mettere tenerezza del tuo onore, per cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio.
Come nol chiami tu che ti venga ad aiutare? E a cui appartiene egli più che a lui? Tu se’sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se’, e prova se l’amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual, sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l’amor che tu gli portavi. Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero, né negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue notti riserba, se egli avviene che tu di qui viva ti parti; tue sieno e di lui; io n’ebbi troppo d’una, e bastimi d’essere stato una volta schernito.
E ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t’ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare, e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità, t’ingegni di fare; ma le tue lusinghe non m’adombreranno ora gli occhi dello ‘ntelletto, come già fecero le tue disleali promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere.
Ma, presupposto che io pur magnammo fossi, non se’tu di quelle in cui la magnanimità debba i suoi effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle salvatiche fiere come tu se’, e similmente della vendetta, vuole esser la morte, dove negli uomini quel dee bastare che tu dicesti. Per che, quatunque io aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo nimico con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si possa assai propiamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento, in quanto la vendetta dee trapassare l’offesa, e questo non v’aggiugnerà; per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l’anima mia, la tua vita non mi basterebbe, togliendolati, né cento altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva e rea feminetta.
E da che diavol (togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendolo di crespe) se’tu più che qualunque altra dolorosetta fante? Dove per te non rimase di far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al mondo, che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee. Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che hanno alcun sentimento, e che cosa sia lo schernir gli scolari; e darotti materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi.
Ma, se tu n’hai così gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad una ora con lo aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare, e me farai il più lieto uomo del mondo. Ora io non ti vo’dir più; io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare.
Parte che lo scolare questo diceva, la misera donna piagneva continuo, e il tempo se n’andava, sagliendo tuttavia il sol più alto. Ma poi che ella il sentì tacer, disse:
– Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l’essermi di te nuovamente fidata e l’averti ogni mio segreto scoperto col quale ho dato via al tuo disidero in potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore aver disiderato.
Deh! lascia l’ira tua e perdonami omai: io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia d’abbandonar del tutto il disleal giovane e te solo aver per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella dell’altre, si sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, si è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini; e tu non se’vecchio. E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare così disonesta morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a’quali, se tu bugiardo non eri come sei diventato, già piacqui cotanto. Deh! increscati di me per Dio e per pietà : il sole s’incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo questa notte m’offese, così il caldo m’incomincia a far grandissima noia.
A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole, rispose:
– Madonna, la tua fede non si rimise ora nelle mie mani per amor che tu mi portassi, ma per racquistare quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male; e mattamente credi, se tu credi questa sola via senza più essere, alla disiderata vendetta da me, opportuna stata. Io n’aveva mille altre, e mille lacciuoli, col mostrar d’amarti, t’aveva tesi intorno a’piedi, né guari di tempo era ad andare, che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia caduta non fossi; e questo presi non per agevolarti, ma per esser più tosto lieto. E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute (ché l’avresti), avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata.
Le forze della penna sono troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno. Io giuro a Dio (e se egli di questa vendetta, che io di te prendo, mi faccia allegro infin la fine, come nel cominciamento m’ha fatto) che io avrei di te scritte cose che, non che dell’altre persone, ma di te stessa vergognandoti, per non poterti vedere t’avresti cavati gli occhi; e per ciò non rimproverare al mare d’averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto.
Del tuo amore, o che tu sii mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur di colui di cui stata se’, se tu puoi, il quale, come io già odiai, così al presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato. Voi v’andate innamorando e disiderate l’amor de’giovani, per ciò che alquanto con le carni più vive e con le barbe più nere gli vedete, e sopra sé andare e carolare e giostrare; le quali cose tutte ebber coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno che coloro hanno ad imparare. E oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri e far di più miglia le lor giornate che gli uomini più maturi.
Certo io confesso che essi con maggior forza scuotono i pilliccioni, ma gli attempati, sì come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci; e di gran lunga è da eleggere più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il trottar forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente andare, ancora che alquanto più tardi altrui meni allo albergo, egli il vi conduce almen riposato.
Voi non v’accorgete, animali senza intelletto, quanto di male sotto quella poca di bella apparenza stea nascoso. Non sono i giovani d’una contenti, ma quante ne veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser degni; per che essere non può stabile il loro amore; e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia. E par loro esser degni d’essere reveriti e careggiati dalle loro donne; né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo già sotto a’frati, che nol ridicono, ne mise molte. Benché tu dichi che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante e io, tu il sai male, e mal credi se così credi. La sua contrada quasi di niun’altra cosa ragiona, e la tua; ma le più volte è l’ultimo, a cui cotali cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono. Essi ancora vi rubano, dove dagli attempati v’è donato.
Tu adunque, che male eleggesti, sieti di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui, ché io ho trovata donna da molto più che tu non se’, che meglio n’ha conosciuto che tu non facesti. E acciò che tu del disidero degli occhi miei possi maggior certezza nell’altro mondo portare che non mostra che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur tosto, e l’anima tua, sì come io credo, già ricevuta nel le braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d’averti veduta strabocchevolmente cadere si saranno turbati o no. Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato.
La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, ricominciò a piagnere e disse:
– Ecco, poi che niuna mia cosa di me a pietà ti muove, muovati l’amore, il qual tu porti a quella donna che più savia di me di’che hai trovata, e da cui tu di’che se’amato, e per amor di lei mi perdona e i miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e quinci mi fa smontare.
Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che già la terza era di buona ora passata, rispose:
– Ecco, io non so ora dir di no, per tal donna me n’hai pregato; insegnamegli, e io andrò per essi e farotti di costà su scendere.
La donna, ciò credendo, alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti. Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che alcun non v’entrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse; e questo detto, se n’andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio desinò, e appresso, quando ora gli parve, s’andò a dormire.
La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del muro dove un poco d’ombra era s’accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri ad aspettare; e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della tornata dello scolare co’panni, e d’un pensiero in altro saltando, sì come quella che dal dolore era vinta, e che niente la notte passata aveva dormito, s’addormentò.
Il sole, il quale era ferventissimo, essendo già al mezzo giorno salito, feriva alla scoperta e al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma quelle minuto minuto tutte l’aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva costrinse a destarsi.
E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s’aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d’una carta di pecora abbruciata, se altri la tira; e oltre a questo le doleva sì forte la testa, che pareva che le si spezzasse, il che niuna maraviglia era. E il battuto della torre era fervente tanto, che ella né co’piedi né con altro vi poteva trovar luogo; per che, senza star ferma, or qua or là si tramutava piagnendo. E oltre a questo, non faccendo punto di vento, v’erano mosche e tafani in grandissima quantità abondanti, li quali, ponendolesi sopra le carni aperte, sì fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d’uno spontone per che ella di menare le mani attorno non restava niente, sé, la sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo.
E così essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da’tafani, e ancor dalla fame, ma molto più dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che avvenire ne le dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto.
Ma anche questo l’aveva la sua nimica fortuna tolto. I lavoratori eran tutti partiti de’campi per lo caldo, avvegna che quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare, sì come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano; per che niuna altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole disiderio delle sue acque, non iscemava la sete ma l’accresceva. Vedeva ancora in più luoghi boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l’erano angoscia disiderando.
Che direm più della sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e de’tafani da lato sì per tutto l’avean concia, che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora rossa divenuta come robbia, e tutta di sangue chiazata, sarebbe paruta, a chi veduta l’avesse, la più brutta cosa del mondo.
E così dimorando costei, senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che altro, essendo già la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna ricordandosi, per veder che di lei fosse se ne tornò alla torre, e il suo fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire:
– Rinieri, ben ti se’oltre misura vendico, ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Iddio che qua su salghi, e poi che a me non soffera il cuore di dare a me stessa la morte, dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale è il tormento che io sento. E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier d’acqua mi fa venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le mie lagrime, tanta è l’asciugaggine e l’arsura la quale io v’ho dentro.
Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza, e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei; ma non per tanto rispose:
– Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e tanta acqua avrai da me a sollevamento del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da te ad alleggiamento del mio freddo. Di tanto mi dolgo forte, che la ‘nfermità del mio freddo col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua rosa si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona fui, tu da questo caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio.
– O misera me!- disse la donna – queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Iddio a quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi? Certo io non so qual maggior crudeltà si fosse potuta usare in un traditore che tutta una città avesse messa ad uccisione, che quella alla qual tu m’hai posta a farmi arrostire al sole e manicare alle mosche; e oltre a questo non un bicchier d’acqua volermi dare, che a’micidiali dannati dalla ragione, andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne domandino. Ora ecco, poscia che io veggo te star fermo nella tua acerba crudeltà, né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia della anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi.
E queste parole dette, si trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli altri suoi dolori, credette di sete ispasimare, tuttavia piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi.
Ma essendo già vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se n’andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio la fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli disse:
– Buona femina, che è della donna tua?
A cui la fante rispose:
– Messere, io non so; io mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l’era paruta vedere andare; ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta, di che io vivo con grandissimo dolore; ma voi, messere, s’aprestemene dir niente?
A cui lo scolar rispose:
– Così avess’io avuta te con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t’avessi della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì dell’opere tue che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi.- E questo detto, disse al suo fante:
– Dalle cotesti panni e dille che vada per lei, s’ella vuole.
Il fante fece il suo comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l’era, temette forte non l’avessero uccisa, e appena di gridar si ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli verso la torre n’andò correndo.
Aveva per isciagura uno lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne, e andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile pianto che la sventurata donna faceva, per che salito su quanto potè, gridò:
– Chi piagne là su?
La donna conobbe la voce del suo lavoratore, e chiamatol per nome gli disse:
– Deh! vammi per la mia fante, e fa sì che ella possa qua su a me venire.
Il lavoratore, conosciutala, disse:
– Ohimè! madonna: o chi vi portò costà su? La fante vostra v’è tutto dì oggi andata cercando; ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui?
E presi i travicelli della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i bastoni a traverso. E in questo la fante di lei sopravenne, la quale, nella torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme cominciò a gridare:
– Ohimè, donna mia dolce, ove siete voi?
La donna udendola, come più forte potè, disse:
– O sirocchia mia, io son qua su; non piagnere, ma recami tosto i panni miei.
Quando la fante l’udì parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala già presso che racconcia dal lavoratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e vedendo la donna sua, non corpo umano ma più tosto un cepperello innarsicciato parere, tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra ignuda, messesi lunghie nel viso cominciò a piagnere sopra di lei, non altramenti che se morta fosse. Ma la donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse. E avendo da lei saputo che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l’aveano e il lavoratore che al presente v’era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero.
Il lavoratore dopo molte novelle, levatasi la donna in collo, che andar non poteva, salvamente infin fuor della torre la condusse.
La fante cattivella, che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piè, cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a mugghiar che pareva un leone.
Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala con la coscia rotta, similmente nello erbaio la recò, e allato alla donna la pose. La quale veggendo questo a giunta degli altri suoi mali avvenuto, e colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata più che da altrui, dolorosa senza modo ricominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè racconsolare, ma egli altressì cominciò a piagnere.
Ma, essendo già il sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna piacque, n’andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie, e là tornati con una tavola, su v’acconciarono la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d’acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò.
La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise, e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e così fu fatto.
Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli, fatta una sua favola tutta fuor dell’ordine delle cose avvenute, sì di sé e sì della sua fante fece a’suoi fratelli e alle sirocchie e ad ogn’altra persona credere che per indozzamenti di demoni questo loro fosse avvenuto.
I medici furon presti, e non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle più volte appiccata lasciò alle lenzuola, lei d’una fiera febbre e degli altri accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia.
Per la qual cosa la donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d’amare si guardò saviamente. E lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne, se ne passò.
Così adunque alla stolta giovane addivenne delle sue beffe, non altramente con uno scolare credendosi frascheggiare che con un altro avrebbe fatto; non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda.
E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.
-
Torna all’indice del Decamerone testo on-line