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28 Dicembre 2019“Desolazione del povero poeta sentimentale” di Sergio Corazzini, poesia tratta dal Piccolo libro inutile (1906), è una delle opere più rappresentative del Crepuscolarismo, una corrente letteraria italiana di inizio Novecento che rifiutava la retorica magniloquente della poesia precedente, privilegiando invece il tono dimesso, malinconico, e spesso autocommiserativo.
Introduzione
La poesia è una profonda riflessione sul ruolo del poeta e sull’incapacità dell’io lirico di vivere secondo gli ideali poetici tradizionali. Corazzini si distacca dall’immagine del poeta romantico o del vate dannunziano per abbracciare una visione del poeta come “piccolo fanciullo” malinconico e disilluso. La lirica, attraverso un tono dimesso e dolente, esprime la consapevolezza della propria fragilità e dell’inadeguatezza rispetto al mondo e alla vita.
Analisi del testo
I – La negazione del poeta
Il componimento si apre con una domanda che sottolinea la crisi dell’identità poetica: “Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta.” L’io lirico rifiuta categoricamente la definizione di poeta, riconoscendo di essere solo “un piccolo fanciullo che piange”. Corazzini, come molti crepuscolari, abbandona l’immagine gloriosa del poeta che domina la scena culturale, per sostituirla con quella di una figura fragile, incapace di esprimere grandi verità o di ispirare profondi sentimenti. La poesia è ridotta al pianto, a un’espressione di dolore e solitudine: “non ho che le lagrime da offrire al Silenzio”. Il Silenzio diventa quasi una divinità a cui l’io offre la sua sofferenza, rinunciando a ogni pretesa di grandezza.
II – La semplicità delle emozioni
Nel secondo movimento, il poeta sottolinea l’ordinarietà della sua vita interiore: “Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. / Le mie gioie furono semplici”. Corazzini evidenzia che le emozioni del poeta non sono speciali o sublimi, ma sono condivise da tutti, banali e semplici al punto da provocare vergogna. Questo senso di vergogna e fragilità si riflette nella confessione che l’io pensa spesso alla morte: “Oggi io penso a morire”, una frase che viene espressa con rassegnazione e calma, come se il pensiero della morte fosse parte integrante della sua quotidianità.
III – Il desiderio di morte
Il terzo movimento approfondisce il tema della morte. L’io lirico dichiara esplicitamente: “Io voglio morire, solamente, perché sono stanco”, rivelando la sua stanchezza esistenziale. La stanchezza non è causata da un singolo evento traumatico, ma è la conseguenza di una profonda rassegnazione. Gli “angeli” delle cattedrali, simbolo di perfezione e bellezza, suscitano in lui amore e angoscia, ma il poeta si sente simile a “uno specchio melanconico”, rassegnato, incapace di partecipare alla vita con la vitalità che si richiederebbe a un poeta. La volontà di morte diventa una sorta di rifugio, di fuga dall’incapacità di vivere pienamente.
IV – L’inutilità della parola
Nel quarto movimento, il poeta ribadisce l’inutilità delle parole: “Oh, non maravigliarti della mia tristezza!”, quasi chiedendo di non essere giudicato per la sua malinconia. Corazzini è consapevole dell’inutilità del linguaggio, che non può esprimere realmente il suo dolore. Le parole sono “così vane”, e l’unico modo autentico di esprimere la sofferenza sembra essere il pianto. Tuttavia, anche in questo momento di vulnerabilità, l’io lirico non si definisce poeta, ma un “dolce e pensoso fanciullo” che prega senza consapevolezza, quasi per istinto, esprimendo la sua fragilità senza il peso della retorica.
V – Il silenzio e il sacro
Il silenzio diventa un elemento sacro, e il poeta si comunica di esso quotidianamente: “Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù”. Qui emerge un aspetto misticheggiante: il silenzio è per il poeta una sorta di sacrificio spirituale, un modo per entrare in contatto con la divinità. In un paradosso che riflette la sua disperazione, i rumori diventano i sacerdoti di questo silenzio, in quanto è proprio il rumore a far cercare il silenzio e, di conseguenza, il divino.
VI – Il desiderio di abbandono
Nel sesto movimento, Corazzini esprime il desiderio di essere abbandonato e maltrattato, per poi rifugiarsi in un pianto solitario. L’immagine del fanciullo dimenticato suggerisce una visione quasi autolesionista del dolore, come se solo attraverso il dolore fisico e l’umiliazione si potesse raggiungere una forma di purificazione interiore. “Desiderai di essere venduto, / di essere battuto”, afferma, dimostrando una ricerca disperata di redenzione tramite la sofferenza.
VII – L’incomprensione del mondo
Il settimo movimento introduce il tema dell’incomprensione. L’io lirico afferma di amare la vita semplice delle cose, ma le passioni che ha visto sfogliarsi lo hanno allontanato dal mondo. “Tu non mi comprendi e sorridi” sottolinea il senso di isolamento che il poeta avverte rispetto agli altri, che non riescono a cogliere la profondità della sua malinconia, considerandolo malato. Questa incomprensione lo separa dagli altri e alimenta il suo dolore.
VIII – La malattia e la morte
L’ottavo e ultimo movimento rivela che il poeta è davvero malato: “Oh, io sono, veramente malato! / E muoio, un poco, ogni giorno.” La malattia, però, non è solo fisica, ma anche esistenziale. Il poeta sente che sta morendo lentamente, giorno dopo giorno, in modo simile alle cose che si consumano con il tempo. La poesia si chiude con una negazione definitiva della sua identità poetica: “Non sono, dunque, un poeta”. Corazzini riconosce che essere un poeta richiede “viver ben altra vita”, una vita che lui non conosce e che, forse, non desidera nemmeno. L’unica cosa che sa fare è “morire”.
Commento conclusivo
“Desolazione del povero poeta sentimentale” di Sergio Corazzini rappresenta una delle espressioni più profonde e intime del Crepuscolarismo. La poesia rifiuta la figura del poeta ispirato e fiero, tipica della tradizione letteraria, e presenta un’immagine del poeta come fanciullo triste e fragile, incapace di trovare il proprio posto nel mondo e consumato dal desiderio di morte. La poesia è caratterizzata da un tono dimesso e malinconico, e il linguaggio semplice e diretto amplifica il senso di disillusione e stanchezza esistenziale.
Corazzini, con la sua lirica, esprime la crisi dell’identità poetica e dell’esistenza umana in un mondo che sembra aver perso il suo significato. La negazione di essere poeta non è solo una forma di modestia, ma un rifiuto della retorica eroica e del ruolo sociale attribuito alla figura del poeta. Il poeta è, invece, un fanciullo che piange, una creatura fragile che si ritira nel silenzio e nella solitudine.
Ecco il testo della poesia di Corazzini:
I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.