La poesia impegnata di Parini: il disagio di un autorevole moderato
28 Dicembre 2019Il teatro veneziano e la commedia dell’arte
28 Dicembre 2019“Di male in peggio” è un brano tratto dall’opera “Arcadia” di Jacopo Sannazaro, un poeta e umanista napoletano del Rinascimento.
L’Arcadia, pubblicata nel 1504, è una delle opere più influenti della letteratura pastorale italiana, che combina prosa e poesia per narrare una storia ambientata in un mondo idealizzato di pastori e ninfe, ispirato all’idea classica dell’Arcadia come luogo di pace, semplicità e armonia con la natura. L’opera mescola temi bucolici con riflessioni sulla nostalgia, la perdita e l’inquietudine esistenziale.
Nel passaggio proposto, viene presentato un dialogo tra due pastori, Serrano e Opico, in cui vengono espressi temi centrali alla pastorale rinascimentale, come il confronto tra il passato ideale e un presente decadente. Opico, come spesso avviene nei dialoghi pastorali, rappresenta il vecchio saggio che rimpiange il passato, mentre Serrano esprime una malinconia per i tempi correnti.
Tematiche principali
- Lode del passato e critica del presente: Uno dei temi principali del passaggio è il confronto tra un passato ideale e un presente corrotto. Questo è un topos classico della poesia pastorale, dove si idealizzano i tempi antichi come periodi di pace, giustizia e abbondanza, contrapposti alla corruzione, all’avidità e all’ingiustizia del presente. Opico e Serrano si lamentano di come i valori antichi siano stati sostituiti dalla perfidia e dall’invidia. Serrano osserva con rammarico che “nel mondo oggi gli amici non si trovano”, e il tradimento e l’avidità sono diventati la norma.
- L’invidia e la corruzione sociale: L’invidia è descritta come uno dei mali principali che affliggono il mondo moderno. Nella lamentazione di Serrano, si nota come l’invidia distrugga i rapporti sociali, e persino i legami familiari (“Tal che il figliuolo al padre par che insidie”). Opico risponde con saggezza, affermando che l’invidia “si dilegua come agnel per fascino”, suggerendo che, anche se presente, l’invidia non ha una vera consistenza e finisce per consumare se stessa.
- Il mito del “buon tempo antico”: Opico, da anziano pastore, ricorda i tempi in cui il mondo era governato dalla giustizia, dalla pace e dall’abbondanza. Il mito del “buon tempo antico” è un concetto che idealizza un’età dell’oro, una fase dell’esistenza umana in cui tutto era più semplice e genuino. In questa epoca, non c’erano confini tra i campi (“I campi eran comuni, e senza termini”), non esisteva il ferro (strumento di guerra e distruzione), e gli uomini vivevano in pace. La natura stessa era più benevola, fornendo solo erbe salutari e frutti abbondanti.
- Il ciclo del tempo e il decadimento: Un altro tema importante è quello del decadimento progressivo del mondo. Man mano che il tempo avanza, il mondo peggiora sempre di più, passando “di male in peggio”. Questa visione ciclica del tempo, con un inizio glorioso che si degrada inesorabilmente verso un presente corrotto, è tipica della visione pastorale rinascimentale e riflette una nostalgia per un’epoca ideale.
- Magia e superstizioni: Nella descrizione del mondo corrotto, viene introdotto anche il tema della magia e delle superstizioni, con riferimenti a ladri che usano incantesimi per diventare invisibili e che praticano arti magiche per compiere furti senza essere scoperti. Questo riferimento alla magia popolare sottolinea il degrado della società e l’erosione della fiducia reciproca tra gli uomini.
Stile e struttura
L’Arcadia di Sannazaro è un’opera che mescola prosa e poesia, utilizzando entrambi i generi per raccontare la storia e dare voce ai personaggi. In questo passaggio, la parte in prosa introduce il contesto e i personaggi, mentre il dialogo tra Serrano e Opico si svolge in versi, seguendo la tradizione pastorale dell’ecloga, un dialogo poetico tra pastori.
La prosa di Sannazaro è ricca di descrizioni naturalistiche e dettagli vividi che evocano il mondo bucolico in cui si svolge l’azione. La poesia, d’altro canto, è caratterizzata da un linguaggio elegante e lirico, tipico della tradizione umanistica, che cerca di esprimere sentimenti di malinconia, rimpianto e saggezza.
Conclusione
Il passaggio tratto dalla Prosa Sesta e dalla Sesta Egloga dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro mette in luce i temi fondamentali della poesia pastorale: il contrasto tra un passato ideale e un presente corrotto, il rimpianto per la perdita di valori e la progressiva degenerazione della società umana. La bellezza del testo risiede nella sua capacità di combinare riflessioni morali con una narrazione poetica, immersa in un paesaggio naturale idealizzato.
Di male in peggio dall’Arcadia di Jacopo Sannazaro
Testo originale di Sannazzaro
ARGOMENTO.
Giunto Carino fra la lieta brigata do pastori, è invitato Opico vecchio a cantare: il quale, secondo l’ uso de vecchi lodando il passato, e biasimando l’avvenire, canta con Serrano.
PROSA SESTA.
Mentre Ergasto cantò la pietosa canzone, Fronimo sovra tutti i pastori ingegnosissimo la scrisse in una verde corteccia di faggio; e quella di molte ghirlande investita appiccò ad un albero, che sovra la bianca sepoltura stendeva i rami suoi. Per la qual cosa essendo l’ora del desinare quasi passata, n’andammo presso d ’lina chiara fontana, che da piè d’un altissimo pino si movea, e quivi ordinatamente cominciammo a mangiare le carni de’ sacrificati vitelli, e latte iu più maniere, e castagne mollissime, e di quei frutti, che la stagione concedeva; non però senza vini generosissimi, e per molta vecchiezza odoriferi, ed apportatori di letizia nei mesti cuori: ma poi che con l’abbondevole diversità de’ ibi avemmo sedata la fame, chi si diede a cantare, chi a narrare favole, alcuni a giuocare, molti sopravvinti dal sonno si addormirono. Finalmente io ( al quale e per 1* allontananza della cara patria, e per altri giusti accidenti, ogni allegrezza era cagione d’infinito dolore) mi era gittato a piè d’un albero, doloroso e scontentissimo oltra modo, quando vidi discosto da noi forse ad un tratto di pietra venire con frettolosi passi un pastore nell’aspetto giovanissimo, avvolto in un manfano di quel colore, che sogliono essere le grue: al sinistro Iato del quale pendea una bella tasca d’un picciolo cuojo di abortivo vitello, e sopra le lunghe chiome, le quali più che ’l giallo della rosa biondissime dopo le spalle gli ricadevano, aveva uno irsuto cappello, fatto, siccome poi mi avvidi, di pelle di lupo, e nella destra mano un bellissimo bastone con la punta guarnita di novo rame; ma di che legno egli era comprendere non potei; conciossiacosachè se di corniolo stato fosse, ai nodi eguali l’avrei potuto conoscere; se di frassino, o di bosso, il colore me lo avrebbe manifestato: ed egli veniva tale, che veracissimamente pareva il Trojano Paris, quando nelle alte selve tra semplici armenti in quella prima rusticità dimorava con la sua ninfa, coronando sovente i vincitori montoni. Il quale, poi che iu brieve spazio presso a me, ove alcuni giuncavano al bersaglio, fu giunto, domandò a quei bifolchi, se una sua vacca di pel bianco con la fronte nera veduta avessero, Ja quale altre volte fuggendo era avvezzata di mescolarsi fra li loro tori. A cui piacevolmente fu risposto, che non gli fosse noja tanto indugiarsi con esso noi, che ’i meridiano caldo sopravvenisse; conciossiacosachè in su quell’otta avean per costume gli armenti di venirsene tutti a ruminare le mattutine erbe all’ombra de’ freschi alberi: e questo non bastando, vi mandarono un loro famigliare, il quale, perocchèpeloso molto, e rusticissimo uomo era, Ursacchio per tutta Arcadia era chiamato, che costui la dovesse in quel mezzo andare per ogui luogo cercando, e quella trovata conclucere ove noi eravamo. Allora Carino, che così avea nome collii, che Ja bianca vacca smarrita avea, si pose a sedere sovra un tronco di faggio, che dirimpetto ne slava: e dopo molti ragionamenti al nostro Opico volutosi, il pregò amichevolmente, che dovesse cantare; il quale così mezzo sorridendo rispose: Figliuol mio, tutte le terrene cose, e l’animo incora, quantunque ceJeste sia, ne portano seco gli anni, e la divoratrice età. E mi ricorda molte volte, fanciullo, da che il sole usciva insino che si coricava, cantare senza punto stancarmi mai; ed ora mi sono usciti di mente tanti versi; anzi peggio, che la voce tuttavia mi vieu mancando, perocchèi lupi prima mi videro, ch’io di loro accorto mi fossi: ma posto che i lupi di quella privato non mi avessero, il capo canuto, e ’J raffreddato sangue non comanda ch’io adopri ciò, che a’ giovani si appartiene: e già gran tempo è, che la mia sampogna pende al silvestre Fauno. iNientediiueuo qui sono molti, che saprebJjono rispondere a qualunque pastore più di cantare si vanta; li quali potranno appieno iu ciò, chea me domandate, soddisfarvi. Ma come che degli altri mi taccia, li quali son tutti nobilissimi, e di grande sapere; qui è il nostro Serrano, che veramente, se Titiro, o Melibeo lo udissero, non potrebbono sommamente non commendarlo il quale e per vostro, ed anco per nostro amore, se grave al presente non gli lìa, canterà, e daranne piacere. Allora Serrano rendendo ad Opico le debite grazie, gli rispose: Quantunque il più infimo, e ’l meno eloquente di tutta questa schiera meritamente dir mi possa; nondimeno per non usare officio di uomo inarato a chi, perdonimi egli, cantra ogni dovere di tanto onore mi reputò degno, io mi sforzerò, in quanto per me si potrà, di obbedirlo. E perchè la vacca da Carino smarrita mi fa ora rimembrare di cosa, che poco mi aggrada; di quella intendo cantare: e voi, Opico, per vostra umanità, lasciando la vecchiezza e Je scuse da parte, Je quali al mìo parere son più soverclìie, che necessarie, mi risponderete; e cominciò.
ANNOTAZIONI alla Prosa Sesta.
IL Trojano Paris ec. Paride, figliuolo di Priamo e di Ecuba, avanti di rapir Elena, e d’essere perciò cagione della guerra, che i Greci fecero a Troja, fu pastore sul monte Ida, ove s* innamorò di Enone, dalla quale ebbe due figliuoli, Dafni, ed Ideo, ed ove essendo giustissimo nello sciogliere le cortroversie, s’ acquistò sì grande fama di giustizia, che Giuri ie, P.illade e Venere lo scelsero per giudice della quistione chi tra loro fosse la più bella. Perocchèi Upi prima mi videro ec. Questo è detto secondo la volgare antichissima opinione che quello a cui manchi la voce, o abbia veduto il lupo, o sia stato veduto dal lupo. Virgilio così nell’Egl. jx.
Omnia fert aetas, animuni quoque, òat’pc ego lougos Cantando puerum memini me condere soles: A une oblila mi hi tot carmina: vox quoque Moerim Jam fugit ipsa: lupi Moerim vidcre priores.
Da tale falsa opinione nacque il proverbio, lupus in fabula s quando sopraggiungendo una persona, della quale parliamo,
ci toglie la facoltà di continuare il nostro discorso.
EGLOGA SESTA.
SERRANO ED OPICO.
Serrano.
Quantunque, Opico mio, sii vecchio e carico
Di senno e di pensier che ’n te si covano,
Deh piangi or meco, e prendi il mio rammarico.
t^el mondo oggi gli amici non si trovano:
La fede è morta, e regnano le ’nvidie;
E i mai costumi ognor più si rinnovano.
Reguan le voglie prave e le perfidie
Per la roba mal nata che gli stimula,
Tal che 1 figliuolo al padre par che insidie.
Tal ride del mio ben, che ’l riso simula;
Tal piange del mio ma!, che poi mi lacera
Dietro le spalle con acuta limula.
Opico.
L’invidia, figli noi mio, se stessa macera,
E si dilegua come agnel per fasciuo,
Che non gli giova ombra di pino o d’acera.
Serrano.
II pur dirò, così gli Dii mi lascino
Veder vendetta di chi tanto affondami,
Prima che i mietitor le biade affascino:
E per l’ira sfogar ch’al core abbondami,
Così ’l veggia cader d’un olmo, e frangasi,
Tal ch’io di gioja e di pietà confondami.
-Tu sai la via che per le piogge affangasi:
Ivi s’ascose, quando a casa andavamo,
Quel che tal viva, che lui stesso piangasi.
Nessun vi riguardò perchè cantavamo;
Ma innanzi cena venne un pastor subito
Al nostro albergo quando al foco stavamo,
E disse a me: Serrati, vedi ch’io dubito,
Che tue capre siati tutte; ond’io percorrere
Ne caddi si, ch’ancor mi dole il cubito.
Deh se qui fosse alcuno a cui ricorrere
Per giustizia potessi! or che giustizia?
Sol Dio sei veda che ne può soccorrere.
Due capre e duo capretti per malizia
Quel ladro traditor dal gregge tolsemi;
Sì signoreggia al mondo l’avarizia.
Io gliel direi; ma chi mel disse volsemi
Legar per giuramento; ond’esser mutolo
Convienimi: e pensa tu, se questo duolsemi.
Del furto si vantò poi ch’ebbe avutolo;
Che sputando tre volle fu invisibile
Agli occhi nostri; ond’io saggio riputolo.
Che se ’l vedea, di certo era impossibile
Uscir vivo da’cani irati e calidi,
Ove non vai che l’uom richiami o sibile.
Erbe e pietre mostrose e sughi pai idi,
Ossa di morti, e di sepolcri polvere,
Magici versi assai possenti e validi
Portava indosso, che ’l facean risolvere
In vento in acqua in picciol rubo o felice;
Tanto si può per arte il mondo involvere.
Opico.
Quest’ è Proteo, che di cipresso iu elice,
E di serpente in tigre trasformavasi,
E feasi or bove or capra or fiume or selice.
Serrano.
Or vedi, Opico mio, se ’l mondo aggravasi
Di male iu peggio; e deiti pur compiangere
Pensando al tempo buon che ognor depravasi.
Opico.
Quand’io appena incominciava a tangere
Da terra i primi rami, ed addeslravami
Con l’asinel portando il grano a frangere;
Il vecchio padre mio che tanto amavami,
Sovente all’ombra degli opachi suberi
Con amiche parole a se chiamavami:
E, come fassi a quei che sono impuberi,
Il gregge m’ insegnava di conducere,
E di tosar le lane, e munger gli uberi.
Tal volta nel parlar soleva inducere
I tempi antichi, quando i buoi parlavano,
Che ’\ del più grazie allor solea producere.
Allor i sommi Dii non si sdegnavano
Menar le pecorelle in selva a pascere;
E, com’or noi facemo, essi cantavano.
Non si potea F un uom ver F altro irascere:
1 campi erau comuni, e senza termini;
E Copia i frutti suoi sempre fea nascere.
Non era ferro, il qual par ch’oggi termini
L’ umana vita; e non eran zizzanie,
Ond’avvien ch’ogni guerra e mal si germini.
3Non si vedean queste rabbiose insanie;
Le genti litigar non si sentivano,
Per che convien che ’l mondo or si dilanie.
I vecchi quando al (in più non uscivano
Per boschi, o si prendean la morte intrepidi,
O con erbe incantate ingiovanivano.
Non foschi o freddi, ma lucenti e tepidi
Erano i giorni; e non s’udivan ulule,
Ma vaghi uccelli dilettosi e lepidi.
La terra che dal fondo par che pulule
Atri aconiti, e piante aspre e mortifere,
Ond’oggi avvien che ciascun pianga ed ulule;
Era allor piena d’erbe salutifere,
E di balsamo e’ncenso lacrimevole,
Di mirre preziose ed odorifere.
Ciascun mangiava all’ombra dilettevole
Or lai te e ghiande, ed or ginepri e morole.
O dolce tempo, o vita sollazzevole !
Pensando all’opre lor, non solo onorole
Con le parole; ancor con la memoria
Chinalo a terra come sante adorole.
Ov’è il valore, ov’è l’antica gloria?
U*son or quelle genti? oimè s«n cenere,
Delle quai grida ogni famosa istoria.
I lieti amanti, e le fanciulle tenere
Givan di prato in prato rammentandosi
Il foco e l’arco del ligiinoi di Venere.
Non era gelosia, ma sollazzandosi
Movean i dolci balli a suon di cetera,
E n guisa di colombi ognor baciandosi.
O pura fede, o dolce usanza velerà !
Or conosco ben io che ’l mondo instabile
Tanto peggiora più, quanto più invetera.
Tal che ogni volta, o dolce amico affabile,
Ch’io vi ripenso, sento il cor dividere
Di piaga avvelenata ed incurabile.
Serrano.
Deh, per Dio, non mel dir, deh non mi uccidere:
Che s’io mostrassi quel ch’ho dentro l’anima,
Farei con le sue selve i monti stridere.
Tacer vorrei; ma il eran dolor m’inanima
Ch’ io tei pur dica: or sai tu quel Lacimo?
Oimè, eira nominarlo il cor si esanima.
Quel che la notte veglia, e ’l gallicinio
Gli è primo sonno, e tutti Cacco il chiamano,
Perocchè vive sol di latrocinio.
Opico.
Oh oh, quel Cacco ! o quanti Cacchi bramano
Per questo bosco! ancor che i sag^i dicano,
Che per un falso mille buon s’ infamano.
Serrano.
Quanti nell’altrui sangue si nutricano !
l’I so, che ’l pruovo,e col mio danno intendolo,
Tal che i miei cani indarno s’affaticano.
Opico.
Ed io per quel che veggio ancor comprendono,
Che son pur vecchio, ed ho curvati gli omeri
In comprar senno, e pur ancor non vendolo.
O quanti intorno a queste selve nomeri
Pastori in vista buon, che tutti furano
Rastri zappe sampogne aratri e vomeri!
D’oltraggio o di vergogna oggi non curano
Questi compagni ilei rapace gracculo:
In sì malvagia vita i cuori indurano,
Pur ch’ abbiali le man piene all’altrui sacculo.
ANNOTAZIONI all’Egloga Sesta.
L’invidia, fìgliuol mio, se stessa macera. Periandro diceva; Come la ruggine rode il ferro, così V invidia consuma L’ anima di colui, nel quale ella si trova. Onde Orazio nell’Ep. 2 del Lib, l.
Invidus alierius rebus macrescit opimis;
Invidia Siculi non invenere tyranni
Majus tormentum.
Tutta quest’Egloga, dova si descrive l’innocenza de’ tempi antichi, e la malizia che a quella è subentrata, è veramente bella. Sputando tre volte fu invisibile ec. Fra i moltissimi effetti, ia parte veri, e in parte filisi che Io sputo produce, e che P.tnio riferisce nel Cap 4 del Lib. xxvm. nella òt. ^at., non trovo accennato questo di rendere invisibile alcuno; ma certamente il Sanazzaio avrà ciò detto, dietro qualche superstiziosa opinione o popolare, o tratta da que’ tanti libri di sortilegi, che un tempo erano con grandissima avidità ricercati. Dal die ben si capisce, che la parola saggio qui usata equivale a mago, stregone, e simili, Erbe e pietre mostrose ec. Chi amasse vedere quanto ne’ tempi andati si credesse ali’ attività di questi? cose, legga il libro Magie naturelle et cabalistique du Petit Albert, ove troverà abbondanti segreti di farsi amare, di rendersi invisibile, di cambiar i metalli men nobili ne’ più nobili ec.ec. Sembra che tali fattucchierie siano state credute più a lungo in Francia ed in Germania, che in Italia. Di fatto quando i nostri Poeti non ebbero duopo di magie, o pel meraviglioso de’ loro poemi, o per particolazzare il carattere di genti rozze, come qui fa il Sanazzaro, ben volentieri se ue rideauo. Serva di prova la seguente Stanza del Navagero:
Udito ho dir che gran virtù, si trova
Nelle parole, nell’erbe e ne’ sassi.
Provato ho le parole, e non. mi giova,
Perduto ho le parole, il tempo, e i passi.
Deliberato io son di far la prova
D’ un’ insalata quando tu ci passi:
Se non. mi gioverà quest’ insalata,
Io giuro a Dio di darti una sassata.
Quest’è Proteo, cioè questi è simile a Proteo che ec. Proteo, Dio marino, che si cangiava in varie forme, e che da vertendo fu detto anche Vertunno. Egli fu creduto indovino; ma chi voleva sapere da lui le future cose, era mestieri cha lo legasse, perchè non isfuggisse. Quindi Ovidio nel Lìb. r. de’ asti:
Decipiat ne te versis tamen ille Jìguris,
Impediant geminas vincula firma manus.
Copia, Dea dell’uberlà e dell’abbondanza, che si suolo dipingere con un corno, di cui escano fuori frutti d’ogtii genere che la terra produce. Orazio nell’Od. xvn. del Lib. i.
Hinc Cibi copia
Manabit ad plenum benigno
Ruris honorum opulenta cornu.
Aconiti, plurale di aconito. Questa voce significa in ispezie quell’erba velenosa che oggi è detta elleboro nero; ma significa anche in genere qualunque erba velenosa. Secondo le favole chi disse che l’aconito divenne velenosa perchè fu tocca dalla nera spuma del Cerbero strascinato fuori dell’inferno da Ercole quando v’ andò per liberare Alceste, chi la imaginò velenosa fin Ha principio, essendo nata dal sangue di Prometeo legato sul monte Caucaso. E in guisa di colombi ognor baciandosi. Non posso rattenermi dal riferire alcuni versi dell’Epigr. a Nina dello stesso Sanazzaro, in cui con Catulliana dilicatezza fa pur menzione del baciarsi delle colombe:
Nolo mormora muta, nolo piclos
JJearum, Nina, basiare vultus:
Sed lolam cupio tenere linguam,
Jnsertum liumitlulis meis labellis;
Hanc et sugere; morsiunculasque
Molles adjicere; et columbulorum
Jn morem, teneros inire lusus,
Ac blandum simul excitare murmur.
E tutti Cacco il chiamano. Lacinio è qui chiamato Cacco, perchè si vuol dire dal pastor Serrano, che colui si vivea di ladronecci, non meno che il mostro Cacco, che colle sue ruberie infestò tutta la campagna di Roma, e venne da ultimo ucciso per mano d’Ercole.