Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Don Candeloro e C.” (1894)
Novelle di Giovanni Verga
Don Candeloro era proprio artista nel suo genere: figlio di burattinai, nipote di burattinai – ché bisogna nascerci con quel bernoccolo – il suo pane, il suo amore, la sua gloria erano i burattini. – Non son chi sono se non arrivo a farli parlare! – diceva in certi momenti di vanagloria come ne abbiamo tutti, allorché gli applausi del pubblico gli andavano alla testa, e gli pareva di essere un dio, fra le nuvole del palcoscenico, reggendo i fili dei suoi «personaggi».
Per essi non guardava a spesa. Li perfezionava, li vestiva sfarzosamente, aveva ideato delle teste che movevano occhi e bocca, studiava sugli autori la voce che avrebbe dovuto avere ciascuno di essi, Almansore o Astiladoro. Quando declamava pei suoi burattini, nelle scene culminanti, si scaldava così, che dopo rimaneva sfinito, asciugandosi il viso, nel raccogliere i mirallegro dei suoi ammiratori sfegatati, come un attore naturale.
Di ammiratori ne aveva da per tutto, alla Marina, alla Pescheria, certuni che si toglievano il pan di bocca per andare a sentire da lui la Storia di Rinaldo o Il Guerin Meschino, e se l’additavano poi, incontrandolo per la strada, colla canna d’India sull’omero e la sua bella andatura maestosa, che sembrava Orlando addirittura. Era un gran regalo quando egli rispondeva al saluto toccando con due dita la tesa del cappello. Se nasceva una lite in teatro, e venivano fuori i coltelli, bastava che don Candeloro si mostrasse fra le quinte, e dicesse: – Ehi ragazzi!… – con quella bella voce grassa.
Giacché s’era fatta anche la voce, come il gesto e la parlata, sul fare dei suoi «personaggi» e pareva di sentire un Reale di Francia anche se chiamava il lustrastivali dal terrazzino.
Con queste doti innamorò la figliuola di un oste che teneva bottega lì accanto. La ragazza era bruttina, ma aveva una bella voce, e doveva avere anche un bel gruzzolo. – La voce è tutto! – le diceva don Candeloro sgranandole gli occhi addosso, e accarezzandosi il pizzo. – Grazia! Che bel nome avete pure! – Andava spesso a far colazione all’osteria per amore della Grazia, e le confidò che pensava d’accasarsi, dacché aveva voltato le spalle alla vecchia baracca del padre, e messo su di nuovo teatro che rubava gli avventori al SAN CARLINO, e al TEATRO DI MARIONETTE. Si mangiavano fra di loro come lupi, padre e figlio, e i suoi colleghi erano giunti ad ordirgli la cabala, e fargli fischiare la Storia di Buovo d’Antona. – Spenderò i tesori di Creso! – aveva fatto voto quel dì don Candeloro battendo il pugno sulla tavola. – Ma non son chi sono se non li riduco a chiuder bottega tutti quanti! –
Lui con dei contanti avrebbe fatto cose da sbalordire. Insino il balletto e la pantomima avrebbe portato sul suo teatro; tutto colle marionette. – Ci aveva qualcosa lì! – e si picchiava la fronte dinanzi alla Grazia, fissandole gli occhi addosso come volesse mangiarsela, lei e la sua dote. Si scervellò un mese intero, col capo fra le mani, a cercare un bel titolo pel suo teatrino, qualcosa che pigliasse la gente per gli occhi e pei capelli, lì, nel cartellone dipinto e coi lumi dietro. – Le Marionette parlanti! – Sì, com’è vero ch’io mi appello Candeloro Bracone! parlanti e viventi meglio di voi e di me! Non deve passare un cane che abbia un soldo in tasca dinanzi al mio teatro, senza che dica: «Spendiamo l’osso del collo per andare a vedere cosa sa fare don Candeloro!» –
L’oste veramente non si sarebbe lasciato prendere a quelle spampanate, perché sapeva che gli avventori seri preferiscono andare a bere il buon vino nel solito cantuccio oscuro; e del resto, lui voleva un genero con una professione da cristiano, come la sua, a mo’ d’esempio, e non un commediante con la zazzera inanellata, che parlava come un libro e gli incuteva soggezione.
– Quello è un tizio che ci farebbe muovere a suo piacere come i burattini, te e me! – disse alla figliuola. – Bada ai fatti tuoi: le buone parole, qualche risatina anche, con gli avventori. E poi orecchie di mercante. Hai inteso? –
Ma il tradimento gli venne da un finestrino che dava sul palcoscenico, al quale la ragazza correva spesso di nascosto a mettere un occhio, e dove si scaldava il capo con tutte quelle storie di paladini e di principesse innamorate. Don Candeloro, dacché s’era dichiarato con lei, lasciava socchiusa apposta l’impannata, e le sfuriate di amore, Rinaldo e gli altri personaggi, le rivolgevano lassù; tanto che la ragazza ne andava in solluchero, e aveva a schifo poi di lavare i piatti e imbrattarsi le mani in cucina.
«Non pur me, ma infiniti signori questo amore ha fatto suoi vassalli, principessa adorata!…»
– Tu non me la dài a intendere! – brontolava l’oste colla figliuola. – Che diavolo hai in testa? Mi sbagli il conto del vino… Gli avventori si lamentano… Questa storia non può durare -.
La catastrofe avvenne alla gran scena in cui la bella Antinisca ritorna alla città di Presopoli, e Guerino «quando la vidde» dice la storia «s’accese molto più del suo amore». Smaniava per la scena, sbalestrando le gambe di qua e di là, alzando tratto tratto le braccia al cielo, squassando il capo quasi colto dal mal nervoso. Diceva, con la bella voce cantante di don Candeloro:
«O Dio, dammi grazia ch’io mi possa difendere da questa fragil carne, tanto ch’io trovi il padre mio, e la mia generazione».
E la bella Antinisca, dimenandosi anch’essa, e lagrimando (si capiva dalle mani che le sbattevano al viso):
«O Signor mio, io speravo sotto la vostra spada di esser sicura del Regno che voi mi avete renduto, per questa cagione vi giuro per li Dei che come saprò, che voi siete partito, con le mie proprie mani mi ucciderò per vostro amore, e se mi promettete, che finito il vostro viaggio ritornerete a me, io vi prometto aspettarvi dieci anni senza prender marito».
«Non per Dio, sarete vecchia» disse il Meschino. «Questo non curo, pur che voi giuriate di tornare a me, di non pigliare altra donna». (Veramente la bella Antinisca aveva una voce di grilletto che faceva ridere gli spettatori, giacché don Candeloro per le parti di donna aveva dovuto scritturare a giornata un ragazzetto che cominciava adesso a farsi grandicello, e per giunta recitava come un pappagallo, talché alle volte il principale, sdegnato, gli assestava delle pedate, dietro la scena). Allora la bella Antinisca cadde d’un salto fra le braccia del Guerino, piegata in due dalla tenerezza, e Grazia, arrampicata al finestrino, si sentì balzare così il cuore nel petto, che le sembrava proprio di essere nei panni dei due felici amanti, allorché il Meschino, in presenza di Paruidas, Armigrano e Moretto, giurò per tutti i sagramenti di farla sua donna e legittima sposa.
– Quando saremo marito e moglie, le parti di donna le farai tu! – le aveva detto don Candeloro. E la ragazza, ambiziosa, si sentiva gonfiare il petto dalla gioia, a quelle scene commoventi che facevano drizzare i capelli in capo ad ognuno, e si vedevano degli uomini con tanto di barba piangere come bambini, fra gli applausi che parevano subissare il teatro. – Sì! sì! – disse Grazia in cuor suo.
Il babbo invece disse di no. C’erano continuamente delle scene fra padre e figlia; quello ripetendo che la storia non poteva durare, e minacciando la ragazza di tornare a maritarsi, e metterle sul collo la matrigna. Lei dura nel proposito: o don Candeloro, o la morte! Quando don Candeloro andò a far domanda formale, vestito di tutto punto, l’oste rispose:
– Tanto onore e piacere. Ma ciascuno sa i fatti di casa sua. Sono vedovo, non ho altri figliuoli, e mi abbisogna un genero che mi aiuti…
– Allora vuol dire che non son degno di tanto onore! – balbettò don Candeloro facendosi rosso, e piantandosi di tre quarti, colla canna d’India appoggiata all’anca.
– Nossignore, l’onore è mio.
– L’onore è vostro, ma vostra figlia non me la date…
– Nossignore. Come volete sentirla?
– Va bene. Umilissimo servo! – conchiuse don Candeloro calcandosi con due dita la tuba sull’orecchio, e se ne andò mortificatissimo.
– Senti – disse poi alla Grazia dal finestrino. – Tuo padre è un ignorante che non capisce nulla. Bisogna prendere una risoluzione eroica, hai capito? –
La ragazza esitava a prendere la risoluzione eroica di infilare l’uscio e venirsene a stare con lui, per costringere poi il babbo ad acconsentire al matrimonio. Ma don Candeloro aveva il miele sulle labbra, e sapeva trovare delle ragioni alle quali non si poteva resistere. Le diceva di fare nascostamente il suo fagotto… con giudizio, s’intende… – C’era anche la sua parte nei denari del padre, – e venirsene dove la chiamavano i cieli. – Non hai giurato per gli Dei di essere mia donna e legittima sposa? –
Il vecchio però era un furbo matricolato, il quale cantava sempre miseria, e nascondeva i suoi bezzi chissà dove. Grazia non portò altro che quattro cenci in un fazzoletto, e quelle poche lire spicciole che aveva potuto arraffare al banco. – Come? – balbettò don Candeloro che si sentiva gelare il sangue nelle vene. – In tanto tempo che ci stai, non hai saputo far di meglio?… –
Questo era indizio che non sarebbe stata buona a nulla, neppure per lui; e le questioni cominciarono dal primo giorno. Basta, era un gentiluomo, e la promessa di Candeloro Bracone era parola di Re. Il bello poi fu che lo stesso giorno in cui andarono all’altare, lui e la sposa, il suocero volle fargli la burletta di andarci lui pure, insieme a una bella donnona colla quale aveva combinato il pateracchio lì per lì. – Senza donne non possiamo stare né io né il mio negozio, cari miei, – gli piaceva ripetere, con quel sorrisetto che mostrava le gengive più dure dei denti, e faceva venire la mosca al naso. – State allegri e che il Signore vi prosperi e vi dia molti figliuoli. Alla mia morte poi avrete quel che vi tocca -.
I figliuoli vennero infatti a tutti e due, genero e suocero, uno dopo l’altro. Ma l’oste prometteva di metterne al mondo quanto il Gran Sultano, e di campare gli anni del Mago Merlino. Ogni volta che gli partoriva la moglie o la figliuola, invitava tutto il parentado a fare una bella mangiata.
Crescevano i figliuoli, e i pesi del matrimonio; ma viceversa poi diminuivano gli introiti e il favore popolare. Quella gran bestia del pubblico s’era lasciato prendere a certe novità che avevano portato Bracone il vecchio e il proprietario del SAN CARLINO. Adesso nei teatrini di marionette recitavano dei personaggi in carne ed ossa, la Storia di Garibaldi, figuriamoci, ed anche delle farsacce con Pulcinella; e vi cantavano delle donne mezzo nude che facevano del palcoscenico un letamaio. La gente correva a vedere le gambe e le altre porcherie, tale e quale come le bestie, che don Candeloro ne arrossiva pel mestiere, e preferiva piuttosto fare il saltimbanco o il lustrascarpe, prima di scendere a quelle bassezze. Per non recitare alle panche era arrivato a far entrare in teatro gratis dei vecchi avventori, fedeli alle belle Storie d’Orlando e dei Paladini antichi, coi quali almeno si sfogava dicendo vituperi dei suoi colleghi:
– Perché non mettere le persiane verdi alle porte, come certi stabilimenti?… Sarebbe più pulito. Dovrebbe immischiarsene la Questura, per Satanasso! –
Però l’ignoranza e l’ingratitudine del pubblico gli facevano cascare le braccia. Non valeva proprio la pena di sudare coi libri, e spendere dei tesori per dare roba buona a degli asini. – Volete lavare la testa all’asino? – Gli stessi burattini recitavano svogliatamente, vestiti come Dio vuole. – Ci si perdeva l’amore dell’arte e d’ogni cosa, parola di gentiluomo! – Dov’erano andati i bei tempi in cui si facevano due rappresentazioni al giorno, la domenica e le feste, e la gente assediava la porta, quend’era annunziato sul cartellone un «personaggio» nuovo? Don Candeloro, colla barba di otto giorni e la zazzera arruffata, passava le giornate intere nella bettola del suocero, a dir corna dei suoi colleghi, o a litigare colla moglie, ora che in casa pareva l’inferno. Grazia, adesso che aveva visto cosa c’era dietro le belle scene impiastricciate, stava con tanto di muso a rammendar cenci anche lei, a stemperar colori, e rompersi braccia e schiena, vociando come un pappagallo per le Artemisie e le Rosalinde, dall’avemaria a due ore di notte; che specie quando il Signore le mandava dei figliuoli (e succedeva una volta all’anno) era proprio un gastigo di Dio.
– Tu non sai far altro, per Maometto! – le rinfacciava il marito furibondo.
L’oste dava soltanto buoni consigli: – Non vedete che gli avventori corrono al vino nuovo? Cambiate il vino -. Ma don Candeloro non si piegava. Piuttosto avrebbe tolto su baracca e burattini, e sarebbe andato pel mondo a far conoscere chi era Candeloro Bracone, giacché i suoi concittadini non sapevano apprezzarlo. La piazza «non faceva più» per lui! Se c’era ancora un po’ di buon senso e di buon gusto dovevasi andare a cercarlo in provincia, dove non erano ancora penetrate quelle sudicerie. Finalmente spiantò davvero il teatro, mise ogni cosa su di un carro, e via di notte, per non dar gusto ai nemici. L’oste prese lui a pigione il magazzino per metterci delle botti, e allargare il negozio, ora che la figliuolanza era cresciuta.
– Te l’avevo detto, – disse alla Grazia. – Quello non è mestiere da cristiani. Se fossi rimasta a vendere del vino. non saresti ridotta adesso a far la zingara. Ben ti stia! –
Don Candeloro viaggiò per valli e per monti, come i cavalieri antichi, con tutto il suo teatro ammucchiato in un carro, e la moglie e i figliuoli sopra. Il guaio era che non si trovava con chi combattere. Quei contadinacci ignoranti ed avari, sfogata la prima curiosità, voltavano le spalle alle «marionette parlanti» o s’arrampicavano sul tetto del teatrino per godersi la rappresentazione gratis. Arrivando in un villaggio, don Candeloro scaricava la roba sulla piazza, pigliava in affitto una bottega, un magazzino, una stalla, quel che trovava, e si mettevano a inchiodare e incollare tutti quant’erano. Le stagioni duravano otto, quindici giorni, un mese, al più. Dopo, si tornava da capo a correre il mondo, e in quel va e vieni la roba andava in malora; si mangiavano ogni cosa le spese d’affitto e di viaggio, con dei carrettieri ladri ch’erano peggio dei saracini, e non usavano riguardi neanche a Cristo. Don Candeloro, avvezzo ad essere rispettato come un Dio da simile gentaglia, voleva farsi ragione colle sue mani, in principio, sinché si buscò una grandinata di calci e pugni.
E ci dovette arrivare anche lui, Candeloro Bracone, a fare il pagliaccio se volle aver gente nel suo teatro, e a rappresentare le pantomime nelle quali pigliavasi le pedate nel didietro dal minore dei suoi ragazzi per far ridere «la platea». Quando vide che il pubblico non ne mangiava più in nessuna salsa delle «marionette parlanti», e ci voleva dell’altro per cavar soldi da quei bruti, ebbe un’idea luminosa che avrebbe dovuto fare la fortuna di un artista, se la fortuna baldracca non ce l’avesse avuta a morte con lui… – Ah, vogliono i personaggi veri?…-
Un bel giorno si vide annunziare sul cartellone che la parte di Orlando, nei Reali di Francia, l’avrebbe sostenuta don Candeloro in persona «fatica sua particolare!» E comparve davvero sul palcoscenico, lui e tutta la sua famiglia, in costume, e armato di tutto punto: delle armature ordinate apposta al primo l’attoniere della città, e che erano costate gli occhi della testa. Il pubblico sciocco invece, al vedere quei ceffi di giudei che toccavano i cieli col capo, e suonavano a ogni passo come scatole di petrolio, si mise a ridere e a tirare ogni sorta d’immondizie sui Paladini, massime allorché ad Orlando cadde di mano la spada, ed egli, tutto chiuso nell’armi, non poté chinarsi per raccattarla. Urli, fischi e mozziconi di sigari in faccia ai Reali. Un putiferio da prendere a schiaffi tutti quanti, o da passar loro la spada attraverso il corpo, se non fosse stata di latta, pensando a tanti denari spesi inutilmente.
Da per tutto, ove si ostinava a portare i Paladini di Francia «con personaggi veri» trovava la stessa accoglienza: torsi di cavolo e bucce d’arance. Il pubblico andava in teatro apposta colle tasche piene di quella roba. Non li volevano più neanche «coi personaggi veri» i Paladini! Volevano le scempiaggini di Pulcinella, e le canzonette grasse cantate dalle donne che alzavano la gamba.
– E tu fagliele vedere le gambe! – disse infine alla moglie don Candeloro infuriato. – Diamogli delle ghiande al porco! –
Lui stesso, colle sue mani, dovette aiutare la Grazia ad accorciare la gonnella, litigando con lei che pretendeva di non esser nata per quel mestiere, e si vergognava all’udire i complimenti che il pubblico indirizzava ai suoi stinchi magri. – Per che cosa sei nata? per far la principessa? Il pane te lo mangi, però! – Lui invece era preso adesso dalla rabbia di mostrare ogni cosa, a quegli animali, la moglie, la figliuola ch’era più giovane e chiamava più gente. – Anch’io, se vogliono vedermi!… Voglio calarmi le brache in faccia a quelle bestie! – Faceva delle risate amare, povero don Candeloro! Cercava le farsacce più stupide e più indecenti. Si tingeva il viso per fare il pagliaccio. Sputava sul pubblico, dietro le quinte! – Porci! porci! –