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Potevano sfuggire ai problemi del matrimonio solo le donne che si ritiravano in un convento, o perché avevano scelto la verginità, o perché vedove, oppure quelle che erano rimaste in casa come sante donne di Dio. Già le mogli dei re merovingi, longobardi e anglosassoni avevano mostrato di preferire il ritiro in una istituzione religiosa in caso di vedovanza. Non erano rari, infatti, i casi di mogli in famiglie aristocratiche, ricche e influenti, che stringevano e cementavano alleanze con vescovi e abati. Inoltre le donne ricorrevano spesso alla soluzione del convento: la paura delle gravidanze, dei parti e del ricorrente comportamento violento dei mariti inducevano infatti le donne ad evitare il matrimonio, in generale, e le seconde nozze in particolare. Questi tre tipi di comportamento: ribellione contro i genitori o il marito, tensione e pacificazione grazie all’intercessione di un uomo potente, e rispettosa obbedienza corrispondono grosso modo a tre fasi diverse della storia del monachesimo femminile. Nel 6° secolo, quando i monasteri erano pochi, servire Dio nella vita religiosa richiedeva una fermezza eroica. Durante il 7° e 8° secolo, le comunità femminili sorsero ovunque e le donne potevano trovare un religioso che intercedesse. Nel 9° e 10° secolo quando si sollecitava l’isolamento rigoroso delle monache nei chiostri, i genitori esortavano le figlie a entrare in monastero. La fondazione dei monasteri rallentò durante il periodo carolingio e quello immediatamente seguente solo dopo la seconda metà del 10° secolo si assiste alla fondazione frequente in Italia di istituti femminili. Nel 7° secolo diedero i loro frutti gli sforzi del monaco irlandese S. Colombano: i discepoli del monastero da lui fondato in Francia avevano nei confronti delle religiose un approccio diverso: lavoravano in società con le donne. Per proteggere le religiose e aiutarle nella conduzione dell’istituto, e per fornire loro i servizi religiosi, questi uomini intraprendenti pensarono di aggregare un certo numero di monaci agli istituti femminili. Crearono così una nuova istituzione, il monastero doppio di cui abbiamo precedenti in oriente e forse in Irlanda. In tali monasteri, comunque, le monache non vivevano alle spalle dei loro confratelli, ma svolgevano una serie di lavori manuali come: fare le pulizie, cucinare, cucire, servire, pescare, produrre la birra e fare il fuoco. L’ingresso al monastero veniva accordato alle vedove e come orma di penitenza anche alle donne cadute nel peccato che volessero ravvedersi. C’erano anche vedove, e vergini professe che vivevano fuori dalle mura del convento nelle loro case. Gli uomini trovati all’interno dei monasteri, se erano laici venivano scomunicati, se erano religiosi venivano privati delle loro funzioni e rinchiusi nei monasteri. Le monache colpevoli, invece, dovevano pregare e digiunare per scontare i loro peccati. Anche le questioni personali erano soggetti ad una regola; per esempio le monache dormivano nei dormitori secondo certi principi: le giovani si alternavano con le anziane per evitare le tentazioni della carne e la diffusione di un’atmosfera frivola. I capelli venivano lavati solo di domenica e pubblicamente. Il rito penitenziale Irlandese quando venne introdotto nel continente, fece sì che le badesse, soprattutto nei monasteri doppi, dovessero confessare i membri della comunità tre volte al giorno; esse potevano anche benedire membri della comunità, purché donne, avevano perciò una funzione quasi sacerdotale. I loro compiti abituali includevano l’amministrazione, la disciplina e la cura del benessere spirituale; le monache e le canonichesse potevano partecipare al lavoro di chiesa solo limitatamente a certe attività: potevano suonare le campane, accendere le candele, pregare, cantare, recitare i salmi, educare le femmine, accudire alle donne malate. Grazie al luogo comune che le voleva deboli e dalle menti instabili, le canonichesse conducevano una vita più austera di quella dei canonici: la loro vita si svolgeva rigorosamente all’interno dei chiostri e i loro patrimoni venivano gestiti da un esterno. In chiesa dovevano coprirsi il volto con un velo e dovevano evitare ogni contatto con gli uomini; ad esempio potevano confessarsi con il sacerdote solo in presenza delle consorelle. D’altra parte i religiosi raccomandavano a tutte le donne un comportamento umile in chiesa: nessuna poteva avvicinarsi all’altare e persino le monache non dovevano toccare i recipienti né i paramenti sacri. La clausura delle monache occupò sempre le menti dei religiosi, a partire dai carolingi: si voleva infatti evitare il pericolo della promiscuità fra i sessi all’interno delle istituzioni religiose. Le religiose che vivevano fuori dal convento dovevano entrare a far parte di una comunità. A partire 9° secolo i conventi delle monache furono sempre più utilizzati per segregarvi le donne considerate indesiderabili, socialmente pericolose o non produttive, si verificò un rilassamento del controllo ecclesiastico, il criterio che da sempre regolava l’ammissione ad una comunità, cioè quello della ricchezza più che quello della santità, portò all’assunzione di alcune famiglie della direzione e dello sfruttamento delle rendite monastiche, mettendo le figlie ad amministrare i monasteri in qualità di badesse laiche. Trasformarono così i monasteri in conventi di canonichesse all’interno dei quali non era più indispensabile ritirarsi.
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