Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019Apollonio Rodio e Virgilio
dal Percorso sull’amore nei classici
di Giovanni Ghiselli
I nuclei dell’Iliade e dell’Odissea risalgono, nella prima composizione e trasmissione orale, alla cosiddetta età oscura, seguìta all’invasione dorica che, poco prima del 1100 a. C. , abbatté la potenza della civiltà micenea.
Le donne omeriche più significative, secondo l’ottica del nostro percorso, sono Andromaca e Nausicaa.
La moglie di Ettore significa la sposa innamorata, bisognosa del marito e a lui assolutamente devota[4]: nel VI canto dell’Iliade dichiara il suo amore all’eroe troiano, dicendogli che per lei rappresenta tutti gli affetti e pregandolo di non esporsi troppo nella guerra sterminatrice:
vv. 429-432
testo greco.
” Ettore, tu per me sei il padre e la veneranda madre/e anche il fratello, tu sei pure il mio sposo fiorente;/allora, ti prego, abbi compassione e rimani qui sulla torre,/non rendere il figlio orfano e vedova la sposa” (vv. 429-432).-ejssi: forma eolica=ei.
-povtnia: è il corrrispondente maschile di povsi”, “sposo”. v. 430-parakoivth” : (sposo”) formato da parav e koivth, letto. Vedremo che questo è il mobile fondamentale nel nostro percorso.
Tra Odisseo e Penelope che non si vedevano da venti anni il segno certo, evidente (shvmatj ajrifradeva, Odissea , XXIII, 225) di riconoscimento non è, come con Euriclea quello della cicatrice, ma quello del letto comune agli sposi (eujnh'” hJmetevrh” , del letto nostro, dice Penelope a Odisseo, v. 226).
Il letto è comunque un mobile ambiguo.
Vedremo meglio più avanti l’importanza del letto che in alcune tragedie (p. e. nell’Alcesti e nella Medea di Euripide) costituisce appunto “il mobile più importante”[5] della casa; mentre nell’Agamennone di Eschilo significa il luogo di un agguato:” ma una rete è la compagna di letto (ajll j a[[rku” hJ xuvneuno” ), la complice/dell’assassinio” vv. 1116-1117). In questo caso il letto (eujnhv) diviene una trappola e la moglie (xuvneuno” è appunto formato da suvn ed eujnhv) è quella che la tende.
La sposa dunque ha una doppia valenza.
In greco si può dire anche a[loco” : nello stesso canto dell’Iliade Andromaca è a[loco” poluvdwro” (VI, 394) la sposa dai molti doni, fatti del resto da Ettore, il quale la portò via dalla casa di Eezione dopo che ebbe dato “muvria e{dna” (XXII, 472), infiniti regali di nozze. Ebbene il sostantivo femminile a[loco” è formato da aj-copulativo + levco” , “letto”, derivato dalla radice lec-loc- che dà luogo anche a lovco” , “imboscata”.
Quindi si tratta di un termine dal doppio senso. In Andromaca prevale quello dell’accoglienza e della protezione, offerta e richiesta. Altrettanto in Alcesti.
Il contrario, ovviamente in Clitennestra.
Torniamo a povtnia del v. 429, aggettivo attribuito a mhvthr.
Dalla radice indoeuropea *potis si forma anche il latino potis, e , “che può”, “potente”.
L’ idea di potenza contenuta dall’epiteto che accompagna le dee o anche, come qui, le madri, può risalire a una precedente epoca matriarcale ipotizzata da Bachofen[6] in maniera talora fantasiosa. Che la figura femminile sia stata predominante in una fase della storia del resto “non è inconcepibile se si pensa alla corrispondenza tra il gr. gunhv ‘donna’ e l’ingl. queen ‘regina’[7]. Vedremo che Andromaca sarà, in due tragedie di Euripide[8], il tipo della moglie casalinga, silenziosa, sottomessa; è piuttosto nel poema omerico più recente che si possono trovare residui di matriarcato.
Qualche cosa della non bassa condizione della donna nell’Odissea si vede già alla fine del primo canto quando, scesa la sera, i proci tornarono a dormire nelle loro case e pure Telemaco andò a letto, accompagnato dalla saggia Euriclea che Laerte aveva comprato molto tempo prima, ancora giovanissima per venti buoi, pertanto doveva essere stata anche bellissima, e l’aveva onorata come una sposa, però non si era mai unito a lei nel letto, ed evitava l’ira della moglie:”eujnh’/ d jouj pot j e[mikto, covlon d j ajleveine gunaikov”” (I, 433).
Nell’Iliade in effetti Amintore, il genitore di Fenice, dovette pagare caro il tradimento inflitto alla sposa che gli mise contro il figlio spingendolo a diventare amante dell’amante del padre il quale poi lo maledì (IX, vv. 450 e sgg.).
Torniamo al VI canto e vediamo la posizione del marito buono. Seguono sette esametri (433-439) che il filologo alessandrino Aristarco[9] espungeva come spuri. Quindo abbiamo la risposta di Ettore.
Testo Greco vv. 440-455.
A lei allora rispose Ettore grande, agitatore dell’elmo
:”certo anche a me tutto questo sta a cuore, donna; ma davvero terribilmente
mi vergogno di Troiani e Troiane dal lungo strascico,
se come un vile fuggo lontano dalla guerra;
né il cuore mi esorta, poiché ho imparato a essere generoso
sempre e a combattere con i primi Troiani,
cercando di conservare la grande gloria del padre e la mia stessa.
Io infatti so bene questo nell’anima e nel cuore:
giorno verrà quando la sacra Il’io verrà annientata
e Priamo e il popolo di Priamo dalla buona lancia.
Ma non tanto dolore mi accora per il futuro dei Troiani
né della stessa Ecuba, né di Priamo sovrano
né dei fratelli, che molti e generosi
cadranno nella polvere buttati giù dai nemici,
quanto per te, quando uno degli Achei dalla corazza di bronzo
ti trascinerà piangente, togliendoti libero giorno.
mevga” : (v. 440) la grandezza di Ettore non è solo quella del “marito buono” e degno, già segnalata e contrapponibile alla meschinità dell'”eterno marito” di Dostoevskij o il marito spiaciuto del Parini, o di Flaubert che incontreremo più avanti, ma è pure quella dell’eroe epico il cui imperativo è “primeggiare sempre”.
D’altra parte il marito ahi quanto spiace
E lo stomaco move ai dilicati
Del vostrorbe leggiadro abitatori
Qualor de semplicetti avoli nostri
Portar osa in ridicolo trionfo
La rimbambita fe, la pudicizia
Severi nomi!” (Parini, Il mattino, vv. 267-272)
Pèra dunque chha te nozze consiglia (v. 308)
Il modello dell’uomo eroico che, avido di gloria e onore, pervade tutta la cultura greca, è la figura di Achille. Il figlio di Tetide, come gli altri protagonisti dell’Iliade , il poema epico che presenta il grado eroico dell’esistenza umana, passa la vita in un continuo cimentarsi e gareggiare.
Il motto del combattente omerico è “aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn”( VI, 208), primeggiare sempre ed essere egregio tra gli altri. Lo raccomandano i padri ai figli ( nel sesto canto il licio Ippoloco a Glauco, nell’undicesimo, al v.784, Peleo ad Achille).
Nietzsche fa di questo aspetto agonistico con volontà di primeggiare una caratteristica precipua dei Greci antichi: “Poiché il volere vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni gioia e stima di uguaglianza. Lo stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioé delimitato un’arena dove quell’impulso poteva scaricarsi senza mettere in pericolo l’ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo stato greco cadde nell’inquietudine e dissoluzione interna”[10]. Alla nobiltà dell’azione del resto doveva unirsi quella della mente. Peleo manda Fenice a Troia con il figliolo perché gli insegni:”muvqwn te rJhth’r j e[menai prhkth’rav te e[rgwn”[11], a essere dicitore di parole ed esecutore di opere.
Eros si associa a Eris Chi si intende non poco di schermaglie e battaglie amorose è Ovidio.
Negli Amores scrive:”Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis amans “(I, 9, 1-2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato
ejmoivmevlei : (v. 450) è il motto dell’uomo morale.
Don Milani in L’obbedienza non è più una virtù scrive:”Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande-I CARE -. E’ il contrario esatto del motto fascista-Me ne frego-” (p. 34).
–aijdevomai: (v. 444) questo verbo e l’intera espressione di Ettore quella che Dodds definisce Culture of shame, “Civiltà di vergogna” . In essa “il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della timhv, la pubblica stima…La più potente forza morale nota all’uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell’opinione pubblica, aijdwv”: aijdevomai Trw’a”[12], dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti“[13].
Medea ammazza i figli per non essere derisa dai Corinzi quale donna debole, donna abbandonata.
.-qumov” : (v. 444) è in Omero “ciò che provoca le emozioni…In molti punti quando si parla della morte è detto che il qumov” abbandona l’uomo…Sappiamo che quest’organo determina anche i movimenti del corpo, ed è quindi naturale dire che esso, nel momento della morte, abbandona le ossa e le membra coi loro muscoli…La gioia ha generalmente sede nel qumov”…Inoltre è generalmente il qumov” che fa agire l’uomo…Se qumov” è in genere la sede della gioia, del piacere, dell’amore, della compassione, dell’ira e così via, dunque di tutti i moti dell’animo, tuttavia può trovar sede talvolta nel qumov” anche la conoscenza…Quando si dice che qualcuno sente qualcosa, kata; qumovn, qumov” è in questo caso un organo e noi possiamo tradurre la parola con “anima”, ma dobbiamo tenere presente che si tratta dell’anima soggetta alle “emozioni”. Però anche qumov” verrà in seguito a determinare una funzione (e allora potremo tradurre la parola con “volontà” o “carattere”) e anche la funzione singola: dunque anche quest’espressione ha un significato più esteso di quanto non abbiano le nostre parole “anima” e “spirito”. Nel modo più chiaro appare ciò nell’Odissea (IX, 302) dove Ulisse dice: e{tero” dev me qumo;” e[ruken:” un altro qumov” mi trattenne”, e qui dunque qumov” si riferisce a un particolare moto dell’animo“[14].
Con qumov” sono composte le parole che designano due delle tre parti dell’anima nella Repubblica di Platone: qumoeidhv” è l’elemento irascibile che deve essere alleato con il logistikovn, la componente razionale, nel presiedere all’ ejpiqumhtikovn, l’elemento appetitivo, la parte maggiore e la più insaziabile di ricchezze (441e).-
.-ajrnuvmeno” : participio di a[inumai cerco di mantenere” Lo stesso verbo nella medesima forma si trova nel Proemio dell’Odissea a proposito del protagonista il quale ” soffrì molti dolori sul mare nell’animo suo,/cercando di salvare la sua vita (h[n te yuchvn) e il ritorno dei compagni.”(vv. 4-5).
Più concretamente “l’uomo” del secondo poema antepone la vita a tutto il resto. Non per niente Nietzsche ha trovato in alcuni versi dellOdissea il ribaltamento della sapienza silenica:” Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi-la sola teodicea soddisfacente! L’esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, ” la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno”. Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l’avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie, per il tramonto dell’età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[15]. Nello stadio apollineo la “volontà” desidera quest’esistenza così impetuosamente, l’uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode”[16]
vv. 448-449 giorno verrà quando la sacra Il’io verrà annientata
e Priamo e il popolo di Priamo dalla buona lancia.
Polibio nel XXXVIII libro delle sue Storie ricorda che Scipione emiliano assistendo alla distruzione di Cartagine[17] sia scoppiato in lacrime e, pensando come la fortuna di ogni città cambi invariabilmente, abbia citato questi due versi , quindi all’amico storiografo che lo interrogava abbia risposto facendo il nome della sua patria per la quale temeva quando rifletteva sul rapido destino delle cose umane.-
v. 453 La polvere ( kovniÏ,, lat cinis ) i fratelli cadranno nella polvere
La polvere nella letteratura antica è segno di aridità, sterilità e morte.
Nell’Agamennone di Eschilo la polvere è definita “assetata sorella del fango” (vv. 494-495) . Platone attribuisce alla polvere e all’aridità significati negativi: nel mito di Er della Repubblica le anime che vengono dal viaggio millenario sottoterra sono “mesta;” aujcmou’ te kai; kovnew”” (614d), piene di squallida aridità e di polvere.
Nel carme 66 di Catullo, i versi di biasimo dell’adulterio (79-88) aggiunti alla Chioma di Berenice di Callimaco associano la polvere all’impurità delle spose infedeli:”sed quae se impuro dedit adulterio,/ illius a! mala dona levis bibat irrita pulvis “, ma se qualcuna si concede all’impuro adulterio, ah la polvere leggera beva inutilmente i doni cattivi di quella (84-85).
Pure nell’Oedipus di Seneca il morbo del cielo (Fecimus coelum nocens , abbiamo reso funesto il cielo, si autoaccusa Edipo, v.36) si riflette nell’aridità della terra:”Deseruit amnes humor atque herbas color,/aretque Dirce; tenuis Ismenos fluit,/et tingit inopi nuda vix und? vada “(41-44), l’acqua ha abbandonato i fiumi e il colore le erbe, e Dirce è secca; come un rigagnolo scorre l’Ismeno e con l’onda senz’acqua bagna a stento il letto vuoto.
Nella Waste land di Eliot si legge:”I will show you fear in a handful of dust ” (v. 30), in un pugno di polvere vi mostrerò la paura.
D’Annunzio ambienta il dramma La città morta (del 1898) “Nell’Argolide “sitibonda” presso le rovine di Micene “ricca d’oro” dove Bianca Maria “tenendo tra le mani un libro aperto-l’Antigone di Sofocle- legge con voce lenta e grave” (I, 1).
Ettore dunque è immerso nella civiltà di vergogna e fa gran conto della sua reputazione di eroe che del resto è pure la sua identità: egli, come Achille, come Aiace, cerca l’onore (timhv ) la cui perdita per il campione omerico è la tragedia massima. Il compenso che il prode si aspetta in cambio dell’ ajrethv dimostrata obbedendo a obblighi impegnativi fino al sacrificio, è un riconoscimento in termini di onore: la timhv negata è una tragedia per il valoroso che si è distinto in battaglia:
Achille si rifiuta di combattere constando che l’uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore:” ejn de; ijh’/ timh’/ hjme;n kako;” hjde; kai; ejsqlov””[18]. Allora sua madre implora Zeus di onorargli il figlio:”tivmhsovn moi uiJovn“[19], onora mio figlio-prega-, poiché è di vita più breve degli altri, e il signore di genti Agamennone lo disonorò (“hjtivmhsen”[20]) .
Lonore e il disonore della donna stanno nel letto (cfr. Euripide, Medea: La donna infatti per il resto è piena di paura- sostiene-e vile davanti a un atto di forza e a guardare un’arma;-ma quando venga offesa nel letto,-non c’è non c’è altro cuore più sanguinario. ( o[tan d j ej~ eujnh;n hjdikhmevnh kurh’/-ouj e[stin a[llh frhvn miaifonwtevra)vv. 263- 266).
Generoso come difensore troiano è stato il figlio di Priamo e pure buon marito che rispetta e ama la moglie. Meno rispettoso della sua è Agamennone il quale, sempre nell’ Iliade , afferma di preferire a Clitennestra Criseide in quanto la schiava-amante non le era inferiore “per il corpo né per la figura né per la mente né per le opere” (I, 115).
Nell’Agamennone di Eschilo anzi pare che sia stato questo amore ancillare troppo elogiato a mettere in moto il risentimento della moglie legittima:”kei’tai gunaiko;” th’sde lumanthvrio”,-Crushivdwn meivligma tw’n uJp j jIlivw/”(vv. 1438-1439), giace a terra il distruttore di questa donna,/la delizia delle Criseidi sotto Il’io , grida Clitennestra dopo l’assassinio dello sposo.
Non bassa comunque è la situazione della sposa troiana.
Particolarmente significativo dell’alta condizione della donna nell’epos omerico, è il consiglio che Nausicaa dà a Ulisse nel VI canto: il naufrago deve chiedere aiuto non al re ma alla regina sua madre se vuole vedere il dì del ritorno (vv. 310-315).
“La posizione sociale della donna non fu mai più, presso i Greci, così elevata come sul declinare del periodo cavalleresco omerico. Arete, la consorte del principe dei Feaci, è onorata dal popolo come una dea. Ne compone i litigi col suo presentarsi e determina le decisioni del marito col suo intervento o col suo consiglio[21]. Per ottenere di ritornare ad Itaca con l’aiuto dei Feaci, Odisseo, dietro suggerimento di Nausicaa, non si rivolge in primo luogo al padre di lei, al Re, ma abbraccia implorando le ginocchia della sovrana, ché decisiva è la benevolenza di questa per far esaudire la preghiera[22]. Quanta sicurezza nel contegno della stessa Penelope, così sola e abbandonata, di fronte allo sciame dei pretendenti che tumultuano protervi: ella infatti può sempre contare sul rispetto assoluto della sua persona e della sua dignità di donna[23]. I modi cortesi dei nobili signori con le donne del loro ceto è prodotto di un’annosa cultura e di un’alta educazione sociale. La donna è rispettata e onorata non solo quale essere socialmente utile, come nella famiglia contadina secondo l’insegnamento d’Esiodo[24], né solo quale madre della prole legittima, come nella borghesia greca posteriore, per quanto anche per i nobili, appunto, fieri del proprio albero genealogico, la donna debba avere importanza quale genitrice di un’eletta stirpe[25]. Essa è la rappresentante e la custode d’ogni elevato costume e tradizione. Questa sua dignità spirituale influisce anche sul comportamento amoroso dell’uomo. Nel primo canto dell’Odissea , che rappresenta in tutto idee morali più raffinate che le parti più antiche dell’epopea, troviamo un tratto notevole quanto alla relazione tra i due sessi. Quando Euriclea, la fida e onorata servente, scorta con la fiaccola Telemaco sino alla stanza da letto, il poeta, al modo epico, ne narra brevemente la vita. Il vecchio Laerte la comperò un giorno, quand’era una bella fanciulla, a carissimo prezzo. Per tutta la vita la tenne nella sua casa in onore pari a quello in cui era la nobile consorte, ma, per riguardo a questa, senza mai divider con essa il letto”[26].
Nel VI canto dell’Odissea Ulisse augura a Nausicaa quello che secondo lui è il bene più grande che le possa capitare. Versi 180-185 in greco.
Traduzione.
“A te gli dèi concedano tanto quanto tu desideri nel tuo cuore,/un uomo (a[ndra) e una famiglia e la concordia degli animi (oJmofrosuvnhn, 181) vi diano/nobile: infatti non c’è nulla di più forte e prezioso (kreiÌ?sson kai a[reion) di questo,/di quando concordi (oJmofronevonte) nei pensieri reggono la casa/l’uomo e la donna: molto dolore per i malevoli,/e gioie per i benevoli; ma soprattutto ne hanno buona fama loro”(vv. 180-185 ). – a[ndra : ho preferito tradurlo con “uomo” invece del tradizionale “marito”.
Tanti mariti infatti non sono uomini cfr. Dostoevskij, Parini)
Una donna non potrebbe augurarsi un marito che non fosse anche un uomo, e in effetti tanti mariti sono uomini apparenti. Ecco perché Temistocle dei due pretendenti alla mano della figlia scelse quello che era un uomo a quello ricco dicendo: preferisco un uomo senza denaro al denaro senza uomo[27] e[fh zhteiÌ?n a[ndra crhmavtwn deovmenon maÌ?llon h] crhvmata ajndrovÏ,. Disse che cercava
Similmente la Giovanna amata da Federigo degli Alberighi, riconosciuta la grandezza dell’animo di quell’uomo che aveva perso tutto il suo patrimonio per corteggiarla, volle sposarlo dicendo:”ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo”[28].
Del resto poi lo sposo prescelto divenne pure “miglior massaio”.
– oJmofrosuvnhn: indica lo stesso modo di sentire e pensare che è imprescindibile per l’accordo di una coppia; anzi, quando c’è questa condizione invidiabile, nessuna opposizione, nessun incidente, può sciuparla o mortificarla. In questo caso l’amore non è volgare. Non solo: tale similitudine e concordia di anime (oJmov” e frhvn) arriva alla fusione reciproca o alla trasfusione dell’una nell’altra.
Nel Simposio di Platone, Pausania distingue l’amore volgare, figlio di Afrodite Pandemia, da quello celeste, figlio di Venere Celeste appunto; ebbene l’amante volgare (oJ ejrasth;” oJ pavndhmo” ) si innamora piuttosto del corpo che dell’anima (oJ tou’ swvmato” ma’llon hj; th'” yuch'” ejrw’n, ) e non è costante, poiché ama una cosa che non è costante: non appena appassisce il fiore del corpo, vola via lontano, disonorando le sue parole e le sue promesse; quello invece che si entusiasma per un carattere nobile ne resta innamorato per tutta la vita , poiché si è fuso con qualche cosa di stabile ( ejrasth;” dia; bivou mevnei, a{{te monivmw/ suntakeiv” 183e-sunthvkw).
Tiziano dipinse nel 1514 un’opera neoplatonica che raffigura Amor sacro e amor profano in due donne, una vestita e una quasi nuda; ebbene la Venere volgare è quella vestita e adorna di effimeri orpelli terreni, mentre la svestita rappresenta la Venere Celeste: la sua nudità infatti significa la bellezza eterna, universale, e la verità filosofica, mentre una fiamma tenuta alta nella mano sinistra simboleggia l’amor di Dio.
Il dipinto, a olio su tela, si trova a Roma nella Galleria Borghese.
Infatti, rimanendo sulla pittura italiana del Cinquecento, ne La scuola di Atene [29] di Raffaello, dove sono raffigurati i maggiori filosofi dell’età classica, Platone con la mano destra indica il cielo e Aristotele la terra.
Il passaggio dall’uno all’altro amore viene sentito e dichiarato dal passionale Dimitri Karamazov:”questo amore mi tortura, mi tortura!…Prima, mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo corpo infernale, ma adesso tutta la sua anima l’ho trasfusa nella mia, e grazie a lei anch’io sono diventato un uomo!”[30].
Esiste una versione latina di questa trasfusione di anime che, pur se prelude a un tradimento, e quindi, dentro il contesto, può far pensare a una “cinica autoironia”[31] del narratore, rievoca in endecasillabi faleci una notte d’amore, omosessuale oltretutto, comunque con una delicatezza e una profondità degna della migliore poesia amorosa latina:”qualis nox fuit illa, di deaeque,/quam mollis torus. haesimus calentes/et transfudimus hinc et hinc labellis/errantes animas. valete, curae/mortales. ego sic perire coepi ” (Satyricon, 79), che notte fu quella, dei e dee, che morbido letto. ci stringemmo ardenti e ci trasfondemmo con le labbra a vicenda le anime deliranti. addio, affanni mortali. così io cominciai a morire.
Si tratta di una mezza nottata di amore tra Encolpio e Gitone che però viene sottratto a Encolpio da Ascilto iniuriae inventoroblitus iuris umani (79)
Anche quando non si arriva alla fusione, l’accordo e l’intesa costituiscono la forza e la coesione inscindibile della coppia.
Nell’Andria di Terenzio, Panfilo, parlando con Miside, la serva dell’amata Glicerio, le chiede di riferire alla padrona che non la abbandonerà mai:” conveniunt mores. Valeant/ qui inter nos discidium vol’unt: hanc nisi mors mi adimet nemo “(696-697), i nostri caratteri vanno d’accordo. Vadano a farsi benedire quelli che vogliono una rottura tra noi: questa non me la strapperà nessuno tranne la morte.
Del resto il termine discidium , dal verbo scindere , significa lo spezzarsi, o il taglio (cfr. discindere, tagliare) di un filo troppo teso in due parti i cui capi si possono riannodare; mentre il divortium implica il volgersi altrove (divertere ) e non incontrarsi più.
Similmente Kierkegaard afferma:” sincerità, apertura di cuore, rivelarsi, intendendersi, ecco il principio vitale del matrimonio, senza le quali cose esso è contrario alle regole della bellezza e, propriamente, amorale, perché così si separa ciò che l’amore congiunge, il sensuale e lo spirituale…L’intesa, ecco dunque il principio vitale del matrimonio“[32]. Analoga riflessione si trova in Svevo:”Se il giovine ama la ragazza, l’affare è certamente buono; se non l’ama, pessimo”[33].
– krei’sson (182) comparativo di solito collegato ad ajgaqov” ( da una radice ajgaq- imparentata con il tedesco gut e l’inglese good ) ma formato sulla radice krat-/kret-/kart-che si trova in kravvvvvvvvvvvvto”, “potenza”. Indica quindi una superiorità in termini di forza.
In effetti una coppia solidale è una potenza.
Leopardi nella Storia del genere umano sostiene che il massimo della felicità e della forza amorosa è concessa da “Amore, figliuolo di Venere Celeste“. E spiega:” Quando viene in sulla terra sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti nobili e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa del tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacergli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcuno uomo ai migliori tempi”.
L’altro comparativo (a[reion, v. 182) anch’esso collegato ad ajgaqov”, è formato sulla radice ajr(e)- che si trova anche in ajrethvv , “virtù”.
A proposito di questa graduatoria, che considera quale “cosa più bella” l’accordo con il compagno o la compagna, possiamo utilizzare la favola ovidiana di Filemone e Bauci che, dopo avere accolto e ospitato piamente nella loro casetta agreste Giove e Mercurio respinti da altri abitanti, empi del luogo[34], ottengono in premio la possibilità di vedere esaurito un desiderio. Ebbene i due vecchi sposi si consultano, quindi Filem?ne esprime il desiderio comune: essere sacerdoti custodi del tempio degli dèi e di morire nello stesso momento ” poscimus, et quoniam concordes egimus annos,/auferat hora duos eadem, nec coniugis umquam/busta meae videam neu sim tumulandus ab illa” (Metamorfosi , VIII, 708-710), vi preghiamo, poiché abbiamo passato concordi tanti anni, che la stessa ora ci porti via insieme, né io veda mai la tomba della mia sposa né debba essere sepolto da lei.
Passando al Novecento, l’Ulisse di Joyce impiega tale tovpo” quando Leopold Bloom “Abbassa gli occhi al volto e alla figura di Stephen “, lo osserva con amore paterno e gli fa un augurio:”Il viso mi ricorda la sua povera mamma. Il profondo seno bianco….Una ragazza. La miglior cosa che possa capitargli“[35].
Il verbo oJmofronevonte ( v. 183) è participio presente duale non contratto (=oJmofronou’nte) da oJmofronevw riprende la oJmofrosuvnh del v. 181.
Odisseo dunque insiste sulla concordia affettiva e mentale. Egli comunque non si innamora della ragazza:”Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa-benedicendola, più che restandone innamorati”[36].
Snell parte da oJmovfrwn di Iliade XXII, 263 e nota che ” L’Odissea conosce due derivati da questa parola: il nome oJmofrosuvnh, cioè la condizione di avere la stessa mente, e il verbo oJmofronevein, “avere la stessa mente”. Entrambi si trovano nel canto VI (vv. 180 sgg.)[37]. Odisseo augura a Nausicaa[38]…..Anche qui le parole greche cercano di spiegare, un pò laboriosamente e a fatica, che Odisseo ha in mente più che la comunione convenzionale, qualche cosa di intimo e caloroso; anche qui, tuttavia, è conservato il modo di vedere primitivo: si tratta del comportamento pratico verso amici e nemici. Quando parla di unanimità, Omero si riferisce sempre a una comunità consacrata per tradizione: famiglia, consiglio e assemblea, esercito e gruppo di combattimento; in questa”unanimità”, dunque, alcuni individui danno uno speciale contenuto ai legami comunitari tradizionali, ma non fondano forme sociali nuove”[39].
Quanto ai nemici di chi ama ( dusmenevessi , i maldisposti v. 184), costoro sono i produttori e i mercanti delle cose inutili o nocive che uomini e donne devono comprare per gratificarsi compensando, male, l’incapacità di amare.
Concludo il commento ai versi omerici con l’esordio del discorso di Aristofane (445 ca a. C.-388) nel Simposio platonico che è un elogio incondizionato del dio Eros: è il dio che più ama gli uomini (qew’n filanqrwpovtato”, 189d), “) poiché è il loro soccorritore e il medico di quei mali, una volta guariti i quali, ci sarebbe grande felicità per il genere umano:” ejpikourov” te w]n tw’n ajnqrwvpwn kai; ijatro;” touvtwn w|n ijaqevntwn megivsth eujdaimoniva a}n tw`/ ajnqrwpeivw/ gevnei ei[h (189d).
Quindi Aristofane procede spiegando la potenza (th;n duvnamin) di questo dio. Una potenza, abbiamo visto riconosciuta da Leopardi che pure si sentì negata “anche la speme”[40].
Nella letteratura europea ha avuto più spazio la calunnia, la quale identifica l’amore con il male, che questa grande verità dell’Aristofane di Platone.
Questo luogo dell’Odissea viene ripreso da Euripide nel prologo della Medea , pur con un arretramento di posizione: la salvezza più grande, afferma la nutrice, accontentandosi di un bene minore, sta nel fatto che la donna non sia in disaccordo con l’uomo:” h{per megivsth givgnetai swthriva-o{tan gunh; pro;” a[ndra mh; dicostath’/“ (vv. 14-15). Ma sappiamo che nemmeno questo viene concesso alla maga della Colchide e all’eroe tessalo.
Ricorro ancora a Joyce per indicare una possibilità di accordo salvifico, perfino della stima e dell’amore dovuti all’attrazione e all’ammirazione, anche in condizioni difficili, addirittura in presenza e con coscienza dell’adulterio :” Molly dà dei punti a tutte. E’ il sangue del sud. Moresco. Anche la forma, la linea. Mani cercavano le opulente. Fa un po’ il paragone con quelle altre. Moglie chiusa in casa, segreto di famiglia. Mi permetta di presentare la mia. Ed ecco che ti tirano fuori qualcosa d’indefinito, non sai come chiamarla…Come l’uomo e la donna. Calamita e acciaio. Molly e lui[41]….Perché io? Perché eri così diverso dagli altri[42]…la loro compagna più bruna con non so quale fascino nella sua posa, Nostra Signora delle Ciliegie, con un grazioso orecchino formato da due di esse, per dare risalto alla calda tinta esotica della pelle in delicato contrasto con il fresco frutto ardente[43]“.
Certamente non piccola parte dell’inclinazione verso la persona amata dipende dall’attrazione fisica:” Mia moglie è , per così dire spagnola, a metà per meglio dire…Ha il tipo spagnolo. Piuttosto scura, una vera bruna, nera di capelli. Io, per quel che mi riguarda, sono fermamente convinto che il carattere dipende dal clima“[44]. Una convinzione questa, un tovpo” , già presente in Erodoto. Il capitolo finale delle Storie (IX, 122) contiene un monito attribuito a Ciro, il fondatore dell’impero persiano. Alcuni sudditi gli avevano proposto di trasferire il popolo dei Persiani dalla loro terra “piccola, scabra e montuosa” in un’altra “migliore”. L’occasione era offerta dalla vittoria sul re dei Medi Astiage. Ma Ciro li scoraggiò dicendo che “da luoghi molli di solito nascono uomini molli (“filevein ga;r ejk tw’n malakw’n cwvrwn malakou;” a[ndra” givnesqai“, IX, 122, 3): infatti non è della stessa terra produrre frutti meravigliosi e uomini valenti in guerra. Sicché i Persiani si allontanarono desistendo, vinti dal parere di Ciro, e preferirono comandare abitando una terra infeconda piuttosto che essere servi di altri coltivando pianure fertili. Questo passo finale dell’opera di Erodoto trova una certa corrispondenza nello scritto del Corpus Hippocraticum[45] Peri; ajevrwn, ujdavtwn, tovpwn, Sulle arie, le acque, i luoghi di probabile paternità ippocratica[46].
Entrambe le opere infatti affermano che c’è una “unità indissolubile” tra la terra, il clima, gli uomini e “le forme della loro esperienza umana[47]“.
C’è pure in Joyce come si è visto.
Si diceva dell’importanza dell’attrazione fisica. Il richiamo visivo è più profondo quando viene dagli occhi. Il legame di coppia, anche il più spirituale, riceve il primo e basilare impulso dall’attrazione fisica. Atena rende Odisseo più attraente affinché Nausicaa, vedendolo, se ne innamori:”Atena, prole di Zeus, lo rese più grande a vedersi e più robusto (meivzonav t j eijsidevein kai; pavssona ), e dal capo folti fece scendere i capelli, simili ai fiori del giacinto (Odissea , VI, 229-231).
La somiglianza più alta dell’essere umano è quella con gli dèi immortali. La consegue Odisseo in seguito all’intervento di Atena Nausicaa dice alle ancelle:” prima in effetti mi sembrava davvero essere uno volgare (ajeikevl’io” ) , ma ora assomiglia agli dèi (nu’n de; qeoi’si e[oike) che abitano l’ampio cielo ( Odissea , VI, vv. 242-243). Questa similitudine con dio costituisce per la creatura dotata la più alta forma di identificazione, il massimo della sua identità: “quando è privo di ogni charis, l’essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios . Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se stessi, che costituisce l’identità di ciascuno e si manifesta nell’apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte. Tra i due poli opposti del non rassomigliare a nulla e del rassomigliare agli dèi, essa si situa in posizioni variabili a seconda del prestigio o della celebrità di cui uno gode, della paura e del rispetto che uno ispira…La grazia e la bellezza del corpo, facendo vedere chi siete, danno la misura della vostra time, della vostra dignità o della vostra infamia“.
Viceversa:”A volte capita che anche gli uomini tentino di fare ciò che gli dèi possono realizzare facilmente, ma in peggio, quando cercano di distruggere nel cadavere di un nemico odiato ogni rassomiglianza del morto con lui stesso. Oltraggiando il suo corpo, sfigurandolo, strappandogli la pelle, smembrandolo, lasciandolo imputridire al sole o divorare dagli animali, si vuol far scomparire ogni traccia della sua figura e della sua antica bellezza per non lasciare di lui che orrore e mostruosità. Oltraggiare – cioè imbruttire e disonorare a un tempo si dice aeikizein , rendere aeikes o aeikelios , non simile “[48]. ajeikivzw, ajeikhvÏ, , ajeikevl’ioÏ,
Per comprendere questa riflessione bisogna ricordare che ajj -eikhv” è formato sulla radice eijk-/oijk-/ijk- come e[oika, “sono simile”, quindi significa “indegno” e “dissimile”, ossia, secondo Vernant, indegno di se stesso e dissimile da se stesso.
Note:
[2] Per la genesi e la storia dei poemi omerici vedi la parte introduttiva (pp. 9-47) della mia antologia Ulisse, il figlio, le donne, i viaggi, gli amori , Loffredo, Napoli, 200.
[3] Hegel, Estetica , p. 1381.
[4] La ritroveremo nelle tragedie di Euripide Troiane e Andromaca
[5] J. Kott, Mangiare Dio , trad. it. Edizioni Il Formichiere, Milano, 1977, p. 120.
[6] J. J. Bachofen, Il potere femminile , trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1977. Mutterrecht 1861
J. J. Bachofen, Le madri e la virilità olimpica , trad. it. Edizioni Due C. Roma, 1975.
[7] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee , trad. it. Einaudi, Torino, 1976., p. 15.
[8] Andromaca e Troiane .
[9] Di Samotracia (215-144 ca.) convinto dell’origine ateniese di Omero, tendeva ad atticizzare il testo e si oppose ai separatisti attribuendo l’Iliade alla gioventù del poeta e l’Odissea alla sua vecchiaia. Aristarco corredò la sua edizione critica di segni marginali che completano quelli già usati dai curatori precedenti. Tra questi segni “diacritici”, che si trovano in un codice della biblioteca Marciana di Venezia, “un manoscritto pergamenaceo del decimo secolo, e dei più importanti della tradizione medievale di Omero” (C. Del Grande, Storia della Letteratura Greca , p. 45,) segnalo, per curiosità e anche perché, data la loro evidenza, si possono ricordare, l’ojbelov”, lo spiedo, ossia un trattino, che “infilzava” il verso spurio; l’ajsterivsko” , la stelluccia, che segnalava un verso ripetuto; e l’ojbelov” met& ajsterivskou , lo spiedo con stelluccia davanti a ripetizione abusiva. Come gli altri filologi alessandrini Aristarco era fautore dell’analogia, la quale vuole individuare norme e regole nell’uso della lingua; inoltre asseriva che bisognava spiegare Omero con Omero ( ” JvOmhron ejx JOmhvrou safhnivzein”, cfr. Schol. B a Z 201).
[10] Umano troppo umano , (vol.2, p.211)
[11] Iliade , IX, 443.
[12] Anche in Iliade, XXII, 105.
[13] E. Dodds, I greci e l’irrazionale , p. 30.
[14] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 30 e sgg.
[15] Cfr. Odissea , XI, vv. 488-491.
[16] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 33.
[17] Avvenuta nel 146 a. C.
[18] Iliade , IX, 319
[19] Iliade , I, 505
[20] Iliade , I, 507
[21] h 71-74.
[22] Per il suggerimento di Nausicaa, v. z 310-315. Cfr. h 142 sgg. Anche Atena parla a Ulisse della riverenza di Alcinoo e dei suoi figli per Arete: h 66-70.
[23] a 330 ss.; p 409-451; s 158; f 63 ss.
[24] La casa, il bove e la moglie sono i tre elementi fondamentali della vita del contadino in Esiodo, Opp. 405 ( citato da Aristotele, Pol. I 2, 1252 b 10, nella sua famosa trattazione economica). In tutta la sua opera Esiodo considera l’esistenza della donna da un punto di vista economico, non solo nella sua versione della storia di Pandora, con cui vuole spiegare l’origine del lavoro e della fatica tra i mortali, ma anche nei precetti sull’amore, il corteggiamento e il matrimonio (ib. 373, 695 ss.; Theog. 590-612).
[25] Il “medio evo” greco, mostra, più chiaramente che altrove, il proprio interesse a questo lato del problema nella abbondante produzione poetica in forma di catalogo dedicata alle genealogie eroiche delle antiche famiglie, e più di tutto nei cataloghi di eroine famose, da cui quelle derivavano, del tipo delle jHoi’ai, giunteci col nome di Esiodo.
[26] Jaeger, Paideia 1, pp. 63-64.
[27] Plutarco, Vita di Temistocle, 18.
[28] Boccaccio, Decameron, V, 9.
[29] Palazzi Vaticani, Stanza “della Segnatura”, 1509-1511.
[30] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (del 1880), p. 709.
[31] M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 178.
[32] Enten-Eller (Aut-Aut) , Validità estetica del matrimonio , trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 163 del Tomo Quarto.
[33] Una vita , p. 208.
[34] Della Frigia.
[35] J. Joyce, Ulisse , trad. it. Mondadori, Milano, 1975, p. 803.
[36] Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p. 88.
[37] I vv. 180-185 son stati spesso espunti sull’esempio del Bekker che, col suo senso piccolo-borghese delle convenienze, non voleva attribuire a Odisseo “un’impertinenza così indiscreta, così imprudente” (Homerische Blätter , 2, pp; 55 sgg.).
[38] Segue la traduzione dei vv. 180-185 fino a eujmenevth/si.
[39] Bruno Snell, Poesia e società , trad. it. Laterza, Bari, 1971, pp. 33-34.
[40] La sera del dì di festa, v. 15; e, poco più avanti:”non io, non già, ch’io speri,/al pensier ti ricorro” (vv. 20-21).
[41] Ulisse , pp. 511-512.
[42] Ulisse , p. 521.
[43] Ulisse , pp. 581-582.
[44] Ulisse, p. 842.
[45] Messo insieme tra la fine del V secolo e gli inizi del IV a. C.
[46] Ippocrate visse tra il 460/450 e il 380 a. C. circa.
[47] S. Mazzarino (Il pensiero storico classico , I, p. 161.
[48] J. P. Vernant, Tra mito e politica , pp. 210-211.
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