Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
Casa Orlandi era tutta sossopra. La contessina Bice spegnevasi lentamente: di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell’inferma, aspettava la visita del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell’accento carezzevole, e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei malati gravi. Tristi colloqui che celavano sotto una calma apparente la preoccupazione di un morbo fatale, ereditario nella famiglia, il quale aveva minacciato la contessa medesima dopo la nascita di Bice – il ricordo delle cure inquiete e trepide che avevano accompagnato l’infanzia delicata della bambina – l’ansia dei presentimenti minacciosi che avevano quasi soffocato la maternità della genitrice e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane, di un male da decrepito, dopo avere agonizzato degli anni su di una poltrona. Più tardi un altro sentimento aveva fatto rifiorire la giovinezza della vedova, appassita anzi tempo fra quella culla minacciata, e quello sposo di già cadavere prima di scendere nella tomba: un affetto profondo e occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane e sembrava vivere di esse, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, quasi una delicata voluttà che profumava ogni cosa, una festa, un trionfo di donna elegante. Adesso quell’altra nube paurosa, sorta a un tratto colla malattia della figlia in quel cielo azzurro, sembrava posare simile a una gramaglia sui cortinaggi pesanti del letto dell’inferma, e distendersi sino a incontrare degli altri giorni neri: la lunga agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quello stesso medico ch’era venuto quell’altra volta, il tic-tac di quella stessa pendola che aveva segnato delle ore d’agonia, e riempiva ora tutta la camera, tutta la casa, di un’aspettativa lugubre. Le parole della madre e della figliuola, che volevano sembrar gaie e tranquille, morivano come un sospiro nella penombra della vòlta altissima.
A un tratto il campanello elettrico squillò nella lunga fila di stanze sfavillanti e deserte. Un servitore silenzioso precedeva in punta di piedi il medico, vecchio amico di casa, il quale sembrava solo calmo, nell’attesa inquieta di tutti. La contessa si rizzò in piedi, senza poter dissimulare un tremito nervoso.
– Buona sera. Un po’ tardi oggi… Finisco adesso il mio giro. E questa ragazza com’è stata? –
S’era seduto di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola dal lume, ed esaminava l’inferma tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla, ripetendo le solite domande. La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice, con monosillabi tronchi e fiochi, sempre fissando il medico con quegli occhi inquieti e lucenti. Nell’anticamera si succedevano gli squilli sommessi del campanello che annunziavano altre visite, e la cameriera entrava come un’ombra per annunziare all’orecchio della signora il nome degli amici intimi che venivano a chieder notizie della contessina.
A un certo momento il dottore rizzò il capo.
– Chi è entrato adesso nella sala accanto? – domandò con una certa vivacità.
– Il marchese Danei, – rispose la contessa.
– La solita pozione per questa notte, – continuò il medico quasi avesse dimenticato la sua domanda. – Bisogna osservare a che ora cadrà la febbre. Del resto, nulla di nuovo. Diamo tempo alla cura… –
Ma non lasciava il polso dell’inferma, fissando uno sguardo penetrante sulla fanciulla, la quale aveva chinato gli occhi. La madre aspettava ansiosa.
Un istante le pupille ardenti della figlia si fissarono in quelle di lei, e Bice avvampò subitamente in viso.
– Per carità, dottore! per carità! – supplicava la contessa, riaccompagnando il medico, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in sala chiacchierando fra di loro sottovoce. – Come ha trovato stasera la mia ragazza? Mi dica la verità!
– Nulla di nuovo, – rispondeva lui. – La solita febbriciattola… il solito squilibrio nervoso… –
Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
– La sua figliuola è innamorata di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba. Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
– E’ un po’ di tempo che lo sospettavo, – riprese il medico con certa rude franchezza. – Ora ne son certo. E’ una complicazione nella malattia, che per la estrema sensibilità dell’inferma, in questo momento, può farsi grave. Bisogna pensarci.
– Lui! – fu la prima parola che sfuggì alla madre, quasi fuori di sé.
– Sì, il polso me l’ha detto. Lei non aveva alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
– Mai!… Bice è così timida… così…
– Il marchese Danei viene spesso in casa? –
La poveretta, sotto lo sguardo fisso e penetrante di quell’uomo che assumeva l’importanza di un giudice, balbettò:
– Sì.
– Noi altri medici alle volte abbiamo cura d’anime, – aggiunse il dottore sorridendo. – Forse è stata una fortuna che quel signore sia venuto mentre io ero qui.
– Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l’amor di Dio!…
– No… secondo i casi. Buona sera -.
La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto il freddo sudore che le bagnava le tempie. Quindi ripassò per la sala, rapidamente, salutando gli amici con un cenno del capo, guardando appena Danei, ch’era in un canto, nel crocchio degli intimi.
– Bice!… figlia mia!… Il medico t’ha trovata meglio oggi, sai!
– Sì, mamma! – rispose la fanciulla dolcemente, con quell’amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore.
– Di là ci sono degli amici… che sono venuti per te… Vuoi vederli?
– Chi sono?
– Ma tutti. La zia, Augusta… il signor Danei… Possono entrare un momentino? –
Bice chiuse gli occhi, come assai stanca, e nell’ombra, così pallida com’era, si vide lieve rossore montarle alle guance.
– No, mamma. Non voglio veder nessuno -.
Attraverso le palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo desolato e penetrante della madre. All’improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia esili e tremanti sotto la battista, con un atto ineffabile di confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si tennero abbracciate a lungo, senza dire una parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che chiedevano premurosi notizie dell’inferma, la contessa rispondeva come al solito, ritta in mezzo alla sala, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro. Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia Danei e lei.
Tante volte, durante la malattia di Bice, erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, nel vano della finestra, scambiando qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava i loro pensieri e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa. Momenti tristi e cari, nei quali essa attingeva il coraggio e la forza di rientrare nell’atmosfera cupa e lugubre di quella stanza d’inferma con un sorriso d’incoraggiamento. Stettero alquanto senza aprir bocca, colla fronte sulla mano. La contessa aveva tale espressione di tristezza in tutta la persona, che Danei non trovava la parola da dirle. Finalmente le tese la mano. Ella ritirò la sua.
– Sentite, Roberto… Ho da dirvi una cosa… una cosa da cui dipende la vita di mia figlia… –
Egli aspettava, serio, un po’ inquieto.
– Bice vi ama!… –
Danei parve sbalordito, guardando la contessa che si era nascosto il viso fra le mani, e piangeva dirottamente.
– Essa!… E’ impossibile!… Pensateci bene!…
– No… E’ un’idea che m’ha fatto nascere il suo medico… Ed ora ne son certa. Vi ama da morirne…
– Vi giuro!… Vi giuro che…
– Lo so, vi credo. Non ho bisogno di cercare perché mia figlia vi ami, Roberto! – esclamò la madre tristamente.
E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui. Tentò di pigliarle la mano un’altra volta. Ella la respinse dolcemente.
– Anna!…
– No… no! – rispose lei risolutamente.
E le lagrime silenziose parevano che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di gastigo che sopravvenivano tutt’a un tratto nella sua esistenza spensierata. Il silenzio sembrava insormontabile. Infine Roberto mormorò:
– Cosa volete che faccia?… dite… –
Essa lo guardò smarrita, con un’angoscia indicibile, e balbettò:
– Non so!… non so… Lasciatemi tornar da lei… Lasciatemi sola… –
Come rientrava nella camera dell’inferma, dall’ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicarono ardenti, fissi su di lei, con un lampo incosciente che agghiacciò la madre sulla soglia.
– Mamma, – chiese Bice, – chi c’è ancora?
– Nessuno, figlia mia.
– Ah!… Statti con me, allora. Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
– Povera bambina! Povero amore! Guarirai presto, sai! L’ha detto il medico.
– Sì, mamma.
– E… e… sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo.
– Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri nelle orbite incavate. Successe un mortale silenzio. La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda.
A un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un’altra voce:
– Bice! –
Il suo petto si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro. Poscia si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell’altra guancia scarna, e le mormorò nell’orecchio, con un soffio appena intelligibile:
– Senti, Bice… tu ami?… –
Bice spalancò gli occhi all’improvviso, tutta una fiamma in volto. E con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, affascinati dagli occhi lagrimosi della madre, balbettò con un accento ineffabile d’amarezza, e quasi di rimprovero:
– Oh mamma!… –
Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all’intimo del cuore, ebbe il coraggio di aggiungere:
– Danei ha chiesto la tua mano.
– Oh mamma! oh mamma! – ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un senso di pudore. – Mamma mia!… –
La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento dell’agonia, balbettò:
– Però… se tu non l’ami… se non l’ami… di’!… –
L’inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, che interrogavano gli occhi della madre. Tutt’a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l’abbracciò stretta, tremando a verga, stringendola con tutta la forza delle sue povere braccia, con un’effusione che diceva tutto.
La madre, in un impeto d’amore disperato, singhiozzava:
– Guarirai! Guarirai! –
E tremava convulsivamente ancor essa.
Il giorno dopo la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano esangui, cogli occhi fissi sulla fiamma. Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi passavano dinanzi a quelli occhi! La prima volta che si era turbata al cospetto di Roberto – il silenzio ch’era caduto all’improvviso fra di loro – e le prime parole d’affetto che egli le aveva sussurrato all’orecchio, abbassando la voce ed il capo – il batticuore delizioso che soleva imporporarle le gote ed il seno, quando egli l’aspettava nel vestibolo dell’Apollo, per vederla passare, bella, fine, elegante, nella mantellina di raso bianco. – Poscia, le lunghe fantasticherie color di rosa, in quel posto medesimo, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la lezione di musica o di disegno. Ora, allo squillare del campanello, si rizzò con un tremito nervoso; e immediatamente, mercé uno sforzo della volontà, tornò a sedere, colle mani in croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante sull’uscio. Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo. Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, la contessa rispose dopo un breve silenzio:
– La sua vita è nelle vostre mani.
– Per l’amor di Dio, Anna!… v’ingannate!… – rispose lui. – Bice s’inganna… Non può essere… non può essere!… –
La contessa scosse il capo tristamente.
– No, non m’inganno! Me l’ha confessato lei… Il dottore dice che la sua guarigione dipende… da ciò!…
– Da che cosa?…
Per tutta risposta ella gli fissò negli occhi gli occhi arsi di febbre. Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
– Oh!… no!… –
Ella giunse le mani.
– No. Anna! pensateci bene… Non può essere… V’ingannate… – ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce in gola. Poi stese le mani a Roberto, senza dir nulla come nei bei tempi trascorsi. Soltanto, quel viso che gli esprimeva uno spasimo d’angoscia e una preghiera straziante, era diventato tutt’altro in ventiquattr’ore.
Roberto chinò il capo al pari di lei.
Erano entrambi due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di esser sinceri in ogni loro atto. Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un risultato che rovesciava bruscamente tutta la loro logica, e ne mostrava la falsità. La rivelazione della contessa aveva colpito Danei di stupore. Adesso, ripensandoci, ne era spaventato; e in quel contrasto d’affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, egli trovavasi imbarazzato. Parlò di loro due, del passato, dell’avvenire che gli faceva paura; cercando le frasi e le parole onde scivolare sui tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi.
– Pensateci bene, Anna! Questo matrimonio è impossibile! –
Essa non sapeva che dire. Balbettava solo: – Mia figlia! mia figlia! –
– Ebbene… Volete che io parta… che mi allontani per sempre!… Sapete qual sacrifizio farei!… Ebbene, lo volete?
– Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d’affrontare l’ultimo argomento. Poi mormorò abbassando la voce:
– Allora… allora non resta che confessarle ogni cosa… –
La madre s’irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E rispose con voce sorda, chinando il capo:
– Lo sa!… Lo sospetta!…
– E nondimeno?… – riprese Danei dopo un breve silenzio.
– Ne sarebbe morta… Le ho fatto credere che s’ingannava.
– E lo ha creduto?
– Oh! – esclamò la contessa con un triste sorriso. – L’amore è credulo… Lo ha creduto!
– E voi! – chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce.
– Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e soggiunse:
– Sentite com’è calma?
– Siete certa che sarà sempre così calma?
Ella rispose:
– Sempre! –
E sentì freddo nella nuca, alla radice del capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto.
– Ascoltate, Roberto, ora è la madre che vi abbraccia! Anna è morta. Pensate a mia figlia; amatela per me e per essa. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità la farà rifiorire. Voi l’amerete come non avete mai amato… Dimenticherete ogni cosa… siate tranquillo! –
Roberto, pallidissimo, non rispose verbo.
Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che essa entrò in convalescenza. Amici e parenti venivano a congratularsi nello stesso tempo dei due fortunati avvenimenti. Il marchese Danei era uno sposo convenientissimo, e se qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni – o altro – fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevavano scandolezzate. La fanciulla risanava davvero, raggiante di vita nuova, colla sincerità, la credulità, l’oblio, l’egoismo della felicità, che espandeva nel seno della madre, la quale trovava la forza di sorriderle. Il medico si fregava le mani, borbottando:
– Io non ci ho alcun merito. Fo come Pilato. Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza. Adesso ecco le mie prescrizioni: – Recipe: L’inverno a San Remo o a Napoli. L’estate a Pegli o a Livorno. Una scappata a Roma, nel carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -.
La contessa, alla figliuola che avrebbe voluto condurla seco, aveva risposto:
– No. Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio. Tutta la mia pretesa è che siate felici -.
E sorrideva agli sposi, col suo sorriso un po’ triste. La figliuola, a volte, aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre. A quelle parole, senza saper perché, l’abbracciava ogni volta strettamente, nascondendole il viso in seno.
La contessa aveva detto che quella sarebbe stata l’ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate mostraronsi realmente un’ultima volta allo sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi e affollate d’amici e parenti come nei giorni più tristi in cui erano venuti a chieder notizie della Bice. Roberto, allorché baciò la mano della contessa, non poté dissimulare un certo turbamento. Poscia quando l’ultima carrozza fu partita, e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé del marchese, e la carretta inglese che portava alla stazione il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d’abito, rimasti soli un momento, la contessa e Roberto:
– Fatela felice! – disse lei.
Danei era nervoso; abbottonava macchinalmente il soprabito da viaggio e tornava a cavarsi i guanti. Non disse nulla.
Madre e figlia s’abbracciarono teneramente, a lungo. Infine la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo:
– E’ tardi. Perderete il treno. Andate, andate! –
La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell’inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico. Costui, onde non spaventarla, la sgridava, perché essa soleva passare la mattinata in chiesa – a salvarsi l’anima e perdere il corpo – diceva lui. Il buon uomo pigliava la cosa leggermente, per rassicurarla, ma in realtà era inquieto, e ingannandosi a vicenda con una finta gaiezza, pensavano entrambi a una minaccia più grave. Bice scriveva che stava bene, che si divertiva tanto, che era tanto felice, e più tardi accennò anche vagamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima che finisse l’anno.
La contessa telegrafò di non farne nulla, di aspettare l’avvenimento là dove si trovavano, protestando che temeva per la figliuola lo strapazzo del viaggio. Piuttosto sarebbe andata lei stessa a raggiungerli. Però non andava mai, cercando mille pretesti, differendo di giorno in giorno quel viaggio, quasi le pesasse. I telegrammi si succedevano. Infine Roberto ebbe un dispaccio: – Arrivo stasera -.
La prima persona che Anna vide sul marciapiedi della stazione, giungendo, fu Roberto che l’aspettava, solo. Ella si premeva con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro. Il marchese le baciò la mano, sul guanto, e le diede il braccio, mentr’essa balbettava:
– Bice?… Come sta? –
Fuori era fermo il piccolo coupé del marchese, col servitore accanto allo sportello. Ella esitò un istante, al momento di montare insieme a lui. Poi si strinse nel suo cantuccio, chiusa nella pelliccia, col velo sul viso.
– Bice sta bene, – rispondeva lui, -…per quanto è possibile… Sarà tanto contenta! – Sembrava che cercasse le parole, col viso rivolto allo sportello, impaziente d’arrivare. Sfilavano le case e le botteghe illuminate. A un tratto successe l’oscurità, nell’attraversare una piazza. Tutti e due istintivamente, si scostarono e tacquero.
Bice era corsa ad incontrare la madre, e le si buttò al collo con un diluvio di carezze e di parole sconnesse. Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale. La contessa veniva dopo, un po’ stanca anch’essa, soffocata dalla pelliccia greve.
Allorché furono nel salotto, in piena luce, ella fu colpita dall’aspetto di Bice, dalla sua veste da camera larghissima, dalle mani venate d’azzurro, posate sui bracciuoli della poltrona dove s’era lasciata cadere come sfinita, ma raggiante di una serena felicità. Roberto si chinava per parlarle nell’orecchio. Senza avvedersene si appartavano entrambi spesso e volentieri, discorrendo sottovoce fra di loro, presso la fiamma del caminetto che li colorava di un’aureola rosata, lontani dal mondo, lontani da tutti, dimenticando ogni cosa…
Dopo il primo sbigottimento di quella sera, la contessa sembrava più calma. Allorché trovavasi sola con Roberto, e lui parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona, accanto al fuoco che lumeggiava d’azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo.
Però un nube sembrava sorgere fra madre e figlia, nell’intimità della famiglia: una freddezza incresciosa e insormontabile che agghiacciava le affettuose espansioni: un imbarazzo che rendeva moleste le premure di Roberto per l’una o per l’altra, e spesso anche la presenza fra di loro – come un’ombra del passato che offuscava gli occhi della figlia, che faceva impallidire la madre, che turbava anche Roberto, di tanto in tanto. Una sfumatura d’amarezza accennavasi a volte nelle parole più semplici, nei sorrisi che si evitavano, negli sguardi che si cercavano sospettosi.
Una sera che Bice s’era ritirata prima del solito, e Roberto era rimasto nel salotto insieme alla contessa, per farle compagnia, il silenzio piombò all’improvviso, quasi minaccioso. Anna stava a capo chino, dinanzi al fuoco che spegnevasi, presa da un brivido, tratto tratto, e il lume posato sul caminetto le accendeva dei riflessi dorati alla radice dei capelli, sulla nuca che sembrava accendersi anch’essa di fiamme vaghe. Come Roberto si chinò a prender le molle, essa trasalì vivamente, e si alzò di scatto per augurargli la buona notte, accusando un po’ di stanchezza. Il marchese l’accompagnò sino all’uscio, in preda anche lui a un vago turbamento. In quella apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono, e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato. Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, chiese:
– Che hai, Bice?
– Nulla… Non potevo dormire… Che ora è?
– Non è tardi. Tua madre stava per ritirarsi… dice di sentirsi stanca…
– Ah, – rispose Bice. – Ah… – E non disse altro.
Anna, ancora tremante, balbettò con un triste sorriso:
– Sì… sono stanca.. Alla mia età… figliuoli miei!…
– Ah, – ripeté Bice.
Allora la madre, facendosi pallida come una morta, come soffocata da un’angoscia ineffabile, aggiunse con quello stesso sorriso doloroso:
– Non mi credete?… Non mi credi, Bice?… –
E rialzando alquanto i capelli sulle tempie, mostrò che quelli di sotto erano tutti bianchi.
– Oh… E’ un pezzo… tanto tempo!… –
Bice, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir altro. E le mani della madre sentirono che tremava tutta quanta, ancor essa. Roberto, il quale sembrava sulle spine, s’era levato per andarsene, quasi vedesse di esser di troppo fra quelle due donne, e nell’istante in cui i suoi occhi s’incontrarono in quelli di Anna, arrossò, e parve divampare in quell’istante un ricordo del passato.
La contessa Anna passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Come erano mutati! Quando egli le dava il braccio per andare a tavola, quando la figliuola le diceva – Mamma! – senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! – Dimenticherete, siate tranquillo! – ella aveva detto a Roberto. E non avevano dimenticato del tutto, né l’uno né l’altra!…
Chiudeva gli occhi e rabbrividiva a quel pensiero… Qualche volta, all’improvviso, la sorprendevano anche degli impeti di collera, di un’altra gelosia pazza. Le aveva rubato perfino il cuore di sua figlia, colui! Tutto le aveva tolto quell’uomo!
Una sera si udì un gran trambusto per la casa. Cocchieri e servitori erano stati spediti in fretta; il medico e un’altra donna erano giunti premurosi, ed erano entrati subito nella camera di Bice. E nessuno era venuto a cercare di lei, sua figlia stessa non la voleva al suo capezzale, in quel momento. – No, nessuno aveva dimenticato! – Quand’egli venne ad annunziarle la nascita della sua nipotina, quell’uomo!… Quando lo vide così commosso e raggiante… – Non l’aveva mai visto così! – Quando lo vide al capezzale di Bice, che era supina sul letto, come fosse già morta, con una lagrima di tenerezza per lui soltanto negli occhi socchiusi… degli occhi che non cercavano che lui!… Allora sentì un odio implacabile contro quell’uomo che accarezzava la sua figliuola dinanzi a lei, e a cui Bice soltanto sorrideva, anche in quel punto.
Come misero il suo nome alla neonata, ed essa la tenne al battesimo, disse sorridendo: – Ora posso morire -.
Bice andava rimettendosi lentamente. Però il suo organismo delicato vibrava ancora. Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti d’irritazione sorda e irragionevole, degli scoramenti improvvisi, quasi tutti l’abbandonassero. Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con accento indescrivibile:
– Dove sei stato? – Dove vai? – Perché mi lasci sola? –
Ogni cosa la feriva; sembrava ingelosirsi anche di quel resto di eleganza ch’era sopravvissuto nella madre sua. Era arrivata a dirle, cercando di dissimulare la febbre che le si accendeva suo malgrado negli occhi: – Quando partirai? –
La madre chinò il capo, quasi sotto il peso di un gastigo inevitabile.
Ma Bice tornava poi in sé, e pareva chiedere perdono a tutti colle sue parole e le sue carezze affettuose. Appena incominciò ad alzarsi da letto, la contessa fissò il giorno della partenza. Nel lasciarsi, madre e figlia, alla stazione, erano commosse entrambe, abbracciandosi senza dire una parola, all’ultimo momento, quasi dovessero lasciarsi per sempre.
La contessa giunse tardi a casa sua, di sera, affranta, intirizzita dal freddo. La casa vuota e deserta era fredda ancor essa, malgrado il gran fuoco acceso, malgrado le lumiere solitarie, nelle stanze malinconiche.
La salute della contessa Anna declinò rapidamente. Da prima ne accusò la stanchezza del viaggio, le commozioni, la stagione rigida. Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, e il medico tornò a visitarla tutti i giorni.
– Non è nulla – ripeteva lei. – Oggi mi sento meglio. Domani m’alzerò -.
Alla figliuola scriveva regolarmente, senza accennare però alla gravità del male che l’uccideva. Verso il principio dell’autunno parve migliorare davvero. Ma a un tratto peggiorò in guisa che i familiari si credettero obbligati a telegrafare al marchese.
Roberto giunse il giorno dopo, spaventato.
– Bice non sta bene, – disse al dottore che l’aspettava. – Sono inquieto anche per lei. Non sa nulla… Ho temuto che la notizia… l’agitazione… il viaggio…
– Ha ragione… Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi… E’ una malattia gentilizia, pur troppo!… Io stesso non avrei preso su di me tale responsabilità… E se non fosse stata la gravità del caso…
– Molto grave? – chiese Roberto.
Il dottore scosse il capo.
L’inferma, appena le annunziarono la visita del genero, entrò in una grande agitazione.
– E Bice? – chiese appena lo vide. – Perché non è venuta?
Egli balbettava, quasi pallido quanto lei, sentendosi anch’esso un sudore freddo alla radice dei capelli.
– Siete stato voi… a dirle che non venisse?… – seguitava lei colla voce tronca e soffocata.
Egli non le aveva mai udito quella voce, né visto quegli occhi. Una donna, china sul capezzale, sforzavasi di calmare l’inferma. Infine essa tacque, abbassando le palpebre, stringendo forte le mani sul petto.
Volle confessarsi la sera stessa. Dopo che si fu comunicata fece chiamare di nuovo il genero, e gli strinse la mano, quasi per chiedergli perdono.
Nella stanza vagava l’odore dell’incenso – l’odore della morte; soffocato di tratto in tratto da un odore più acuto di etere, penetrante, che pigliava alla gola. Delle ombre livide sembravano errare sul volto della moribonda.
– Ditele… – balbettò la poveretta. – Dite a mia figlia… –
L’affanno la vinceva, soffocandole le parole nella strozza, facendole stralunare gli occhi deliranti. Allora accennò che non poteva più, con un moto del capo desolato.
Di tanto in tanto bisognava sollevare di peso sui guanciali quel povero corpo consunto, nell’angoscia suprema dell’agonia. Ella però faceva segno che Roberto non la toccasse. Le si erano quasi sciolti i capelli, tutti bianchi.
– No… no… – furono le ultime sue parole che si udirono gorgogliare indistinte. Giunse le mani per chiudere la battista che le si era aperta sul petto, e così passò, colle mani in croce.