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22 Marzo 2011L’articolo seguente del sociologo francese Dubet, pubblicato sul sito dell’ADI (Associazione Docenti Italiani ) conferma che anche in Francia è sempre più diffusa la professione dello studente, come da noi affermato nel precedente articolo:
Basta con la professione dello studente
“Gioventù sacrificata o imprigionata in una scolarizzazione troppo lunga?
ADI – 18 marzo 2011
Proponiamo questo articolo del grande sociologo francese François Dubet, che è stato uno dei relatori al nostro ultimo seminario internazionale, “Il dito e la luna” , del 25 e 26 febbraio u.s .
La tesi di Dubet, sostenuta da comparazioni internazionali, è che le disuguaglianze sociali risultano tanto più forti quanto più i diplomi giocano un ruolo decisivo nell’accesso all’impiego.
E’ dunque sbagliato ed illusorio pensare che il merito scolastico possa o addirittura debba mitigare le differenze sociali e che una scuola che ridia credibilità ai suoi esiti non sia un elemento di equità sociale che ridimensioni il potere dei clan e dei legami familistici?
E ancora. La situazione francese descritta da Dubet è paragonabile a quella italiana?
Cosa ha a che fare tutto questo con il valore legale dei titoli di studio?
Sollecitiamo interventi e confronti su questo importantissimo tema.
Articolo del sociologo François Dubet
(Traduzione dell’articolo tratto da LE MONDE del 17-03-2011)
François Dubet
Non si può dire con certezza che la società francese abbia “sacrificato” i giovani per proteggere le generazioni più vecchie. E’ invece vero che i giovani francesi sono schiacciati sotto il peso di un’eccessiva scolarizzazione, che assegna alla sola scuola il monopolio della definizione e della valutazione del merito degli individui. Con il pretesto che gli itinerari formativi lunghi sono utili ai soggetti e fanno bene alla società, sembriamo ignorare che l’utilità individuale degli studi è profondamente diseguale.
Il peso di questo ruolo della scuola è così forte che ormai tutti crediamo che coloro che non hanno meriti scolastici non possono assolutamente possedere buone competenze,dal momento che la scuola non gliele riconosce. Come avere fiducia in se stessi, nella società e negli altri quando ciò che valiamo è ridotto alla valutazione che ne fa la scuola e dunque, quando si è tanto spesso indegni degli ideali propugnati dalla scuola?
Più gli individui possiedono titoli di studio elevati e più occupano posti di lavoro qualificati e ben pagati; da questo punto di vista, ciascuno ha dunque interesse a fare studi che siano i più lunghi possibile.
Tuttavia il ruolo giocato dai diplomi nella determinazione del reddito di ciascuno, è estremamente variabile. Per dirla semplicemente, il diploma è un titolo forte e redditizio per quegli allievi che sono usciti dagli indirizzi più selettivi e più prestigiosi.
In Francia, alcuni titoli di studio rappresentano una sorta di rendita, e si comprende bene perché le scuole che li distribuiscono non intendano assolutamente aprirsi. Ma in un mercato del lavoro relativamente chiuso, il grande valore di certi diplomi fa il paio con il bassissimo valore e utilità di altri diplomi che sono collocati all’altro capo della gerarchia scolastica.
Contestualmente, entro questi due poli estremi della gerarchia scolastica, si è inserito un meccanismo di svalutazione dei diplomi, dal momento che si richiedono studi sempre più lunghi per ottenere il livello professionale richiesto e , ancor più, un ondeggiare continuo e angosciante fra diversi percorsi di formazione da parte di quegli studenti che non hanno fatto scelte di studi professionalmente redditizie. Questi studenti sono particolarmente pessimisti e lo gridano ostinatamente nelle mobilitazioni e negli scioperi che agitano regolarmente le università di massa che offrono formazioni generaliste con debolissimi agganci con gli impieghi disponibili.
Le comparazioni internazionali indicano che le disuguaglianze sociali risultano tanto più forti quanto più i diplomi giocano un ruolo decisivo nell’accesso all’impiego e quanto più gli alunni e le loro famiglie pensano che la scuola sia determinante per l’ingresso nel lavoro. Tutto questo è facile da capire: se si pensa che tutto si gioca a scuola, allora bisogna scegliere le strategie più selettive che conducono ai profili e alle formazioni più redditizie. Quindi, al di là delle ideologie egualitaristiche, tutto ciò che all’interno della scuola divide va bene. In questo gioco, ci guadagnano le famiglie già privilegiate e si rafforza la riproduzione sociale entro le generazioni. Quando si è convinti che sia giusto e che sia un bene che la scuola definisca il valore e il merito di ciascuno, predeterminando l’accesso all’impiego, è normale che si cerchi di rendere più marcate le differenze fra i concorrenti e che la scuola approfondisca le disuguaglianze
In questo contesto, il clima scolastico non è dei migliori: le relazioni tra i professori e gli alunni sono spesso tese, il sapere è a volte ridotto al suo uso selettivo, l’orientamento si fa sulle lacune più che sulle attitudini e i disordini scolastici non sono quisquilie… Una gran parte degli allievi scopre velocemente che la regola secondo cui è utile e necessario prendere il diploma non varrà per loro e, peggio ancora, che essa finirà per bollarli come individui che non hanno né competenze né merito.
I sondaggi e le inchieste d’opinione non ci danno misure incontrovertibili del “morale” dei giovani, ma da parecchi anni, mostrano sistematicamente che i giovani francesi sono molto più pessimisti della maggior parte dei loro compagni europei, senza che il tasso di disoccupazione e il livello di vita sia sufficiente a spiegare questa mancanza di speranza. I giovani francesi non sono abbandonati, come si dice a volte. Sono piuttosto chiusi entro un meccanismo che si basa sulla certezza che non ci può essere salvezza fuori dalla scuola e che la scuola salverà soltanto i bravi allievi. Gli altri si sentono minacciati e tanto più insofferenti per il fatto che la nostra società non sembra capace di offrire alternative serie diverse dal solo successo scolastico. E ancora. Ai giovani dei “quartieri difficili” non si propone nient’altro che aiutare i più meritevoli di loro, quelli che vanno bene a scuola. Gli altri comprendono ben presto che hanno perduto la gara in partenza.
Il pessimismo, l’amarezza e a volte la rabbia dei giovani francesi si spiegano forse con la scelta di garantire le generazioni fortunate degli anni dello sviluppo. Ma si spiegano ancor di più con percorsi di istruzione per l’accesso al lavoro che sono eccessivamente lunghi. Quanto più i percorsi scolastici si allungano e devono essere “perfezionati” per essere utili, tanto più accentuano la concorrenza tra le filiere formative e tra gli individui. E soprattutto quelli che non riescono negli studi finiscono per persuadersi che per loro non c’è posto nella società.
Non si può dire che la gioventù francese sia sacrificata, essa è piuttosto imprigionata entro una promessa di salvezza legata alla sola scuola, e in quanto tale complessivamente insostenibile.
Si dovrebbe dunque innalzare il livello della formazione senza prolungare il percorso degli studi, senza allontanare l’ingresso nella vita attiva.
François Dubet, sociologo”
Articolo originale:
Gioventù sacrificata o imprigionata in una scolarizzazione troppo lunga?