Vita di Galileo
27 Gennaio 2019ATTO QUARTO
27 Gennaio 2019Elettra di Gabriele D’Annunzio
Libro Secondo delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi
ELETTRA
Alle montagne
Candide cime, grandi nel cielo forme solenni
cui le nubi notturne
stanno sommesse come la gregge al pastore, ed i Vegli
inclinati su l’urne
profonde dànno eterne parole, e fanno corona
le stelle taciturne;
o Montagne, terribili dòmi abitati da Dio,
ove gli anacoreti
d’un tempo immemorabile per sola virtù di dolore
conobbero i segreti
del Mondo e nelle rocce co’ i cavi occhi lessero come
in libri di profeti;
Montagne madri, sacre scaturigini delle Forze
pure, quando non era
l’Uomo; donde gioiosa alla cieca tenebra sparsa
balzò l’alba primiera
e alle vergini valli guidando le forme dei fiumi
scese la Primavera;
donde scesero stirpi umane d’oltrepossente
vita, giù per aperte
vie più vaste de’ fiumi, stampando titaniche orme
nella pianura inerte
che fumigava umida al sole purpureo, pregna
delle future offerte;
o Montagne immortali, non parla nel sacro silenzio
delle cose ignorate
il vostro Spirto? Ascolta l’anima mia se non giunga
un messaggio. Deh fate,
o Montagne immortali, che scenda dai vostri misteri
cinto di luce il Vate!
La speranza e la gioia fuggirono lungi dai cuori
umani; e tutti i sogni
della bellezza e tutti i sogni dell’arte felice
vanirono; e stringe ogni
cuore un’arida angoscia; e rugge d’intorno la guerra
degli atroci bisogni.
Chi finalmente, sceso a noi dalle alture inaccesse,
ricondurrà la gioia?
Chi su la vasta fronte avrà, mai veduta possanza,
una luce di gioia?
O tu dalle Montagne purissime, Spirito ignoto,
scendi con la tua gioia!
Dai culmini virginei che splendono sotto le stelle
pie, dalle inesplorate
sedi ove le sorgenti perenni cantano inconsce
della superna estate,
dalle vene incorrotte dei geli, dal sacro silenzio
delle cose ignorate,
da tutta la grandezza venerabile delle Montagne
madri io t’evoco, o puro
Spirito senza nome, che l’occhio dell’anima vede
trascorrere l’oscuro
abisso dove tanto umano dolore si torce
e schiudere il Futuro!
A Dante
Oceano senza rive infinito d’intorno e oscuro
ma lampeggiante, e con un silenzio sotto i terribili tuoni
immoto ma vivente come il silenzio delle labbra
che parleranno:
tenebrore dei Tempi, profondità dell’affanno
umano, assidua mutazione delle cose, ritorno
perpetuo delle sorti:
oceano senza rive tra due poli, tra il Bene e il Male,
con le sue bave disperse dalla procella eternale,
co’ suoi abissi ingombri dalle spoglie dei popoli morti,
era il Destino;
e tu come una rupe, come un’isola montuosa,
come una solitudine di pensiero e di potenza,
come una taciturna mole di dolor meditabondo
che ode e vede,
sorgevi uno dal gorgo; e nell’ululo delle prede,
nel sibilo dei nembi, nel rombo delle correnti,
il tuo orecchio udiva
quel silenzio e la sola Parola che doveva esser detta;
e di sotto alla fronte percossa dalle schiume e dai v’ènti
il tuo occhio insonne vedeva infiammarsi il mondo
all’alta tua vendetta.
Allora, nei baleni e nell’ombre, lo spirito dell’uomo
stette davanti a te, ignudo, senza la sua carne,
senza le sue ossa, disvelato davanti alla scienza
del tuo dolore;
e nel cavo delle tue mani, che sapean l’arme e il fiore,
più mansuefatti degli augelli che la neve caccia
verso gli asili umani,
discesero i messaggi delle divine speranze,
i poteri sconosciuti delle verità divine;
e ti diede i suoi tuoni e i suoi raggi il tuo Dio, cui tu alzasti il canto
che non ha fine.
O nutrito in disparte su le cime del sacro monte,
abbeverato solo nell’albe al segreto fonte
delle cose immortali, Eroe primo di nostro sangue
rinnovellante;
oceanica mente ove dieci secoli atroci,
carichi d’oro d’ombra di strage di fede e di paura
metton lor foci
silenziosamente; anima vetusta e nuova,
instrutta e ignara, memore e indovina, ove si serra
tutto il pensier dei Saggi e palpitano il Fuoco l’Aria
l’Acqua e la Terra;
o Risvegliatore, o Purificatore, o Intercessore
per la vita e per la morte, o tu che cresci il vigore
della stirpe come il pane nato dal nostro sudore,
noi t’invochiamo;
o tu che col tuo canto disveli agli uomini i cammini
invisibili e discopri i vólti nascosti dei destini,
noi ti preghiamo;
o tu che risusciti l’antica virtù delle contrade
e tempri il medesimo ferro per la bontà delle spade
e per la gioia delle falci nelle profonde biade,
noi ti attendiamo;
perocché tu sii pur sempre atteso in prodigi, come il Figlio
del tuo Dio, dai cuori che nei battiti del tuo canto
appresero a sperare oltre il volo delle fortune,
o profeta in esiglio,
e pur sempre su le nuove tombe e su le nuove cune,
là dove un’opra si chiuse e là dove s’apre un germe,
suoni il tuo nome santo,
e il tuo nome pei forti sia come lo squillo degli oricalchi,
e solo il nomar del tuo nome, come il turbine agita i lembi
d’un gran vessillo, scuota nei suoi mari e nei suoi valchi
l’Italia inerme.
Dove sono i pontefici e gli imperatori? Splendenti
erano nella specie dell’oro, e stampavano con piedi
obliqui le vestigia sanguigne, vestiti dell’antica
frode, e i lor vestimenti
odoravano. Rotti come i sermenti addi, perduti
come i fuscelli nella tempesta, diffusi come crassa
cenere ai v’ènti.
E pallido il postremo alza le mani verso le porte
dei cieli e attende un segno, e chiama, e nulla appare fuor che la morte.
Ma il cuore della nazione è come la forza delle sorgenti
meraviglioso;
e tu rimani alzato nel conspetto della nazione
con la tua parola eterna nella tua bocca respirante,
col tuo potere eterno nel tuo pugno vivo; e la tua stagione
sta su la nostra terra
senza mutarsi; e la tua virtù è dentro le radici
di nostra vita come il sale è nel mare, come la fecondità
è nella nostra terra;
e nulla di te perisce nei tempi ma la tua passione,
ma il tuo furore, ma il tuo orgoglio e la tua fede e la tua pietà
e la tua estasi e tutta la tua grandezza dura nei tempi come
dura la nostra terra.
Tu la vedesti col tuo profetico onniveggente occhio infiammato
l’Italia bella, come una figura emersa dall’interno
abisso del tuo dolore, creata dalla tua stessa fiamma,
con i suoi monti,
con i suoi piani, con i suoi fiumi, con i suoi laghi,
con i suoi golfi, con le sue città ruggenti d’ire,
l’Italia bella;
e la tua rampogna la rifece sacra, la tua preghiera
fece risplendere di purità le sue membra schiave;
sì che sempre gli uomini vedran su lei bella il duplice splendore
del cielo e del tuo verbo.
Sol nel tuo verbo è per noi la luce, o Rivelatore,
sol nel tuo canto è per noi la forza, o Liberatore
sol nella tua melodia è la molt’anni lagrimata
pace, o Consolatore,
quando la cruda pena il veemente sdegno il duro spregio
si fanno eguali alle più dolci cose della foresta
primaverile
e la mano che torturò la carne immonda, che trattò la ghiaccia
e il fuoco, la pece e il piombo, gli sterpi e i serpi, il fango e il sangue,
tocca segrete corde e nel silenzio fa il divin concento
ch’ella può sola.
Cammineremo noi ne’ tuoi cammini? O imperiale
duce, o signore dei culmini, o insonne fabbro d’ale,
per la notte che si profonda e per l’alba che ancor non sale
noi t’invochiamo!
Pel rancore dei forti che patiscono la vergogna,
pel tremito delle vergini forze che opprime la menzogna,
noi ti preghiamo!
Per la quercia e per il lauro e per il ferro lampeggiante,
per la vittoria e per la gloria e per la gioia e per le tue sante
speranze, o tu che odi e vedi e sai, custode alto dei fari, o Dante,
noi ti attendiamo!
Al Re Giovine
Nella gran bandiera
che agitarono i v’ènti marini
a poppa della nave guerriera
tutt’armata di ferro gigante
contra i ferrei destini,
nella gran bandiera
di battaglia e di tempesta
avvolgi il tuo padre esangue,
coprigli la bianca testa,
consacragli il petto forte
con quella croce raggiante,
o tu, della purpurea sorte
erede, che navigavi il Mare,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare!
Avvolgi il tuo padre
nell’insegna che attese la gloria
sopra le acque così lungamente;
componilo sul carro scemato
del bronzo possente;
dàgli a scorta mute squadre
che in arme sognino la vittoria
pel sangue non vendicato
sul deserto ardente;
nella luce dell’Urbe fatale,
nel silenzio delle scorte
e del tuo dolor regale,
accompagna il tuo padre clemente,
o tu che chiamato dalla Morte
venisti dal Mare.
Accompagna il padre
alla tomba ove già l’avo dorme,
nel tempio sublime
che alzò su colonne
di granito la forza di Roma.
La romba degli inni austeri
come un turbine all’ultime cime
rapisca i tuoi pensieri
nuovi, oltre la tomba, oltre l’altare.
E i grandi pensieri
ti facciano insonne; e Roma
e la sua Fortuna dalla chioma
terribile ti facciano insonne,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare.
Tu non dormirai
se il tuo cuore è degno che lo morda
l’avvoltore violento;
tu non dormirai
se de’ tuoi nervi indurati
attorca tu la corda
per l’arco che t’è innanzi lento;
tu non dormirai
se tu oda la voce dell’Urbe,
sepolcrale e marina,
non voce di volubili turbe
ma d’immutabili fati,
ma dell’anima eterna latina,
o tu che chiamato dalla Morte
venisti dal Mare.
Tu non dormirai
se degni sieno i tuoi occhi
di contemplar l’orizzonte
che il Quirinal discopre
al dominatore;
tu non dormirai
se le tue mani sien pronte
alle lotte ed all’opre,
alla spada ed al martello,
a foggiar per la tua fronte
un’altra corona di ferro
col ferro d’un altro Salvatore
sopra l’incudine d’un altare,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare.
Non dormimmo noi
nella notte solenne
quando passò per l’ombra
d’Italia il funereo convoglio
che portava il buono infranto cuore.
Non dormimmo. Ascoltammo gli eroi
favellare nella notte ingombra.
Ascoltammo il fragore
dei carri nel vento d’estate.
Tremammo. Più del cordoglio
poterono le speranze alate.
Per l’ombra era un fremito di penne.
Lampeggiavano i monti e le coste.
Gravido di vita e di morte
anelava il Mare.
Tremammo di forza
chiusa e di volontà raccolta;
fummo ebri d’un sogno virile.
Sentimmo nei polsi robusti
ardere la febbre civile.
Sentimmo nel suolo profondo
rivivere gli iddii vetusti.
Ebri di presagi augusti,
vedemmo ancóra sul mondo
splendere il latin sangue gentile.
Ascoltammo gli indigeti eroi
favellare nella notte ingombra.
Seguimmo nell’ombra
infinita il volo della Morte
lungo il patrio Mare.
E dicemmo: «Passa
lungo il patrio Mare,
Maestà della Morte!
Alza gli spirti; fa palpitare
il popolo che veglia
nella notte balenante.
Genova ti saluta
sul suo golfo magnifica e forte,
coronata di baleni.
La Spezia ti saluta,
in vista dell’Alpe, austera e forte,
coronata di baleni.
Salutano il tuo passare
le due madri delle navi, o Morte,
veglianti sul Mare.
Più grande saluto
avesti tu mai?
Ma, giunta alla mèta, tu avrai
il saluto del Sole e di Roma.
E il nuovo destino, segnato
dal sangue regio, avrà nella nuova
luce principio solenne».
Per l’ombra era un fremito di penne.
Lampeggiavano i monti e le coste.
E dicemmo: «O Italia, o Italia,
non ti vedremo noi su l’alba,
per questo buon sangue che ti giova,
per la divina prova
di questa sacrificale morte,
rifiorir nel Mare?».
E dicemmo: «O Italia,
Italia sonnolente,
alfine ti svegli
tu dal tuo sonno vile?
Ahi sì lungamente
sotto il sole giaciuta
con l’obbrobrio senile,
tra le mani dei vegli
scaltri che t’han polluta
che di te han fatto strame
docile all’ignavia loro
e d’ogni tuo nobile alloro
una verga per batter la fame,
non senti l’odor della morte?
Oh nuova sul Mare!».
Così noi dicemmo,
questo sognammo ascoltando
il fragore dei carri nel vento
d’estate per la funebre notte
recanti alla tomba il re spento,
al silenzio di Roma, alla pace.
Questo pregò sotto il firmamento
ingombro la nostra ansia seguace.
Or chi sarà l’eroe che attendiamo,
il pastor della stirpe ferace?
Tendi l’arco, accendi la face,
o tu che chiamato dalla Morte
venisti dal Mare,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare!
T’elesse il Destino
all’alta impresa combattuta.
Guai se tu gli manchi!
E’perigliosa l’ora.
Ma tu sai che il periglio
è la cintura pe’ fianchi
dell’eroe. Dal sangue vermiglio
fa che nasca un’aurora!
La fortuna d’Italia
prese l’ali sul campo
d’una battaglia perduta.
Ricòrdati d’un altro padre
partito per un più triste esiglio,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare.
T’elesse il Destino.
Ricòrdati del figliuol vinto
che cavalcò quel giorno
tra la Sesia e il Ticino
verso il bianco maresciallo.
Rifiorì l’itala primavera
tra i dolci fiumi; e il re sardo
scese dal suo cavallo
per segnare il duro patto.
Tutto fu nemico intorno.
Egli disse al suo cuore gagliardo:
«Sopporta, o cuore, e spera!».
Ricòrdati di quel ritorno
tu che chiamato dalla Morte
venisti dal Mare.
Egli volle Roma,
egli ebbe il Campidoglio,
egli ha pace nel Tempio romano.
Che vorrai tu sul tuo soglio?
Quale altura è il tuo segno?
Miri tu lontano?
E’largo quanto il tuo orgoglio
il gesto della tua mano?
Sai tu come sia bello il tuo regno?
Conosci tu le sue sorgenti
innumerevoli e la forza
nuova o antica delle sue correnti?
Ami tu il suo divino mare,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare?
T’elesse il Destino
all’alta impresa audace.
Tendi l’arco, accendi la face,
colpisci, illumina, eroe latino!
Venera il lauro, esalta il forte!
Apri alla nostra virtù le porte
dei dominii futuri!
Ché, se il danno e la vergogna duri,
quando l’ora sia venuta,
tra i ribelli vedrai da vicino
anche colui che oggi ti saluta,
o tu che chiamato dalla Morte
venisti dal Mare,
Giovine, che assunto dalla Morte
fosti re nel Mare.
Alla memoria di Narciso e di Pilade Bronzetti
Canta, o Verità redimita
di quercia, canta oggi gli eroi
al genio d’Italia che t’ode!
Al popolo ardente di vita
novella tu canta oggi i suoi
leoni, il suo sangue più prode
che corse la gleba feconda!
Tu fa che fiammeggi nell’ode
ciascuna ferita
e lungi la fiamma s’effonda
per tutte le prode,
per tutte le cime,
per tutta la patria sublime
che freme di gloria sepolta!
Canta, o Verità redimita
di quercia, canta oggi gli eroi
al genio d’Italia che ascolta!
Ma ascolta dall’ombra dei monti
Trento, l’indomata
figlia cui la corda
non spegne la voce iterata
che chiama che chiama la madre
nell’orror notturno;
e grida: «Ricorda
tu prima dell’altre
glorie la mia gloria
oggi che su l’ardue fronti
dell’Alpe volò la Vittoria
e che l’Adige taciturno
n’ebbe rinnovata
promessa! Ricorda
Castel di Morone, Tre Ponti
con l’Aquila che dal Tifata
piombò sul Volturno».
Canta dunque, pria che si parta
la nova speranza da noi
e si spenga il sùbito ardore,
canta dunque il fior degli eroi,
il prode dei prodi
che dorme leggero sul cuore
di Brescia fedele,
e l’emulo del re di Sparta
con i suoi trecento,
con i suoi trecento custodi
che la dolce Campania tiene;
canta oggi la gloria di Trento
per lei consolare in catene
del vano amor del van dolore,
oggi che da mano servile
la sua pura corona è sparta
come fronda vile.
Come vil lordura
dal tempio di Roma lo sgherro
spazza quella corona pura
che tesseano, ideal tesoro,
(ancor dunque ai monti si sogna?)
fedeltà più dura del ferro,
speranza più ricca dell’oro.
Giovi ella a crescere lo strame
su cui la frode e la paura
giaccion come buoi
stracchi ruminando menzogna.
Giovi ella a crescere il letame
che impingua l’annosa vergogna.
Ma tu non piangere; tu sogna,
anima chiusa, ancor nei tuoi
monti. E’ alto il sole sul Fòro.
Cantiamo gli eroi!
Non piangere. Aspetta nei monti;
poi che non indarno
nel libero azzurro
sul Gianicolo, alto a cavallo,
sta Colui che udisti a Tiarno
per te su la via sfolgorata
tonare col bronzo.
Ma sogna. Come il bianco alburno
celandosi sotto la scorza
si fa vigor novo del tronco,
nell’anima tua sempre alzata
il sogno convertasi in forza.
Non piangere. Sogna nei monti.
Cantiamo la gesta obliata,
Castel di Morone, Tre Ponti
con l’Aquila che dal Tirata
piombò sul Volturno.
Cantiamo la vetta ridente
su l’antico fiume
esperto di strage, la vetta
ridente di giovine sangue.
Oh tumulo grande
che gioiosamente
di sé fece l’alta coorte!
Ciascun combattente
su la sua terribile ebrezza
col sole e con l’aria
sentiva il guardar leonino
del Duce, dell’Onnipresente.
Oh vendemmia di giovinezza
più forte che il vino!
Porpora d’autunno,
porpora di morte
su la dolce di uve Campania!
Non piangere, anima di Trento,
la tua calpestata corona.
Dimentica il male, se puoi.
Non fare lamento.
La tua madre non t’abbandona:
ha il cuore profondo.
Passano i Bonturi
e il seguace lor gregge immondo.
Durano gli eroi
eterni nei fasti
d’Italia, e quel Dante che alzasti
nel bronzo, al conspetto dell’Alpe
dura solo più che le rupi,
gran Mésso dei fati venturi
signore del Canto sul mondo.
Passano i Bonturi
e il seguace lor gregge immondo.
Non fare lamento. Perdona
pel lungo martirio di Dante,
perdona pel chiuso dolore
di Quegli che disse la grande
parola. Sovvienti? Ei ti vide
perduta, ei vide tanto sangue
invano sparso, tanto fiore
di libere vite
invano reciso,
Trieste come te perduta,
come te perduta
l’Istria, alla mercé del nemico
le porte d’Italia, ottenuta
Venezia con man di mendico,
laggiù laggiù sola su l’Adria
la macchia di Lissa, l’infamia,
tutta l’onta; e disse: «Obbedisco».
Ah ti sovvenga! Ti sovvenga
ancóra di Lui doloroso,
col piombo nell’ossa dolenti,
combusto dal fuoco
di cento battaglie e pensoso
già del vasto rogo
che alzato ei volea sul selvaggio
granito, al conspetto del mare,
per dar la sua cenere ai v’ènti
del suo mar selvaggio.
Ei disse: «Ah ch’io venga
ch’io venga anche all’ultima guerra!
Legatemi sul mio cavallo.
Ch’io veda brillare le stelle
su la Verruca, oda al Quarnaro
cantare i marinai d’Italia!
Legatemi sul mio cavallo».
Verrà, verrà sul suo cavallo,
con giovine chioma.
Torrà il nero e giallo
vessillo dal suo sacro monte
che serba il vestigio di Roma.
Ridere su l’antica fronte
vedrà le sue vergini stelle;
più oltre, più oltre
verso le marine sorelle,
anche udrà anche udrà nel Quarnaro
i canti d’Italia sul vento.
Non piangere, anima di Trento,
la tua calpestata corona.
Ribeviti il tuo pianto amaro.
Dimentica il male, se puoi.
Non fare lamento. Perdona.
Prepara in silenzio gli eroi.
Per i marinai d’Italia morti in Cina
Chi ti vide col suo cuore
puro, o Italia liberata,
detersa dal sangue e dal pianto,
dalla polve e dal sudore,
dopo l’alta gesta, alzata
nel mare nel sole nel canto?
Chi ti vide, dopo l’alta
gesta, vivere nel mare
col grande tuo corpo fecondo?
Chi sentì nella tua calda
giovinezza palpitare
l’antica speranza del mondo?
Forse i figli, forse i figli
tuoi migliori, i marinai
su l’acque remote, nei porti
strani, gli umili tuoi figli
che non sai né rivedrai,
ti videro e caddero morti.
Ah ti videro più bella
essi, i tuoi semplici eroi,
negli ultimi palpiti sacri!
Canterò oggi, per quella
tua bellezza, se tu m’odi,
il pianto di tutte le madri.
Ecco, una madre nell’antica Ichnusa
dei pastori, nell’isola diserta
che stampa sul Tirreno dalla Nurra
al Campidano sua durabile orma,
ecco, la madre che filò la nera
e bianca lana, ecco, la madre a sera
vien su la soglia con la nuora pregna,
quando le greggi tornan di pastura.
Sta su la soglia con la nuora, e conta
le stelle prime nell’aria serena,
nell’aria dolce ove il colmigno fuma;
e sta con nel suo cor la sua preghiera;
e guarda sopra i gioghi di Gallura
la falce della luna che tramonta.
E guarda verso il mare la Caprera
ove dorme il Leone in sepoltura
con un respiro che solleva l’onda;
e guarda l’ombra della Maddalena,
sul dolce mare un’ombra di guerriera
che tutta armata a guerreggiare è pronta.
E prega, ignara della sua sciagura,
e prega e dice: «Chi me l’assicura?
Tu, Vergine Maria, Vergine pura,
tu guardalo dal male e tu l’aiuta!
T’accenderò quant’io potrò di cera,
quant’io potrò d’oliva, se sventura
non gli accade, se salvo mi ritorna.
Guardalo, Vergine, alla madre sua,
guardalo alla sua madre e alla sua donna.
Dov’è, dov’è? Che fa egli a quest’ora,
il buono figliuol mio, mentre che annotta?
Lo rivedemmo ch’era primavera.
La rondine non era anco venuta.
Giunse improvviso, giunsemi alla porta
gridando: «O madre, o madre, apri la porta!».
Eri al telaio sotto la lucerna…».
A lungo a lungo ella così racconta
al cuore che ben sa, che ben ricorda,
che ben ricorda ch’era primavera.
Così racconta la madre canuta;
e guarda sopra i gioghi di Gallura
la falce della luna che tramonta;
e guarda verso il mare la Caprera
ove dorme il Leone in sepoltura
con un respiro che solleva l’onda.
E un’altra madre viene su la soglia
d’un’altra casa e guarda un’altra altura
e un altro mare, il mar di Siracusa
e l’Etna grande che nell’ombra fuma;
e prega in cuore e dice: «O creatura
del sangue mio, quando ti rivedrò?».
Odorano le selve alla riviera
con frutta d’oro; cantano alla luna
le ciurme prima ch’ella si nasconda:
trema la rete, palpita la vela.
E un’altra madre viene su la soglia
d’un’altra casa, là nella remota
Italia, là sul Garda ove Peschiera
sorge custode nella sua cintura
forte, ove il Mincio memore saluta
i campi di battaglia. E un’altra ancóra
prega in silenzio e guarda la pianura
tra l’Oglio e l’Adda ove la primavera
fu cerula di molto lino. E ancóra
un’altra prega dalla pampinosa
rama dei Monti d’Alba, dalla volsca
Velletri che disotto le sue mura
vide un mattino tempestar fra l’onda
dei cavalli il Leone ebro di Roma.
E un’altra ancóra sta su la picena
spiaggia, di là dal Tronto, e si ricorda
del bel naviglio che la prima volta
portò il fanciullo a Spàlato, a Gravosa,
a Sebenico, alla latina sponda
cui San Marco legò la sua galera
e prega in cuore e dice: «O creatura
delle mie pene, non ti rivedrò?».
Sì penano le madri in su la sera
al novilunio, alla dolce frescura.
E non, di qua dal Tronto, nella terra
d’Abruzzi, nella terra ove riposano
i miei maggiori con la rugginosa
àncora di speranza e di fortuna,
non prega qualche madre per ventura
guardando su la placida Maiella
tramontare la falce della luna?
Guarda greggi passare ad una ad una
l’ungh’esso il lito andando alla pianura
dell’Apulia, ai lor paschi, dall’altura
del Sannio che laggiù si fa nevosa;
migrar le greggi per la via saputa
dai primi avi la madre guarda, muta
presso la casa ove restò la cuna
antica per la nova genitura,
la madre veneranda cui virtù
di nostra prima gente in grembo dura;
e prega in cuore e dice: «O creatura,
creatura, che fai mentre che annotta?
Se sei grondante, ora chi ti rasciuga?
Forse hai tu sete, e la vigna ha tanta uva!
Figlio, che fai? Pensi alla madre tua?
Pensi alla madre tua che non t’aiuta?».
E guarda pel sentiere che s’oscura,
e il cor le stringe sùbita paura.
Tramontata è la falce della luna;
nell’ombra intorno altro non v’è che luca
se non il ferro pronto all’aratura.
E’il mésso quei che per l’erta s’indugia?
Gran silenzio negli alberi s’aduna.
La madre ascolta, non respira più.
S’ode il campano in lontananza ancóra,
della greggia che valica la duna;
s’ode il passo per l’erta che s’oscura.
La madre attende, non palpita più.
Morti sono i figli, morti
sono i figli, morti sono
i figli alla guerra lontana.
Pochi erano contro molti.
Essi avean pel suolo ignoto
lasciata la nave lontana.
Morti come sopra il ponte
della nave, come sanno
marinai dovunque morire.
Non il fiume, non il monte,
non il piano, essi non hanno
veduto la casa e il confine.
Veduto non han Gallura
né il Mar Ligure né l’Adria
morendo su l’orride porte,
ma veduto han la figura
grande e sola della Patria
risplendere sopra la morte.
Veduto non hanno i Monti
d’Alba o l’Etna, non Peschiera
né il Garda, ma l’unica Italia.
Morti sono i figli, morti
sono intorno alla bandiera
d’Italia d’Italia d’Italia.
A Roma
Aurea Roma, sia testimone
dal ciel di settembre la faccia
del Sole che mai cosa più grande
di te visitò nell’alterno Orbe;
sieno testimoni dal confino
dell’Agro il Soratte santo
apollineo con le sue corone
di nubi e il Cimino proclive
che dal Tevere al Mare
tende le sue cerulee braccia;
e testimoni sieno i Monti
d’Alba pampinei ridenti
al cielo dai profondi
occhi dei laghi; e il divino
Agro che tace, co’ suoi armenti
irti, co’ suoi pastori biformi
dall’aspetto umano ed equino,
l’erbifero sepolcro dei regni
sia oggi testimone al canto
che memora il detto sibillino.
«Manca la Madre» disse il carme
euboico al sacerdote.
O Roma, guerriera senz’arme,
ti manca l’universa Idea
che sorga, su l’ombre
oblique, su le forme vuote
di alito, su le cloache ingombre
di uomini, generatrice.
Manca la Grande Madre. Ti manca
il vergine eroe, il nepote
ultimo del magnanimo Enea,
che con la sua man pura
la tragga vivente alle tue mura
auguste e instituisca la Festa
nova e inizii la nova Epopea.
L’ancile di Marte è scodella
al mezzano; la meretrice
è addetta al fuoco di Vesta;
del tuo Campidoglio non resta,
o Roma, che la Rupe Tarpea.
Ma, sotto il ciel settembrale
che riversa il suo calice d’oro
ampio dal Celio al Viminale
dal Gianicolo al Vaticano
dall’Anfiteatro al Fòro,
nel dì fausto dell’alta conquista,
cantiamo l’avvento fatale,
su la torbida acqua corrotta
chiamando l’imagine prisca.
Contro l’un concistoro
che ciancia baratta confisca
e l’altro che munge il tesoro
di Pietro per l’anima ghiotta,
alziamo la statua ideale.
Sorse fervido il popolo quando
intese il responso canoro:
«Manca la Madre. O Romano,
che tu chieda la Madre io comando.
Com’ella venga, addotta
sia da una pura mano».
Venne la Magna Madre
su la nave alla foce del fiume
biondo; e nel limo ristette,
immota, incrollabile come
una rupe. I cavalieri,
il senato, la plebe di Roma,
le vergini del fuoco santo
accorsero in turba alla foce
del fiume incontro alla veneranda
Ospite. Ed era ne’ cuori
letizia. Ma stava nel vado
limoso la carena immota
simile a una rupestre
isola. Legarono all’alta
prora una fune gli uomini forti
e fecero gran forza di braccia,
e con voci iterate
aiutavano eglino la vana
opera, a trarre la nave
dipinta nel Tevere biondo.
Ma sedeva la Magna Madre
incrollabile sopra la tolda,
con la sua corona di mura
su le chiome che fingono i flutti
del ponto e i solchi dell’agro,
con le sue mani invitte
benefiche di beni infiniti
prone su le ginocchia più salde
che le roveri annose nei monti;
al conspetto del popolo grande
sedeva la Madre dell’aurea
fecondità, la nutrice
dei mortali e degli immortali,
la donatrice delle semenze
ineffabili, la dea
che moltiplica il sangue
animoso, edifica le chiare
città, conduce i pensieri
i timoni gli aratri, errante
sonante in circoli immensi.
E la forza degli uomini forti
s’accrebbe di tutta la plebe
romana, s’accrebbe di tutti
i cavalieri romani. E tutti
le braccia davano alla fune
ritorta e iteravan le voci
al travaglio, ma indarno; ché stava
immota nel vado la dipinta
carena e il simulacro sublime
splendeva sopra la tolda
nell’aer salino tacente.
Attonita interruppe il conato
la moltitudine e tacque
pavida innanzi al prodigio
con supplice cuore. S’udiva
fluire il Tevere biondo,
addurre all’imperio del Mare
la maestà di Roma.
Tra il popolo supplice, allora
s’avanzò Claudia Quinta vestale.
Offendeva lei casta il sospetto
del volgo, iniquo rumore.
S’avanzò Claudia Quinta e con mani
pure attinse l’acqua del fiume;
tre volte il capo s’asperse,
tre volte levò al cielo le palme;
prona nel suo crine giacente,
invocò a gran voce la dea.
Quindi, alzata, legò il suo cinto
alla prora e con lene fatica
trasse la Magna Madre nel fiume,
trasse la Madre dell’eterna
fecondità verso l’arce eterna
dell’Urbe. Tonarono i petti
romani; sanguinò la bianca
giovenca dinanzi alla poppa
coronata. Sedente sul plaustro
de’ buoi la Turrigera, addotta
da virtù di vergine pura,
entrò per la porta Capena.
Così, o Roma nostra, negli anni
verrà non dal Dindimo ululante,
non pietra esculta in nave dipinta
pel Mediterraneo Mare,
verrà dagli oceani lontani
ove la vita allaccia la vita
d’isola in isola per correnti
misteriose di voleri
umani e di sogni umani
che cercano le novelle forme,
verrà dai continenti
immensi ove ancóra dorme
la ricchezza nei misteri
delle montagne e delle lande
promessa agli insonni messaggeri,
verrà dai confini del mondo
con l’impeto degli elementi
e con l’ordine dei pensieri,
verrà dall’alto e dal profondo
la Potenza in cui sola tu speri.
Così, o Roma nostra, nei tempi
un vergine eroe di tua stirpe
così la trarrà alle tue mura.
Non carena immobile in sirte
limosa, non simulacro
già venerato in templi
estranei trarrà la man pura,
ma la Potenza umana, ma il sacro
spirito nato dal cuore
dei popoli in pace ed in guerra,
ma la gloria della Terra
nel divino fervore
della volontà che la scopre
e la trasfigura
per innumerevoli opre
di luce e d’ombra, d’amore
e d’odio, di vita e di morte,
ma la bellezza della sorte
umana, dell’uomo che cerca
il dio nella sua creatura.
Però che in te come in un’impronta
indistruttibile, debba
la Potenza dell’Uomo
assumere forma ed effigie,
instituita nel Campidoglio
e nel Fòro, di contro all’Onta
dell’Uomo, su le vestigie
della forza e dell’orgoglio
che chiesero la Grande Madre
alle montagne frigie
per lei custodir nelle tue sacre
mura che sole credevi
tu degne di chiudere l’altrice
universa quantunque sì brevi.
O Roma, o Roma, in te sola,
nel cerchio delle tue sette cime,
le discordi miriadi umane
troveranno ancor l’ampia e sublime
unità. Darai tu il novo pane
dicendo la nova parola.
Quel che gli uomini avranno pensato
sognato operato sofferto
goduto nell’immensa Terra,
tanti pensieri, tanti sogni,
tante opere, tanti dolori,
tante gioie, ed ogni
diritto riconosciuto ed ogni
mistero discoperto
ed ogni libro aperto
nel giro dell’immensa Terra,
tutte le speranze umane
volanti da porti sonori,
tutte le bellezze umane
cantanti per boschi d’allori,
vestiranno le forme sovrane,
appariranno alla luce eterna,
o Roma, o Roma, in te sola.
Ai liberi ai forti materna,
o dea, spezzerai tu il novo pane
dicendo la nova parola.
Aurea Roma, o donna dei regni,
sien testimoni all’augurale
Ode che canta oggi il tuo destino
le cose che portano i segni:
la nube che sul Palatino
sanguigna risplende
come porpora imperiale
tra gli ardui cipressi; il divino
silenzio del vespero che accende
i Diòscuri domitori
di cavalli sul Quirinale;
l’ombra spirante che occupa i Fòri
gli Archi le Terme taciturna;
la fonte di Giuturna
che dalla ruina risale;
la tavola delle Leggi sacre
che dalla polve riappare;
e la mia speranza, o Madre,
e il fior del mio sangue latino,
e il fuoco del mio focolare.
A uno dei mille
O vegliardo, consunto come l’usto
dell’àncora che troppe volte morse
con sue marre i tenaci fondi, pregno
del sale amaro,
splende la gloria sul tuo vólto adusto
quando nelle fortune indaghi l’Orse
e t’argomenti di campar tuo legno
cercando il faro?
Quando torni dall’isola dei Sardi
carico, e taciturno al tuo timone
stai rugumando il tuo masticaticcio,
tese le scotte,
a tratti co’ tuoi grigi occhi non guardi
per l’ombra se tu scorga il tuo Leone
fiammeggiare laggiù sul sasso arsiccio
contro la notte?
E quando poi governi a prender porto,
maggio illustrando la città dei Doria,
non cerchi tu quella che a Quarto eresse
magra colonna
la modestia del popolo risorto,
per figurarvi in sommo la Vittoria
che sul gran cor parea ti sorridesse
come tua donna?
Tu non rispondi. Solo ascolti i v’ènti
e disputi talor con la tempesta.
Hai crudo e breve il motto a dir tua noia,
e più non dici.
Tua vita va tra due divini eventi,
tra bonaccia e fortuna; e quella gesta
la scrisser già su le tue vecchie cuoia
le cicatrici.
Ond’io ti priego che mi sii benigno,
o tu che troppo sai d’amaro sale,
se consecrarti ardii questi miei carmi
tumultuanti.
In van chiesi al tuo mar che nel macigno,
nell’invitto macigno sepolcrale,
volesse per l’eternità foggiarmi
strofe giganti.
Ma tu vi sentirai correre, sopra
al rosso bulicame, odor salmastro;
romoreggiar v’udrai l’onda nemica
come il frangente;
vi rivedrai quale t’apparve all’opra
Colui che fu buon calafato e mastro
d’ascia, d’ogni arte artiere, dell’antica
tirrenia gente.
Io ne cercai l’imagine sicura
entro gli occhi tuoi tristi, in cor tremando.
Eri presso il cordaio per rinnovare
tue gomenette;
seguivi l’arte della torcitura,
il crocile, la pigna, il naspo; quando
su le tue labbra le parole amare
lessi non dette.
«Il torticcio dell’àncora s’è rotto.
Rinnovarlo non giova. Orvia, tralascia!
Per flagelli e capestri, o cordaio, l’acre
canape torci.
La terza Italia si distende sotto
ogni bertone come una bagascia.
E Roma all’ombra delle querci sacre
pascola i porci.»
La notte di Caprera
I.
Donato il regno al sopraggiunto re,
il Dittatore silenziosamente
sul far dell’alba con suoi pochi sen viene
alla marina dove la nave attende.
Ei si ricorda nell’alba di novembre:
quando salpò da Quarto era la sera,
sera di maggio con ridere di stelle.
Non vede ei stelle ma l’alta accesa gesta
dietro di sé nella stagion sì breve.
Ei seco porta un sacco di semente.
Quella è la nave che all’acque di Sardegna
già navigò dal Faro in gran segreto
per il soccorso, innanzi ch’ei prendesse
Reggio ed i monti, innanzi che Soveria
fossegli resa, quando le nuove schiere
precipitò nella Calabria estrema
e duce fu alle armi, alle carene
fu calafato, fu mastro d’ascia, artiere
d’ogni arte, pronto ei sempre alla diversa
necessità con vólto sorridente.
Donato il regno al sopraggiunto re,
ora sen torna al sasso di Caprera
il Dittatore. Fece quel che poté.
E seco porta un sacco di semente.
II.
Ancóra dorme la città che ululò
d’amor selvaggio all’apparito Eroe
nel bel settembre. Emmanuele dorme
là nella reggia ove tanto tremò
l’erede esangue di Ferdinando. Implora
Dominedio Francesco di Borbone
chiuso in Gaeta con la sua fulva donna,
con l’aquiletta bavara che rampogna.
«Calatafimi! Marsala!» Chiama a nome
i suoi cavalli di guerra il Dittatore,
novo nell’alba, gli arabi suoi sul ponte
recalcitranti al vento che riscuote
il Golfo. Palpa le lor criniere ondose
che sanno ancor d’arsiccio, le lor froge
palpa, e le labbra frenate onde fioccò
la spuma come neve su i moribondi.
Ed ei li pensa lungi, franchi del morso,
per le ferrigne rupi; e dice: «Anche a voi
la libertà!». Quella divina voce
odono i due cavalli che hanno i nomi
delle Vittorie e lui guatan con occhi
di fanciul!i, ecco, obbedienti. Sorge
l’aurora. E’ pronta la nave. Il Dittatore
delle tempeste grida: «Salpa!». L’alta onda
del dominato Oceano gli torna
nella memoria e nella voce. Scioglie
l’ultimo capo dell’ormeggio allor con
atto che par santo al devoto stuolo.
L’anima già per l’acque si diffonde
simile al dì. Ripete ei la parola
che consolò i suoi laceri prodi:
«A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!».
Bello non è come il raggiante vólto
del donator di regni il novo Sole.
III.
Ed or sen va il Ligure pel suo
Tirreno. Guarda vigile, dalla prua
che non ha rostro, se non vegga la rupe
brulla apparir tra i nugoli; o seduto
resta sul sacco delle semente a lungo,
tutto pensoso della seminatura
nei magri solchi e delle sue lattughe
anco e de’ suoi magliuoli e de’ suoi frutti.
Novera già col pensier nel suo chiuso
la scarsa greggia, e le lane valuta,
i negri velli ed i candidi, cui
non mai segnò la robbia; alla futura
prole sorride, e allarga la pastura
sopra il macigno. In quale tempo ei fu
pastore? Quando migrò con la tribù
su le grandi orme dei padri alle pianure?
Quando agli armenti cinse i fuochi notturni,
fatta la sosta presso la fonte pura?
Mondo di strage, ei beve il vento. I flutti
crespi e canuti accorrono ver lui
come le bianche pecore per l’azzurra
erba; ed ei sa il suono che le aduna.
D’antico tempo gli sovviene. Di tutto
quel che fu ieri non gli sovviene più.
Apre così le braccia la Natura
subitamente al buono figliuol suo
per riposarlo, sopra il suo petto ignudo,
di tanto sangue e di tanta ventura.
E il figlio a lei così volge dischiusa
la sua divina anima di fanciullo.
IV.
Ma ecco l’ombra di Caprera. Ecco l’aspra
Gallura, i monti aerei nell’aria.
Ecco il granito ov’ei riposerà.
Ecco la tomba che gli lavorerà
l’arte del Mare. Come in petrose tazze,
nei grembi cavi l’isola solitaria
serba il silenzio ch’è bevanda al pugnace.
Quivi placato nella sua verità
ei può sognare; né quel silenzio mai
gli mancherà, sopra il fragor del Mare.
V.
Or liberati i cavalli di guerra
(ei palpitò forte veggendo selci
risfavillar sotto l’urto del ferro,
udendo su per le rupi deserte
eco del gran galoppo senza freno)
or nella bianca stanza è solo con sé
il Dittatore, solo con sé fedele.
Guarda le bianche mura ch’ei fece, artiere
d’ogni arte, dopo che preso e difeso ebbe
quelle di Roma. E’ senza mutamento
la povertà, è senza mutamento
la pace. Il sacco delle semente è a piè
del letto. L’arme, disopra l’origliere,
al vacillar della lucerna splende.
Palpita e guizza la fiammella. E gran vento
alle finestre, gran vento di maestro
sul mar che romba nelle anse di Caprera,
grande clamore a quando a quando, immenso
grido, selvaggio urlo come a Palermo,
come a Palermo urlo di popolo ebro.
«O cuore, balzi? Placato ancor non sei?»
L’Eroe sorride; ma gli occhi del veggente
veggono il sole su la città che ferve
colui che parla e l’ultimo suo gesto,
il furibondo palpito che solleva
tutto quel muto popolo come un petto
immortale, e tutto il sangue repente
sparir dai vólti innumerevoli, e
tutte le bocche urlanti, tutte le
mani distese in alto alla ringhiera;
Piazza Pretoria fatta dal travincente
amore vasta come l’Italia intera;
l’anima d’un popolo fatta un cielo
di libertà, eguale al giorno ardente;
una bellezza nuova per sempre accesa
nel triste mondo, un’imagine eterna
di gloria impressa nel vano velo, eretta
un’altra cima, ala data alla Terra!
VI.
«O cuore, balzi? Non sei placato ancóra?»
L’Eroe sorride; ma si tocca la fronte
ove in quel dì battevan forte il sole
siciliano e il vento dell’ignoto
destino e il suo volere. Poi s’accosta
al bianco letto che dà i profondi sonni,
ove il lin rude par che di sale odori
(lavato in mare e torto su lo scoglio?),
ma il cuore è insonne, riposare non può.
Ei crolla il capo e dice: «Spartirò
le mie semente». Si china; piano scioglie
la bocca al sacco; e ripone la corda.
VII.
Seduto sta; le sue semente ei sparte,
faville d’oro dall’una all’altra mano.
Sparte e col soffio ventila come fa
esso il colono che non mai fece altra arte.
La man non falla quando l’occhio s’inganna:
sa come pesi nella palma il buon grano.
Tenne la spada ed or terrà la marra.
Mezzo novembre avran repente e chiaro
l’opre, poiché non anco Aldebarano
sorse dal mare ed ecco il Maestrale
porta il sereno a chi vuol seminare.
«O cuore, o cuore, entra nella tua pace!»
Gli àlbatri intorno soli rosseggeranno,
cui tolta fu la terra lavorata.
«Guardiamo innanzi, all’alba che verrà!»
Chino la fronte, le sue semente ei sparte,
faville d’oro dall’una all’altra mano.
«Ciò che compimmo altri lo canterà.»
VIII.
Ma la grandezza di ciò che fu compito
s’alza e sovrasta alla notte sublime,
sovrasta al cuore di colui che ha sorriso,
occupa la solitudine, vince
la pace, infiamma l’ombra; non ha confine
in breve nome. O Italia, i Mille, i Mille!
Ali fulminee delle Vittorie latine,
rapidità della forza e dell’ira
su le riviere del sangue, alte e succinte
vergini d’oro, messaggere vestite
di vento, immenso amor di Roma, chi
si chiamerà fra voi l’eguale di
quella che un volo su da Calatafimi
sino al Volturno volò senza respiro
e dissetò la sua gran sete alfine
sol nelle vene di Leonida ucciso
un’altra volta? Pianto alla Porta Pila,
silenzioso pianto alla dipartita,
coro di donne liguri! Ultimo addio
di ferree madri ai giovinetti figli!
Divinità rivelata nei cigli
umani e primo tremito delle prime
stelle nel puro cielo primaverile!
Più dolce maggio in terra non fiorì.
Navi sospinte nel mare dal respiro
stesso dei petti eroici, dal destino
e dalla febbre, dalla speranza invitta
e dal prodigio, piene di melodìa
e di ruggito, nell’oscuro periglio
illuminate dai baleni d’un riso
silenzioso, con la prora diritta
a gloria e a morte, a un punto e all’infinito!
Rapida gioia de’ bei delfini amici
nel solco, méssi d’un rinnovato mito!
Stelle augurali dell’Orsa al grande ardire,
accesa in cielo bandiera del naviglio!
Più alto sogno in Dante non salì.
IX.
Chino la fronte, sparte le sue semente
il Dittatore, sotto la sua lucerna
che per le mura d’ombre e di luci crea
notturne vite coi lunghi aliti della
notte. E’ gran vento alle finestre: geme,
sfida, minaccia, rugge, ulula, intermesso.
La man nell’atto a quando a quando trema.
Fissi alla gesta son gli occhi del veggente.
L’anima eterna è cinta di baleni.
Ei vede, ei vede il patrio mare ardente,
i suoi vascelli nel fulgido silenzio
misteriosi come due giganteschi
spiriti, fatti leggieri dall’ebrezza
che vi s’aduna, dal sogno che vi ferve,
come le navi dei templi dalla prece:
e il primo approdo, Telamone col segno
dell’Argonauta, le odorifere selve
dell’Argentaro, la pallida Maremma
tinta del sangue gallico, ove raccese
Mario la febbre di Minturno ed il ferro
trasse dal piè degli schiavi, ne fece
spade battute per la strage crudele.
E l’altro monte, e l’altro monte ei vede,
l’Erice azzurro, solo tra il mare e il cielo
divinamente apparito, la vetta
annunziatrice della Sicilia bella!
X.
Ed ora tutto è baleni, ora tutto
folgori e tuoni, furore e sangue, azzurro
e sole, ferro e fuoco, aure e profumi.
L’inno è nel vento, l’ebrezza è nell’arsura.
Ei squassa l’aspre chiome della fortuna
in pugno e fa d’ogni uomo una virtù,
una virtù d’ardore ch’ei conduce
col suo sorriso terribile nell’ultimo
impeto al cuor d’un astro. E l’armatura
della sua possa è il suo sorriso; e ovunque
risplenda, quivi è il prodigio; e nessuno
lo vede senza vedere un dio nel suo
cielo; e beato colui, quasi fanciullo,
che primamente lo vede nella luce
e tra le spiche ucciso cade giù.
XI.
O Verità cinta di quercia, quando
canterai tu per i figli d’Italia,
quando per tutti gli uomini canterai
tu questo canto? Ecco il pane spezzato
sotto l’olivo, prima della battaglia;
ecco irto d’armi il colle di sì grande
nome, nomato il Pianto dei Romani,
aspro di sette cerchi, balzo di Dante,
per ove gridan come stuol di selvagge
aquile sette Vittorie disperate;
Alcamo in festa, Partinico fumante;
l’avida sosta della falange, al Passo
di Renna, in vista della Conca e del Mare;
la sete, la fame; la corsa verso Parco
nella tempesta e nella notte, inganno
meraviglioso; la montagna affocata
di Gibilrossa ove ecco ogni uomo par
che trasfiguri come se oda parlare
una divina voce alla sua speranza;
e la discesa muta di sasso in sasso,
per gli arsi aromi, lungo le schegge calde,
mentre la sera coi richiami lontani
de’ suoi pastori e coi suoi flauti fa
la melodìa dell’obliata pace;
e poi la notte vigile di fatali
stelle; e poi l’alba, e nell’alba il tonante
impeto, l’urto, la furibonda strage,
l’inferno al ponte dell’Ammiraglio; il maschio
Nullo a cavallo oltre la barricata
con la sua rossa torma, ferino e umano
eroe, gran torso inserto nella vasta
groppa, centàurea possa, erto su la vampa
come in un vol di criniere; il grifagno
Bixio, il risorto Giovanni delle Bande
Nere, temprato animato metallo,
voce a saetta, sottil viso che sa
la cote come il filo d’una spada
laboriosa, ossuta fronte salda
come l’ariete che dirocca muraglie,
eccolo all’opra che balza da cavallo
per trarsi il piombo con le sue stesse mani
fuor delle fibre tenaci; ecco espugnata
la Porta, data la rotta alle masnade
regie col ferro alle reni; le strade
ancor nell’ombra, deserte; la città
ancor dormente, e la prima campana
che suona a stormo verso l’aurora alzata
su Gibilrossa; Fieravecchia che batte
già colma come un cuor che si rinsangua;
Macqueda sotto la grandine mortale;
Montalto ai regi tolto dallo spettrale
Sirtori; atroci strida, crollar di case,
rossor d’incendii; la morte che s’ammassa
nella ruina; l’afa delle carni arse,
il cielo azzurro su l’urlante fornace;
e il Dittatore terribile che passa,
il Dittatore sorridente con pace
tra quel delirio umano, il dio che guarda,
indubitata forza, con nella faccia
il sole, il sole del sorriso eternale.
Gloria per sempre! Ecco Palermo schiava
che si risveglia giovine tra le fiamme,
che si solleva, memore della Gancia,
nella vendetta e nella libertà.
XII.
Sotto l’immensa gloria chino la fronte,
il Dittatore onniveggente è immoto.
Nel sacco rude la sua mano s’affonda
e inerte sta, immemore dell’opra.
Or è interrotta l’opra del buon colono.
Ei più non vede rilucere pe’ solchi
le sue semente, né ribatte le porche
ei con la marra in suo pensiero. Ascolta
il vento e il mare nella notte profonda.
Ascolta il rombo del suo spirito solo.
Non proferì la sua più gran parola
quando a quel re sopraggiunto donò
il regno e solo poi si ritrasse all’ombra
d’un casolare, lungi alla bella scorta,
sol con tal’uno de’ suoi laceri prodi?
Triste è la bocca nella sua barba d’oro,
ché le sovvien del molto amaro sorso.
Era laggiù, presso Teano, incontro
ai foschi monti del Sannio, il donatore;
seduto all’ombra era, su vecchia botte
non più capace di contener la forza
del vin novello. Era l’autunno intorno;
ammutolito sul Volturno il cannone;
piegata e rotta la gente di Borbone
sul Garigliano; scomparso con la scorta
splendida il re sul suo cavallo storno,
andato a mensa. Era l’autunno intorno:
cadean le foglie dal tremolio dei pioppi;
i campi roggi fumigavano sotto
l’aratro antico tratto dai bianchi buoi
campani cui rauco urgeva il bifolco
fasciato le anche dal vello del montone,
coperto il bronzeo capo dal frigio corno.
Antiche e grandi eran le cose intorno;
antico e grande era il cuore dell’uomo
seduto in pace su la fenduta botte.
Ognun taceva al conspetto dell’uomo
meditabondo. Quasi era a mezzo il giorno:
era il meriggio muto come la notte.
Ognun taceva, ogni anima era prona
dinanzi a lui, col silenzio che adora
e riconosce: alta preghiera in ora
che parve a ognuno scorrere per ignota
profondità. E il forte elce nodoso,
che negreggiava quivi, fu santo come
i dolci olivi dell’orto ove pregò
tre volte un altro uomo di fulve chiome.
E il donatore, seduto su la doga
vile, crollò la testa di leone.
Calmo guardò pei fumi il campo roggio,
col calmo sguardo cerulo che soggioga
il rischio; udì l’anelito dei buoi
affaticati per quelle terre sode;
seguì un aratro che discendea da un poggio,
considerò se fosse dritto il solco
dietro l’attrito vomere. Anche ascoltò
la lodoletta che facea sua melode.
Venne per l’aria il suono d’un rintocco.
Allor fu quivi recato da un pastore
giovine irsuto di pelli, sopra un moggio,
al donator di regni un duro tozzo
di pane, e cacio stantìo, di grave odore.
Aveva ei seco il suo coltello a scrocco,
il suo coltello di marinaio, ancóra
raccomandato alla sua vecchia corda;
l’aperse pronto, con quello s’affettò
il pane e il cacio. Maciullando, guardò
l’aratro antico tratto dai bianchi buoi,
e giudicò del dritto solco; poi,
come il più duro non passava pel gozzo,
chiese da bere sorridendo al pastore.
Allor fu quivi recato in un orciuolo
al donator di regni acqua di pozzo.
Avido ei bevve, accostatosi il rozzo
vaso alla bocca, ma la bocca schifò.
L’acqua putiva, come d’un otro immondo.
Senza sdegnarsi ei versò l’acqua al suolo.
Poi s’asciugò, tranquillo; e disse: «Il pozzo
è infetto. Certo, v’è una carogna al fondo».
S’alzò nel detto; e andò pei campi solo.
XIII.
Or si ricorda ei ben del sorso tristo;
e il cuor gli duole d’un lento presagire
(riarderà l’agosto su le cime
dell’Aspromonte torbido, e di vermiglie
bacche il novembre allegrerà le infide
macchie a Mentana). Ei vede il buono Elìa
col piombo in bocca laggiù su la collina
dei sette cerchi; e laggiù sul sottile
istmo, a Milazzo, entro i maligni intrichi
delle paludi e dei canneti, ritto
il suo Missori bellissimo che uccide
i cavalieri. Ode il grifagno Bixio
che nel più folto della mischia gli grida:
«Dunque così voi volete morire?».
Subitamente Deodato Schiaffino,
quel da Camogli, il biondo, gli apparisce:
il marinaio biondo che gli somiglia,
occhi cilestri, d’oro la barba e il crino,
ma più membruto, più alto, d’una stirpe
ingigantita nel travaglio marino.
Subitamente gli apparisce supino,
a mezzo il colle, nel sangue che invermiglia
tutto il pianoro. E’ caduto così
l’alfiere, primo all’assalto. Garrisce
dopo lo schianto la bandiera investita,
come da un vento d’ira, dal grande spiro:
e sul torace come sur un macigno
fanti e cavalli s’azzuffano in prodigi
di furia, e tutta la virtù dell’estinto
ecco risorge viva in un cuore vivo,
ed è il torace dell’eroe come un plinto
alla grandezza d’un altro eroe. «Così
dunque volete morire?» Un leonino
fremito scuote il Dittatore. Ei mira
sé nel gigante biondo che gli somiglia,
nel marinaio ligure che morì
com’ei vorrebbe. Cupo aggrotta le ciglia;
con gli occhi fissi interroga il Destino.
XIV.
E dalla morte sorge l’ombra di Roma.
Come il pastore dell’Agro spaventoso
nel ferin sangue porta germe nascosto
d’antica febbre che sùbita riscoppia
mentre di sotto l’arco dell’acquedotto
inaridito ei guata fuggir l’ora
su l’erba e sta con l’anima gravosa
ch’ebbe immutata per geniture molte
dal tempo quando con solfo e con alloro
Pale odorava la pecora feconda:
conosce il segno del vigile malore,
conosce il gelo che in foco si risolve;
dà la sua vita alla vorace forza:
ed ei ben sa ch’ella non abbandona
se non l’ossame, e guata fuggir l’ora
per l’erba e sta con l’anima gravosa
e brucare ode la pecora d’intorno:
così l’insonne sente dal più profondo
sangue salir la febbre sacra, il morbo
divino, ardore immedicabile, odio
ed amore ambi indomati, onde il corpo
arde e la mente, sacra febbre di Roma,
ultima vita terribile del suolo
esercitato dai padroni del Mondo.
XV.
Ei lo conobbe come conosce il figlio
il sen materno, conobbe il suol latino
come colui che alla mammella antica
s’abbeverò con sete di giustizia.
Vi giacque armato, sotto il seren d’aprile,
e di rugiada nell’alba si coprì.
Vi colse il fiore dell’asfodelo; misti
alle fresche orme vi rinvenne i vestigi
dei Fabii; v’ebbe a ginocchio il nemico;
vi fu calpesto dai suoi nello scompiglio,
dai cavalieri suoi fuggiaschi, ferito
dallunghie dure, di polve e sangue intriso,
tremenda impronta, quando del cuore invitto
impedimento al terrore improvviso
ei fece solo e là, prono, col viso
nella carraia, baciò la madre, vivo
oltre la morte, e nel fragor sinistro
l’urlo supremo della sua Lupa udì.
XVI.
O Verità cinta di quercia, quando
canterai tu per i figli d’Italia,
quando per tutti gli uomini canterai
tu questo canto? L’umano alito mai
più grandemente magnificò la carne
misera; mai con émpito più grande
l’anima pura vinse il carcame ignavo.
L’onta dell’uomo, il corpo che si lagna
e trema, che ha sonno, che ha sete fame
paura, che ha orrore del suo sangue
e delle sue viscere, che si salva,
si cela, fugge, cade, invoca pietà ,
prega soccorso, per soffrire si giace
e per morire chiude gli occhi, la salma
pesante opaca e fragile, la carne
misera e impura, l’onta dell’uomo schiavo,
veduta fu sùbito trasmutarsi,
al nomar d’un nome, in una sostanza
novella, armata d’una vita tenace
e numerosa come di germinanti
membra e di vene perenni, inebriata
di strage come di allegrezza, agitata
con risa e grida se molto era la piaga
vasta, se orrenda era, come si squassa
una bandiera superba a rincuorare
stanchi e codardi. Cantami, o Verità
cinta di quercia, cantami questo canto!
Eccoti innanzi le donne, ecco i vegliardi,
ecco i fanciulli: le donne senza pianto,
senza vecchiezza i vegliardi, a mortale
gioco i fanciulli con la morte che passa;
ecco guidato a suon di trombe il ballo
dal buon Manara sotto il colle tonante;
ecco il Masina, con la sua schiera franca
di cavalieri bolognesi, l’uom d’arme
e di piacere, ardentissima spada,
gioioso a mensa come in campo, che già
tinto in vermiglio ritorna al quarto assalto
per la Corsina e sprona il suo cavallo
su la scalèa, gli dà ferocia ed ali,
colpito in petto non fa motto né lai,
vuota la sella, stramazza, con le braccia
aperte e il ventre prono sul sasso sta;
ed ecco i suoi già pronti a dargli bagno
di grana e coltre di porpora, le lame
battute a freddo, le lance di Romagna,
che per ammenda di Velletri han pagato
un fiero scotto, eccoli tempestare
su l’atterrato per trar dalla battaglia
il corpo e dargli sepoltura, gli eguali
dei belli Achei corazzati di rame
sul corpo di Patroclo nato dal
cielo, del caro al Pelìde compagno;
mentre dardeggia la voce del grifagno
Bixio ferito di piombo all’anguinaglia,
voce di scherno, che fischia sfonda e taglia
come la spada che tronca gli è rimasta
nel pugno; e il fabro d’inni Mameli, il vate
soave come Simonide ceo, ma
più puro che l’ospite di Tessaglia,
guerreggiatore laureato, sul franto
ginocchio cade sorridendo; e di vasta
anima un altro artefice, il lombardo
Induno, alfine cade, giace forato
come selvaggio bugno e per tanti varchi
non la sua vasta anima dà ma inganna
la morte, due volte fatto immortale.
Ecco il Bronzetti, ad altri campi sacro,
ad altro antico esempio, che il suo caro
non abbandona già sotto le calcagna
nemiche ma l’ardire e la pietà
di Niso ingenuo innova; ecco il toscano
Masi, il Sampieri veneto, ecco il lombardo
Vismara, il Bacci piceno, l’apuano
Giorgieri, duci e gregarii, il romano
Spada, e Fulgenzio Fabrizi umbro ammirando
al Ponte Milvio, e il conte ravennate
Loreta, e il buon Savoia mantovano,
e il buon Maestri, il monco, il mutilato
di Morazzone, e quel gentil Montaldi
già cacciatore al Salto e capitano
che navigando laggiù pel guerreggiato
fiume fu solo ed ebbe cento braccia
a sostener con l’arme l’arrembaggio;
ecco l’Anceo, il Silva, il Rodi, il Sacchi,
il pro’ Daverio, il Mellara, gli Strambio,
il più bel fiore del sangue di Romagna
e di Liguria e d’Umbria e di Toscana,
d’ogni contrada, figli della montagna,
figli del piano, figli del litorale,
della città e del borgo selvaggio,
il più bel fiore fiorito dalle madri
nel vaticinio della gesta fatale,
speranza e forza della profonda Italia,
speranza che arde e forza che combatte,
dolor che ride e giubilo che assale,
solenne ebrezza, funebre voluttà,
il più bel fiore fiorito dalle madri
potenti come la terra che bagna
il fiammeo flutto ond’è converso il latte
robusto dato con compagnia di canti;
e il Morosini, e i Dandolo, sonanti
nomi nel bronzo della gloria navale,
stirpe di dogi, sangue republicano
che tinse già di suo colore i fianchi
delle galere, il Mare Nostro, Candia,
la Morea, Nasso, in cento assedii, e i sacri
marmi d’Atene e l’oro di Bisanzio,
spoglie del Mondo offerte alla Città.
XVII.
Villa Corsina, Casa dei Quattro V’ènti,
fumida prua del Vascello protesa
nella tempesta, alti nomi per sempre
solenni come Maratona Platèa
Crèmera, luoghi già d’ozii di piaceri
di melodie e di magnificenze
fuggitive, orti custoditi da cieche
statue ed arrisi da fontane serene,
trasfigurati sùbito in rossi inferni
vertiginosi, chi dirà la bellezza
che in voi s’alzò dalla ruina e stette
su l’Urbe come terribile astro a sera?
chi canterà la vostra grande sera?
Cadeva il dì crudo su fuoco e ferro.
Tre volte e quattro iterato per l’erte
scalèe l’assalto: grado per grado, pietra
per pietra, preso e perduto e ripreso
e riperduto il baluardo orrendo;
accumulati i cadaveri a piè
degli agrifogli, dei balaustri, delle
statue, delle urne; fatto il pendìo riviera
del sangue, cupo bulicame di membra
lacere; acceso l’incendio; alzato al cielo
impallidito il clamore supremo
i Legionarii ansanti, arsi di sete
e d’ira, armati di tronconi e di schegge
neri di fumo e di polvere, belli
e spaventosi parvero come quelli
che superato avean l’uman potere
con la scagliata anima (tale il segno
superato è dal dardo veemente)
e respiravan dai lor profondi petti
piagati l’ansia d’un miracolo ardente.
«Avanti!» allora gridò la voce immensa.
Erano questi reduci dall’inferno
raccolti presso le mura, tra il Vascello
e San Pancrazio. Ansavan come belve
cacciate innanzi dal fuoco nelle selve
incendiate, esausti, dalla sete
stretti le fauci; e non avean da bere
se non sudore e sangue. Ognun coi denti
secchi mozzò l’anelito, e si tese
per obbedire. «Avanti!» ripeté
la voce immensa. Ed il bianco mantello
ondeggiò, come l’onda delle bandiere,
su gli aridi occhi. S’udìa, contra il Vascello,
spesso il nemico tonar dalle trincere
della Corsina come da una fortezza.
Perduta omai l’altura; folle impresa
tentare un altro assalto; tutta l’erta
spazzata; dubbio giungere a mezzo; certa
la strage. «Avanti!» gridò la voce immensa
e pura come il ciel di primavera
sopra le fronti degli uomini promessi.
E comandò agli uomini il portento.
«Orsù, Emilio Dandolo, riprendete
Villa Corsina! Su, di corsa, con vénti
dei vostri prodi più prodi, a ferro freddo!»
Ed il nomato tremò nel cuore udendo
il nome suo in bocca della stessa
Gloria. Caduto eragli già il fratello
su la scalèa, spento. E disse: «O fratello,
teco verrò!». Pronto, fece l’appello
dei morituri. E la falange breve
mosse all’assalto ultimo. Una gran febbre
allora parve palpitare nel vespro,
visibil come l’ardore nei deserti
quando per l’aere vibra incessantemente.
Sorse un clamore terribile nel vespro,
terribil come quel dei romani petti
che ferì l’aere ed i volanti uccelli
quando rostrata salpò la quinquereme
di Scipione. Videsi in alto un negro
stuolo di corvi sbattere sul funesto
Gianicolo, ove scendean le aquile un tempo
con i presagi. E nel fuoco e nel ferro
il fato della Republica fu certo.
I morituri la videro morente
nel sangue loro. Un disse: «Vinceremo».
XVIII.
Veniva, senza squilli, in corsa, alla Porta
di San Pancrazio la seconda legione
lombarda, quella dal Medici condotta
florida schiera giovenile, corona
di Lombardia. Il Vascello, dal prode
Sacchi difeso fin quasi a mezzo il giorno,
quindi tenuto da quel santo e feroce
Manara cui serbata era la gloria
di Villa Spada, sosteneva il maggiore
sforzo nemico. Fervida era già l’opra
degli approcci, era imminente già il crollo
del fastigio, era già degli uccisi ingombro
tutto il palagio. Or veniva al soccorso
Giacomo Medici, incrollabile possa,
compatto bronzo contra le sorti immoto.
Dalla Toscana nel Lazio, senza colpo
ferire, avea condotta la legione
con disciplina durissima, per prove
e patimenti infiniti, veloce
e càuto, dando per guanciale al riposo
la gleba o il sasso, avendo giorno e notte
il rischio sempre alle spalle, di fronte
e ai fianchi come dogo o molosso pronto
ad azzannare senza latrato. Il sole,
il vento, l’erbe, i torrenti, le rocce
aveangli fatta selvaggia come un’orda
la bella schiera. Ai giovini leoni,
tutta la notte nutriti dall’odore
della Campagna sacra nel periglioso
cammino, Roma era apparita in fondo
alla pianura nella sùbita aurora
come una nube. Ed un grido era sorto:
«O Madre!». Ed ogni cuore in quella parola
s’era devoto, con volontà di gloria;
e tal’uno ebro avea sentito forse
nelle gramigne rimaste fra le chiome
incolte il peso mortale degli allori.
Veniva or dunque, senza squilli, alla Porta
di San Pancrazio la seconda legione
lombarda. Ed ecco, verso la Porta, incontro
a lei la fila delle barelle atroce,
con i feriti, con i morenti in mostra!
Ed i feriti ed i morenti, incontro
ai giovinetti floridi, del dolore
fecero un riso non umano. E coloro
che non avean più pel riso la bocca
ma cave piaghe, gittarono dagli occhi
il lor baleno; e tal’uno gittò
le bende intrise discoprendo la coscia
tronca od il ventre lacerato e gridò:
«Resti con voi questo segno!». Ed un monco
scosse ridendo il moncherino come
un aspersorio di sangue e battezzò
gli imberbi. E tutti ridevano di gioia
come fanciulli, poiché la morte ai loro
terribili atti mesceva un che di dolce,
una bontà puerile, un candore
di libertà mai detto da parola
d’uomo né vinto in terra; e di candore
splendevan essi nel dissanguarsi in fondo
alle barelle che penetravan l’ombra
di Roma fatta più profonda dal rombo
che il Campidoglio spandea sonando a stormo.
Nell’ombra «Viva la Republica!» urlò
l’anima alzata del coro moribondo.
E l’urlo sotto la Porta rimbombò.
E la legione, scagliata dalla Porta
eroica, entrò nella battaglia. Allora,
bianco a traverso la bufera del fuoco,
bianco sul suo cavallo agile come
un tigre dómo, non simile ad un uomo
fragile ma simile ad una forza
onnipresente espressa dalla lotta
stessa dei fati e degli uomini, incontro
ai giovinetti venne il Liberatore.
Muto trascorse l’ungh’esse le coorti
adolescenti come fa il nembo sopra
le spiche ma l’anime ch’ei piegò
col suo gran soffio parvero dall’angoscia
risollevarsi moltiplicate. Gli occhi
erano intenti a lui; e con un solo
sguardo ei toccò le anime come un solo
baleno tocca le innumerevoli onde.
«Avanti!» allora gridò l’immensa voce.
Ed il cavallo a un tratto s’arrestò
come un torrente precluso che si copre
di schiume. Calmo il cavaliere biondo
parve più alto, signore delle sorti,
sicuro. Spessi fischiavangli d’intorno
gli obici senza toccarlo; orrido scroscio
facean su i muri del Vascello; talora
sordi facean nella legione un solco
ove spariva qualche silenzioso
capo atterrato. Si protese, raccolse
il puro sogno dei giovinetti morti
nella sua voce che fu pei vivi come
la melodia della materna Roma.
«Giovani, avanti, ché vinceremo anche oggi!»
Non con lo sprone ma col suo grande cuore
ei sollevò il suo cavallo a volo:
nel balzo il bianco mantello palpitò
come la bianca ala della Vittoria.
Il giovenile grido coperse i tuoni
del monte, dietro il galoppo senza orma.
Nella fumèa del vespro, intorno a Roma,
erano ovunque la ruina e la morte.
Ma chi morì, morì vittorioso.
XIX.
Con gli occhi fissi interroga il Destino
il Dittatore. Arde tra le apparite
stragi, nel grido dei magnanimi figli.
Arde, in silenzio, della sua febbre antica.
E la grandezza di ciò che fu compito
s’alza e sovrasta alla notte sublime.
«Ah non invano! Ah non invano!» dice
la sua speranza. «Non invano moriste,
o dolci figli, latin sangue gentile!
Altra rugiada aspettan le gramigne
dell’Agro, e avranno altra rugiada, prima
che sorga l’alba della novella vita.
O Madre, e quel che ti daremo vinca
di santità quello che t’offerimmo.
Pur t’offerimmo quel ch’era in noi divino.»
Ed ecco ei tende la mano, come chi
promette, ei tende la mano che spartiva
le sue semente con la saggezza antica,
la man che già seminò, che al mattino
seminerà là dove fu il granito.
Per testimone ha l’anima sua. Dice:
«Verrò, verrò. Là donde mi partii
ritornerò». La trista dipartita
ripensa: il luglio torrido; le milizie
raccolte in piazza, mute sotto il meriggio
muto, al conspetto del Vaticano inviso,
come le statue dei portici; il sorriso
che gli sgorgò dai precordii alla vista
della coorte adolescente; Iddio
nei cieli azzurri, il silenzio infinito,
l’orazion piccola «Io offro a chi
mi vuol seguire fame sete fatiche
combattimenti e morte»; poi l’uscita
da San Giovanni, tutto il popolo afflitto
che lacrimava e le Trasteverine
accorse in gara che spargevano i gigli
sotto il cavallo dell’eroina Anita
a San Giovanni, il sordo calpestio
in notte chiara su la Via Tiburtina
con la grande ombra di Roma che seguiva
i legionarii, la sosta su la cima
nuda, l’estremo sguardo, l’estremo addio
alla Città già in mano del nemico;
e poi la corsa di confine in confine
per monti e valli, l’arrivo a San Marino,
al bel Titano, con la sua schiera esigua
sfuggita a quattro eserciti, la fine
dell’alta guerra, il Mare, l’accanito
inseguimento per le selvagge rive,
per le paludi febbrose, l’agonia
della sua donna sotto il sole maligno,
il disperato remeggio verso il lido
di Chiassi, il dolce corpo su l’erbe arsicce
morente, poi l’abbandono improvviso
sopra la Costa di Paviero, il supplizio
feroce, il caro corpo non seppellito
nella calura lùgubre l’infierire
di tutti i mali contro l’anima invitta.
«O Madre, e quel che ti daremo vinca
di santità quello che t’offerimmo»
dice l’Eroe che seppe ben patire.
Per testimone ha l’anima sua. Dice:
«Verrò, verrò. Là donde mi partii
ritornerò, Madre, per ben morire».
XX.
Or s’è placato il cuore in quel suo puro
atto di fede e in quell’offerta. Il giusto
seminatore, innanzi ch’ei s’induca
al meritato sonno, innanzi ch’ei chiuda
gli occhi da tanta visione consunti,
getta il buon seme del dolore futuro.
Ascolta il vento, espl’orator notturno
che indaga gli antri, che visita le rupi,
che parla e poi tace, tace e poi rugge.
Pensa il piloto: «Reca lungi l’augurio
tu che ben sei vento italico, più
nostro che ogni altro, Maestrale, robusto
tenditor di vele latine, duro
scotitor di latine selve, tu
che tra Ponente e Borea spiri, giù
dalle Alpi insino al Peloro, per tutta
la Italia e segui l’Apennino e le punte
dei promontorii tutte sul mare giungi
in libertà, Maestrale, tu lungi
in questa prima notte reca il saluto
dell’uomo a quella che sta nella pianura
oltre Argentaro, nell’Agro taciturno
che divorò le stirpi, e l’assicura
che a lei pensò l’uomo quando la prua
sciolse da Quarto, ed a lei quando fu
presa la riva, e sempre in ogni pugna
a lei, dal Pianto dei Romani, laggiù,
da Gibilrossa, dal Faro, dal Volturno.
E, come attende l’uomo, tu l’assicura
che a lei verrà se pur sempre all’autunno
segua l’inverno e dall’inverno surga
la primavera. Intanto ei veglia e scruta».
Così promette il piloto di altura
e di rivaggio, l’uomo tirrenio, instrutto
di sapienza pelasga, che misura
senza fallire con l’occhio l’azzimutto
e su la linea di fede sa condurre
il suo naviglio con bussola vetusta,
col buon pinàce di manico sicuro,
privo dell’ago, dell’ago che si turba
strepita impazza smarrisce sua virtù.
«Andremo a poggia e all’orza. Orza di punta!»
pensa il piloto. E il sorriso si schiude
nel suo oro. «Alle mure dei trevi! Mura!»
Silenzioso ride: pensa la susta
che tiene a segno l’antenna latina. Una
minaccia arguta par che il suo riso aguzzi.
Ei sa che avrà vento traverso, buffi
di vento obliquo; ma sa come si muri.
E crolla il capo incolpevole. «Orsù
via, che domani si semina!» Nel suo
pensiero ondeggia di biade il sasso brullo.
S’accosta al letto placido ove il lin rude
par che di sale odori, male asciutta
vela che quivi posi dalle fortune.
Il sacco è a piè del letto; l’arme luce
su l’origliere: il sogno eterno illude
quella divina anima di fanciullo.
XXI.
Or mentre giace, sopra il vento intermesso
ode un belato. Belare ode un agnello
forse smarrito nelle rupi deserte;
per la notte ode una voce innocente
che chiede prega geme trema si perde.
Già sollevato in sul cubito, teso
l’orecchio, ascolta nelle pause del vento.
La voce trema prega geme. «E’ un agnello
smarrito; cerca la madre» E balza in piedi
il Dittatore. Indossa le sue vesti,
rapido come allor che il pro’ Daverio
il tre di giugno entrò dov’ei giaceva
pesto e ferito, urlando «La bandiera!».
Durano affé i buoni usi di guerra,
se bene tace la diana, a Caprera.
Anche allora brillavano le stelle.
Il Dittatore cammina contravvento.
A quando a quando sosta, tende l’orecchio
se mai distingua, tra i colpi del maestro,
sopra gli schianti della risacca, il segno
di quel belare. Conosce dall’altezza
dell’Orse l’ora. Tutto il cielo è sereno.
Le sette Guardie tramontan sul Tirreno.
Il buon piloto mira le chiare stelle
dei marinai, le dolci Gallinelle
sul collo al Toro, nell’ala pegaséa
Markab, in bocca al Cane Sirio ardente,
e su la spalla d’Orione Adhaèr,
e Vega e Arturo e Canòpo e la Perla.
D’antico tempo or gli sovviene. Regge,
nella memoria, col pollice l’anello
dell’astrolabio e studia come ascenda
un astro e come si colchi, nel silenzio
dei mari. Gira sul capo il ciel sereno.
L’isola acclive è come una galèa
grande che sola navighi verso terre
lontane. Il vento cade. Ed ecco l’agnello
chiama la madre nelle rupi deserte:
s’ode la voce che trema prega geme.
«O creatura di Dio, dove sei persa?»
Ed ecco un che di bianco, un che di lieve
nell’ombra, come una falda di neve
intiepidita da una pena vivente.
L’uomo si china verso la pena, sente
il vello, prende con le mani leggiere
la creatura di Dio, l’alza, la tiene
fra le sue braccia, l’accoglie sul suo petto.
Non fu pastore ei forse? Gli sovviene
d’antico tempo quando migrò col gregge
alle pianure su l’ampia orma paterna,
quando di fuochi notturni cinse il gregge,
fatta la sosta intorno alla cisterna.
L’anima sua ora è come la terra,
è come il mare, è come il firmamento,
come la forza delle stirpi guerriere
e pastorali che nel cominciamento
furono, come la verginità fresca
del primo sguardo che dalla cosa espresse
il mito, come la meraviglia ingenua
animatrice che d’ogni cosa fece
una bellezza e la favola breve
dell’uom fallace converse in gioia eterna.
XXII.
Col novel peso pianamente sen va
alla sua casa, portando nelle braccia
la creatura che tuttavia si lagna,
che chiama chiama, che chiama la sua madre.
Il vento cade, il mare s’abbonaccia,
il ciel s’imbianca. Ei sente nella faccia
pungere l’uzza mattutina, e la guazza
piovere sente su l’oro della barba
che si confonde con quella dolce lana.
«O creatura, non posso io darti latte»
dice il pastore sorridendo al belato
che non si placa. «Tu chiami la tua madre.
Dove sarà ella? Molto lontana?
E veggo già che s’avvicina l’alba;
sicché non giova tornare alla mia casa;
ma giova a te avere la tua madre
che anche ti chiama, che ha la poppa gonfiata
di molto latte che tu ti beverai.»
Ed ei si gode nel suo cuore piegando
a un’altra via, però che bene ei sa
la via del chiuso ove la greggia scarsa
attende l’ora della pastura. L’alba
stampa nel ciel le sue dita rosate
quando all’ovile giunge, all’ovile fatto
di schiette pietre che scelse di sua mano
e poi commesse e legò con la calce
e vi coprì tutto il tetto di lastre
pulite ed anche vi fece di legname
sodo la porta, come artiere d’ogni arte
ch’ei fu, che sempre sarà finché le braccia
gli reggeranno. Or, mentre giunge, il cane
lo riconosce come riconobbe Argo
sul concio il dire del molto travagliato
Odisseo; sì lo riconosce il sardo
mastino, forte, fulvo, e balzagli innanzi
e gli fa festa. Ma, dal chiuso, al richiamo
della deserta creatura la madre
risponde. Senza indugio il pastore apre
la porta e càuto depone al limitare
di pietra il redo che, su le oblique zampe
lanose, come un infante traballa,
bela dal roseo muso, per l’ombra calda
saltella in cerca della poppa gonfiata.
Chino alla porta, dell’avido poppare
si gode l’uomo incolpevole; è pago;
ché buono ei stima l’odore della calda
lana nell’uzza che punge aspra di sale,
e invero sol gli rincresce d’un pane,
d’un pan che manca alla sua lieta fame
sì mattutina. «Ecco che è fatta l’alba.
Riconterò le mie pecore.» Taglia
una verga, entra nel chiuso, e caccia il branco.
Nitrire i suoi cavalli di battaglia
ode all’aperto. Respira: «Oh Libertà!».
Poi, sufolando ne’ modi della Pampa
e dell’Oceano, pascola verso il mare.
Canti della morte e della gloria
I.
O Verità cinta di quercia, canta
la tristezza del popolo latino,
il Sol che muore dietro l’Aventino
e la notte che abbraccia l’Arce santa.
Ahi che lungi egualmente a Roma, e in quanta
lontananza entro l’ombra del destino
compiuto, sono i Fabi e il lor divino
Crèmera, Villagloria e i suoi settanta!
Esausto è il latte della Lupa stracca
nelle flaccide mamme, e tutto è spoglio
dai ladruncoli il fico ruminale.
Acca Larenzia lucra da baldracca.
L’oca senz’ale abita il Campidoglio
e la talpa senz’occhi il Quirinale.
II.
Il pastore d’Amul’io dal galèro
di pel lupigno, Fàustolo che scorse
il pico verde e quel seguendo accorse
al loco lupercale umido e nero,
indi prese i Gemelli, uno leggero,
l’altro più grave, e nudi ambo li porse
a Larenzia mammosa, non s’accorse
che in un pesava il peso dell’impero.
Il peso dell’impero e del delitto
necessario facea grave il fratello
di Remo, sacro all’augurale volo.
Ei diede al mondo l’Urbe e al cuore invitto
del Guerriero insegnò come sia bello
con un sogno di gloria restar solo.
III.
La gloria fu. L’ultime vite insigni
si spengono sul suol di Dante a un tratto
come le faci in un festin protratto
quando il cielo arde di baglior sanguigni.
Vanno lungi da noi l’Aquile e i Cigni:
quei ch’ebber pronta la virtù dell’atto
e quei ch’ebber nel cuore il sogno intatto;
né si vede che il seme lor ralligni.
Alziamo gli Inni funebri, sul gregge
ignaro, alla Potenza che ci lascia,
alla Bellezza che da noi s’esilia.
Implacabile è il Canto e la sua legge.
E però leva su, vinci l’ambascia,
Anima mia. Questa è la tua vigilia.
Per la morte di Giovanni Segantini
Implorazione dei monti, voci del regno alto e santo,
dolor selvaggio dei v’ènti combattuti, profondo pianto
delle sorgenti pure,
quando l’ombra discesa da un più alto regno benda
la rupe e il ghiacciaio albeggia solo come un cammino che attenda
grandi orme venture!
Salutazione dei monti, coro delle gioie prime,
laude impetuosa dei torrenti, fremito delle cime
percosse dalla meraviglia,
quando si fa la luce nelle vene della pietra
come nelle fibre del fiore perché Demetra
rivede la sua figlia!
Dominazione dei monti, purità delle cose intatte,
forza generatrice delle fiumane pròvvide e delle schiatte
armate per l’eterna guerra,
mistero delle più remote origini quando un pensiero
divino abitava le fronti emerse dai mari! O mistero,
purità, forza sopra la Terra!
Spenti son gli occhi umili e degni ove s’accolse l’infinita
bellezza, partita è l’anima ove l’ombra e la luce la vita
e la morte furon come una sola
preghiera, e la melodìa del ruscello e il mugghio dell’armento e il tuono
della tempesta e il grido dell’aquila e il gemito dell’uomo
furon come una sola parola,
e tutte le cose furono come una sola cosa
abbracciata per sempre dalla sua silenziosa
potenza come dall’aria.
Partita è su i venti ebra di libertà l’anima dolce e rude
di colui che cercava una patria nelle altezze più nude
sempre più solitaria.
O monti, purità delle cose intatte, forza, mistero
sopra la Terra, ella va e ritorna come un pensiero
immortale sopra la Terra.
O monti, o culmini, il suo dolore fu come la vostra ombra
sopra la Terra. La sua gioia sarà oltre la sua tomba
un palpito della Terra.
Per la morte di Giuseppe Verdi
Si chinaron su lui tre vaste fronti
terribili, col pondo
degli eterni pensieri e del dolore:
Dante Alighieri che sorresse il mondo
in suo pugno ed i fonti
dell’universa vita ebbe in suo cuore;
Leonardo, signore
di verità, re dei dominii oscuri,
fissa pupilla a’ rai de’ Soli ignoti;
il ferreo Buonarroti
che animò del suo gran disdegno in duri
massi gli imperituri
figli, i ribelli eroi
silenziosi onde il Destino è vinto.
Vegliato fu da’ suoi
fratelli antichi il creatore estinto.
Come la nube, quando è spento il Sole
dietro le opache cime,
di fulgore durabile s’arrossa:
contro all’ombre notturne arde sublime
la titanica mole
e la notte non ha contro a lei possa:
così dalle affrante ossa
l’anima alzata contrastò la Morte,
avverso il buio perdurò splendente.
Dinanzi alla veggente
tutte aperte rimasero le porte
del Mistero, e la sorte
umana fu sospesa
su l’alte soglie ove la Forza trema.
Sul rombo, nell’attesa,
allor sonò la melodìa suprema.
La melodìa suprema della Patria
in un immenso coro
di popoli salì verso il defunto.
Infinita, dal Brènnero al Peloro
e dal Cìmino al Catria,
accompagnò nei cieli il figlio assunto.
E colui, che congiunto
in terra avea con la virtù de’ suoni
tutti gli spirti per la santa guerra,
pur li congiunse in terra
col suo silenzio funerale e proni
li fece innanzi ai troni
ed ai vetusti altari
ove l’Italia fu regina e iddia.
Canzon, per i tre mari
vola dal cuor che spera e non oblìa!
E «Ti sovvenga!» sia la tua parola.
Vegliato fu da’ suoi
fratelli antichi il creator che dorme.
E simile alle fronti degli eroi
era la fronte, sola
e pura come giogo alpestro, enorme.
E profonde eran l’orme
impresse dal suo piè nella materna
zolla, profonde al pari delle antiche;
e l’alte sue fatiche
erano intese ad una gioia eterna;
e come l’onda alterna
dei mari fu il suo canto
intorno al mondo, per le genti umane.
E noi, nell’ardor santo,
ci nutrimmo di lui come del pane.
Ci nutrimmo di lui come dell’aria
libera ed infinita
cui dà la terra tutti i suoi sapori.
La bellezza e la forza di sua vita,
che parve solitaria,
furon come su noi cieli canori.
Egli trasse i suoi cori
dall’imo gorgo dell’ansante folla.
Diede una voce alle speranze e ai lutti.
Pianse ed amò per tutti.
Fu come l’aura, fu come la polla.
Ma, nato dalla zolla,
dalla madre dei buoi
forti e dell’ampie querci e del frumento,
nel bronzo degli eroi
foggiò sé stesso il creatore spento.
E disse l’Alighieri in tra gli eguali
nella funebre notte:
«O gloria dei Latin’, come tramonti!».
Quivi bianche parean dalle incorrotte
spoglie grandeggiar le ali
sotto la fiamma delle vaste fronti.
E Dante disse: «O fonti
della divina melodia richiusi
in lui per sempre, che tutti li aperse!
Ecco quei che s’aderse,
su la sua gloria, in cieli più diffusi
e agli uomini confusi
parve subitamente
artefice maggior della sua gloria.
O natura possente,
non conoscemmo noi questa vittoria!».
E Leonardo: «Innanzi ebb’io la nuda
faccia del Mondo immensa,
come quella dell’Uom che a dentro incisi.
Creai la luce in Cristo su la mensa
e creai l’ombra in Giuda.
Dell’Infinito feci i miei sorrisi.
Poi, nel vespro, m’assisi
calmo alla sommità della saggezza
ed ascoltai la musica solenne.
Per quali vie convenne
meco quest’aspra forza a tale altezza?
Come questa vecchiezza
semplice e sola attinse
il culmine ove regna il mio pensiero?
Fratello m’è chi vinse
il suo fato e tentò novo sentiero».
E il Buonarroti disse: «Io prima oscuro,
per opra più perfetta
rinascere, di me nacqui modello.
Poi mi scolpii nella virtù concetta,
come nel marmo puro
s’adempion le promesse del martello.
E posi me suggello
violento sul secolo carnale
di grandi cose moribonde carco.
Irato apersi un varco
nelle rupi all’esercito immortale
degli eroi sopra il Male
vindici; senza pace,
stirpe insonne, anelammo all’alto segno.
Ben costui che or si giace
tal cuore ebbe, s’armò di tal disdegno».
Nella notte così gli eterni spirti
riconobbero il Grande
cui sceso era pe’ tempi il lor retaggio.
Il titano giacea senza ghirlande,
senza lauri né mirti,
sol coronato del suo crin selvaggio.
E, come il primo raggio
dell’alba fu, la maggior voce disse:
«O patria, degna di trionfal fama!».
E parve che una brama
di rinnovanza dalla terra escisse,
e che le zolle scisse
dai vomeri altro seme
chiedessero a novel seminatore,
e che l’onte supreme
vendicasse la forza del dolore.
Canzon, per i tre mari
vola dal cuor che spera oltre il destino,
recando il buon messaggio a chi l’aspetta.
Aquila giovinetta,
batti le penne su per l’Apennino;
per l’aere latino
rapidamente vola,
poi discendi con impeto nei piani
sacri ove Roma è sola,
getta il più fiero grido e là rimani.
Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini
Nell’isola divina che l’etnéo
Giove alla figlia di Demetra antica
donò ricca di messi e di cavalli,
di lunghe navi e di città potenti,
d’aste corusche e di cerate canne,
di magnanimi eroi e di pastori
mel’odiosi,
dal santo lido ove apparì l’Alfeo
terribile che tenne la sua brama
immune dentro all’infecondo sale,
da Ortigia ramoscel di Siracusa,
che fu sorella a Delo e abbeverava
nell’orrore notturno la sirena
ai fonti ascosi,
il re degli inni Pindaro tebano
assiso in ferreo trono,
invocando le Grazie dal sen vasto
e l’Ardire e la Forza e l’Abondanza
sopra l’anima pura,
celebrò le vittorie dei mortali.
Per gli inni trionfali,
con l’olivo selvaggio e il bronzeo vaso,
i vincitori furono gli eguali
dei belli iddii nel sole senza occaso.
Inni, rapidi figli del furore
e della fiamma, qual degli iddii, quale
eroe, quale uomo noi celebreremo
oggi al conspetto del religioso
popolo accolto che offre alla Potenza
generata dal suo dolente grembo
una preghiera?
Il dio celebreremo noi, pel cuore
innumerevole avido di eterna
vita, l’eroe celebreremo e l’uomo
in una sola forma di bellezza
giovenile, rapita negli alti astri
ma sempre ritornante in terra come
la primavera.
Simile al mare procelloso incontro
alle foci dei fiumi,
che sforza verso le sorgenti prime
verso le auguste origini montane
la gran copia dell’acque
(beve intorno la terra e si feconda),
simile al mare l’onda
del canto volga impetuosamente
questa che palpita anima profonda
verso l’antichità di nostra gente.
Dove il veglio Stesicoro per Il’io
ereditò la cecità di Omero,
dove Pindaro assunse ai cieli il carro
del re Ierone fondatore d’Etna
e Teocrito addusse tra i bifolchi
eloquenti le Càriti dal fresco
fiato silvano,
quivi improvvisa dopo il lungo esilio
la doriense Musa ricomparve
tra l’immemore popolo, improvvisa
animò la siringa dell’occulto
Pan, cui la cera dato avea l’odore
del miele (appreso aveale a lamentarsi
il labbro umano);
e il dolore degli uomini e l’amore
degli uomini e le cieche
speranze e le bellezze della vita
e della morte e tutte le virtudi
riebbero nel Canto
la purità sublime e necessaria.
Oh sagliente nell’aria
che la nutrì, semplice nuda e sola,
come nel tempio la colonna paria,
la melodìa che vince ogni parola!
Gli Itali palpitaron di novella
attesa udendo quella giovenile
voce nell’aria limpida salire;
e l’olivo che cinge i poggi curvi
l’ungh’essi i patrii mari santo parve
alle dischiuse ciglia e ancor più santo
parve l’alloro;
però ch’eglino, tristi servi, in quella
voce riconoscessero l’antica
lor giovinezza e la meravigliosa
verginità dell’anima primiera
che creò nella luce l’immutato
ordine e bianco per gli intercol’unnii
condusse il coro.
Cantava inconsapevole, su i giorni
e su l’opre comuni
il figlio degli Ellèni in false vesti,
tra vane moltitudini loquaci,
lungi ai marmi natali;
e in cor gli ardeva una tristezza ignota,
mentre nella remota
isola i suoi teatri pel notturno
silenzio biancheggiavano e la vota
scena attendeva l’urto del coturno.
«Egli è morto, l’Orfeo dorico è morto!
Sicelie Muse, incominciate il carme
funebre! O rosignoli, annunziate
ad Aretusa ch’egli è morto e il canto
morto è con lui, e il latte non fluisce
più, né dai favi il miele, ché perito
è nella cera
per lo dolore; e il verde apio nell’orto
langue, e l’aneto aulente; e le montagne
son tacite, e le fonti nelle selve
plorano, e al mare C’èrilo fa lai.
Sicelie Muse, incominciate il carme
funebre! Varca il doriense Orfeo
l’atra riviera.»
Non sonò forse questo antico pianto
sul trapassato auleta?
«Omai chi canterà su le tue canne?
Respiran elle come le tue labbra.
Pan non si ardisce. E oppresso
tu dal silenzio della Terra sei!
Ma, se canti a colei
che pur pensosa è d’Enna in Acheronte,
ella in memoria dei narcissi ennéi
ti ridona al tuo mare ed al tuo monte.»
Non piansero così forse i selvaggi
flauti contesti con la cera e il lino,
al mar siciliano e a piè del cavo
rogo vulcanio? E le città illustri
piangevano, come Ascra per Esiodo,
per Archiloco Paro, per Alceo
Lesbo su l’acque.
Inno di gloria, irràggiati dei raggi
più fulgidi recando all’ansiosa
moltitudine, accolta nel Teatro
riconsacrato dalla reverenza,
l’imagine del giovine Cantore.
auspice e i testimonii del fatale
suolo ove nacque.
Alto pel mar duplice ei vien cantando,
il figlio degli Ellèni,
il subitaneo fiore della Madre
Ellade. Ei vien cantando la bellezza
e il dolore dell’Uomo.
Il genio della stirpe lui conduce,
pervigile. La luce
è la sua legge. E l’orizzonte immenso,
con tutto che la Terra alma produce
volgesi a lui come un divin consenso.
Saluta, mentr’ei viene, Inno, l’ignita
vetta e il lido aretùside, sospiro
d’Atene, e le vocali selve, e i fiumi
che il chiaro Ionio beve, e Siracusa
e Taormina e la natal Catana
con l’orme che v’impressero congiunte
Ellade e Roma.
La luce regna. Una profonda vita
anima le ruine respiranti
per mille bocche cerule nel mare
e nel cielo. L’alta erba occupa i gradi
marmorei, ove i secoli silenti
e invisibili ascoltano il tragedo
che non si noma.
Tra il cielo e il mare le deserte orchestre
come stromenti cavi
s’aprono per accogliere la voce
misteriosa cui risponde il coro
dei V’ènti peregrini.
E la tempesta che laggiù percote
le grandi rupi immote
contra i frangenti, e il tremito del lieve
stelo tra i rotti fregi, son le note
dell’istessa parola eterna e breve.
Italia, Italia, quale messaggero
di popoli trarrà da quel silenzio
venerando il messaggio che s’attende?
Quivi tal’uno interroga i vestigi?
pacato curvasi ad apprender come
si tagli il marmo per edificare
immortalmente?
O altrove, altrove affòrzasi il pensiero
liberatore in qualche eroica fronte
su cui ventò lo spirito dell’alba
promessa? Dove? Dove Leonardo
temprò il sorriso, penetrò le ambagi
del corpo umano, dominò la forza
della corrente?
Sotto l’ombra dell’Alpi vigilate?
Nella ligure piaggia
onde salpò la prua ferrea di cuori?
Nella candida pace della valle
umbra dove Francesco
nutrì di sé le dolci creature?
Fra l’alte sepolture
della città ch’ebbe di Dante l’ossa
e al gran nome sfavilla di future
sorti qual fredda selce alla percossa?
O nella polve (Inno d’amore, batti
l’ale tue forti!) nella sacra polve
del Fòro suscitata oggi dai ferri
animosi che rompono i suggelli
del Tempo e riconducono alla luce
dell’Anima e del Sole i testimonii
primi dell’Urbe?
Ovunque i bei pensieri e i grandi fatti
si preparino, quivi arde un altare
alla Dea Roma e il buono Eroe s’attende.
Inno, che nell’ardore della mia
anima come in fervida fucina
foggiarono le mie speranze invitte,
saluta l’Urbe!
Saluta, nella gloria del Cantore
fiorito a piè dell’Etna,
l’Aventino sul Tevere d’Italia,
il monte che salivano i Carmenti
aedi del Futuro;
però che tutto alla Gran Madre torni
e d’ogni raggio s’orni
il suo capo che sta sopra la Terra.
Sveglia i dormenti e annunzia ai desti: «I giorni
sono prossimi. Usciamo all’alta guerra!».
Nel primo centenario della nascita di Vittore Hugo
Come sopra la forza del monte
tra la selva e il fonte,
tra la palude e il fiume,
in vista all’infaticato mare,
nell’altezza dell’etra
venerabile, con suon di cetra
e di flauto, armoniosamente,
l’immune dalla morte
Eroe figlio del Nume
edificava per l’industre
e pugnace sua gente,
e pel Fato, la città illustre
di molte porte e di molte are;
così edificò Egli
nella luce e nell’ombra
l’opera d’eterne parole
che ingombra l’orizzonte
umano con la sua mole
immensa; e l’abitarono i vegli
esperti d’infiniti mali,
le vergini vereconde, i lieti
pargoli, i guerrieri sanguigni,
e i mostri carnali senza fronte,
che faceano insonni i profeti
ne’ lor chiostri di macigni,
le onte irte d’artigli e d’ali,
di cigli e di rostri.
Nazione di Dante,
se l’anima tua non è morta,
se il tuo braccio ancor vale,
se ancor la tua voce risuona,
se t’arde nella memoria
favilla del romano orgoglio,
o custode del Libro immortale,
percuoti lo scudo raggiante
sospeso alla porta
del tuo Tempio ideale,
solleva una vasta corona
dal tuo Campidoglio,
e grida: «Gloria! Gloria!
Gloria!» come nei giorni
delle tue magnificenze;
perocché oggi ritorni
l’edificator Titano
trasfigurato sopra gli anni
e i tiranni, spiriti adducendo
di amore su v’ènti di letizia,
nella sua pura vittoria
le sacre invocando potenze
testimoni al cruciato di Scizia:
«O Terra! O Madre!
O chiaro Etere! Mutato è in gioia
degli uomini quel ch’io soffersi
per la Giustizia».
Gloria all’esule Eroe che invoco,
Nazione di Dante, all’aedo
che seppe pur l’altra parola
del Portatore-di-fuoco!
«Più grato m’è l’esser prigione
del sasso, che servo
del tuo signore.» E sola
eragli intorno la rupe, e solo
eragli l’Oceano intorno
ululante; e il lamento
dei popoli ignavi sul vento
ferivagli il cuore ferito;
e la nuvola del suo dolore
occupava il ciel taciturno
procellosa, di folgori spessa;
e l’ira indefessa
latrava pel tragico lito
all’orrore notturno,
più trista che Niobe nel mito.
Ma egli aspettò la sua vela,
ospite sovrumano
del granito, come Eschilo a Gela
ospite fu del vulcano.
E le parole sue
costrinsero il Fato lontano
a premere la ferrea mano
su l’impero di sangue e di lue.
O nembo sonante dell’Ode,
rischiara dei tuoi rotti lampi
l’immensità del suo cuore!
La Gallia, distesa tra i campi
nubilosi e le prode
del Mediterraneo lucente,
nel suo cuore è compresa
con la profonda Ardenna
e la Provenza serena
ove canta la cicala
d’Apolline all’olivo d’Atena,
e la Bretagna silente
dai candidi lini
che prega rammemora e sogna
coronata di giunchi marini,
e la Borgogna che al ferro
duro partitor di retaggi
è madre e alle vigne opime
onde fiammea gioia s’esprime.
Integro nel suo petto
è il suo dolce paese;
e nell’anima sua ferve il solco
della nave focese
che venne recando il perfetto
dell’Ellade fiore
nel seno petroso ove nacque
Massilia a specchio dell’acque.
Ma il tutto è in lui. Nel suo petto
concluso è il mondo. Ogni raggio,
ogni tenebra in lui discende,
da lui parte. Il suo spirto selvaggio
e divino s’oscura e risplende
come la Notte, come il Giorno.
Egli è Pan, la sostanza del Cielo
della Terra e del Mare,
l’Orgiaste, il Sonoro,
il Vagabondo,
il dio dal piè caprino, dal corno
lunare, il signore del coro,
il duce dell’eterno ritorno,
che sopporta le stelle,
incita le stirpi,
dischiude la porta
delle eterne visioni.
Crescono in lui stagioni
ineffabili. La polve
dei secoli s’anima al fiato
della sua bocca e levasi in trombe
impetuose. Le tombe
gli rendono i morti e i misteri.
Dal silenzio Egli trae tutti i suoni.
I novi pensieri suoi forti
per entro alle selve dei tempi
si scagliano come leoni.
Sale il monte, scompare nell’atra
nube, parla con l’aquile e i v’ènti.
Dietro di sé lascia la turba
che latra, la città del sangue
e del lucro, la femmina molle;
fa sosta ai torrenti.
Beve, come i profeti, nel cavo
della mano, mentre all’opposta
riva rugge il fratel suo flavo.
Come l’artefice folle
del Macedone, ebro di fasto,
emulando con l’arte l’orgoglio,
foggia nel monte il colosso
del suo desiderio inumano
che cerca il dominio più vasto,
che anela il più fulgido soglio.
Come il dio degli eserciti, grida:
«Io ti darò una fronte
più dura che le fronti loro».
Veggon di lungi le genti
torreggiare quel suo simulacro.
Dicono: «Chi trasfigura il monte?».
I muscoli ingenti
constringono l’ardua ossatura
terribili come i serpenti
che attorsero Laocoonte.
Guardan l’aquile il sacro lavoro.
Egli sa ciò che deve perire,
e il segreto travaglio onde nasce
la nova speranza o la nova
beltà su la doglia del mondo,
ora curvo come sotto il pondo
di popoli morti, d’immensi
tumuli, d’infami ruine,
or raggiante di vite future.
Legioni di re, coorti
di pontefici e d’imperatori
ebri di lutti e d’incensi,
lordi di menzogne e di fuchi,
torme di carnefici sordi,
d’eunuchi infermi di paure,
moltitudini di meretrici
fameliche come le tombe,
si mutano in tacita polve
nelle profondità delle vie
nascoste; e la polve,
sitibonda sorella del fango,
riceve il pianto dei cieli; e il suono
d’una parola
v’è seminato: «La spada
si torce, la tiara si offusca,
la corona si apre,
la catena si spezza, il supplizio
si arresta. Gloria alla Terra!».
Egli canta: «Gloria alla Terra!
Benigna è la madre e severa
alle sue schiatte,
incorruttibile e certa.
Ama il figlio che pensa e che spera,
che opera e che combatte;
e l’innocenza offerta
a tutte le vite è il suo latte,
e la giustizia è la sua mammella».
Canta: «Ogni alba è novella.
La vittoria è nel grembo dell’alba
fecondata dal sogno del forte.
O Spirto, vinceremo noi
l’immite elemento, e la morte
informe che in fiumi d’oblio
i solchi profondati agguaglia.
L’un sotto il giogo dell’uomo
si curverà come giumento;
l’altra si farà bella del canto
che eterna il cuor degli eroi.
L’inno del divino
ordine sorgerà dal grido
rauco, dal fragor della battaglia.
E la bianca rondine che vola
verso l’eternità, la Speranza
del giusto, farà il suo nido
nelle fauci inerti del Destino».
Canta: «Il bisogno, aratro
infaticabile, travaglia
le moltitudini folte,
fremebonda gleba.
Innumerevoli mani
levate alla minaccia
son le spighe ond’è irto
il sanguineo campo fenduto.
Noi getteremo, o Spino,
il seme per altre raccolte.
Bandiremo conviti d’amore
con beatitudini molte.
Tesseremo la bianca tovaglia
con una invisibile spola.
Il nostro puro fromento
non patirà la mola
per convertirsi in pani.
Il ramoscel cresciuto
all’ombra del dio che consola
ornerà, con l’alloro e col mirto,
le mense pie di domani.
Il lin sincero e la lana rude
al conviva saran vestimento.
Su la porta che mai non si chiude
ove l’uom dice: «Entra e rimani»,
sarà scritta la grande parola
COMINCIAMENTO».
Ed Egli tace, nella grazia
della terra vestita di cielo,
simile al fiume che sazia
di sé le moltitudini e i campi.
Tutto il Bene è nell’occhio profondo.
La pagina del suo vangelo
palpita come l’ala
che in aere si spazia,
splende come velo che avvampi.
Tace Egli e guarda.
Il suo petto titanico esala
il soffio pacato d’un mondo.
Tace e contempla. Una scala
sorge nel suo sogno, diritta,
di crisòlito e di diamante.
All’imo un re moribondo
v’è senza eredi; e confitta
da presso v’è l’onta
d’un pastor senza legge, che spinga
i suoi cotti piedi
come quei nella bolgia di Dante.
Ma stirpi ansiose in catena
infinita vi salgono. Al sommo
dell’ansia il miracolo sta:
la suprema bellezza, la gioia
suprema, la gloria suprema:
nella Luce la Libertà.
O libera forza dell’Ode
che precipiti sopra le turbe
estuose e fai tua rapina
dei cuor maschi, e il lor palpito s’ode
fra i tuoi gridi intermesso,
e teco li traggi ed esalti
insino all’ardor che commuta
in una adamantìna
tempra il desire e il volere,
o Ardente!, quali faci arderemo
noi, quali fuochi, quali alti
roghi, quali incendii vasti
accenderemo noi presso e l’unge,
su i colli dell’Urbe, alle prode
del Tevere, nei paschi
dell’Agro, oggi, per questo che giunge
di torri incoronato
ospite del Campidoglio?
Ecco le terme, ecco i circhi, gli archi,
gli acquedotti roggi,
vertebre dei secoli, orridi ossi.
Ma se Roma si levi dal soglio
per lui onorare, oggi eretta
apparirà più grande
a questo che vien d’oltremonte
fabro di colossi,
con fragore di scudi percossi.
«Patria! Patria!» gridavan gli Ellèni
percotendo gli scudi sospesi
alle porte dei templi,
quando escivan dal bianco Teatro
pieni il petto del ditirambo
religioso
cui Eschilo dato avea l’angue
e la torcia dell’insonne Erinni.
«Patria! Patria!» E con ambo
le braccia cingean le colonne
pure, sorelle degli inni.
Percotiamo gli scudi chiamando
il dolce e terribile nome,
suggello di labbra più sante.
Colui che oggi sale il Monte
Tarpeo, l’amò d’alto amore
ché l’udì dalle labbra di Dante.
«Italia! Italia!»
Una voce d’iroso dolore
dall’adriatico mare,
dal mare che chiude altri morti,
dal mare che vide altre onte,
ripete oggi il grido, ahi, vano. E il cuore
anco spera? E la fede non langue?
Calpesta dal barbaro atroce,
o Madre che dormi, ti chiama
una figlia che gronda di sangue.
Per la morte di un distruttore
F.N. XXV AGOSTO MCM
Disse al cuore dell’uomo: «Quando
tu fervi, o cuore, largo e pieno,
simile alla grande fiumana,
beneficio e periglio dei lidi,
quivi la tua virtù s’inizia».
Disse: «Nel deserto estremo,
con risa e con gridi,
danzando e cantando,
irrompe il mio desiderio e irraggia
la sua letizia.
Nacque su le montagne eterne
la mia saggezza inumana,
su le montagne che stanno
vergini e sole
nel meriggio sereno,
nell’ardore solenne;
pregna divenne
su i culmini prossimi al Sole
la mia virtù selvaggia;
partorì su gli aridi macigni
il più giovine de’ suoi figli».
Disse: «Nel deserto estremo,
nella fulva sabbia,
sotto la rabbia
del sole, duro, violento,
silenzioso,
avido di conoscenza come
il leone di nutrimento,
senza dio, senza nome,
senza spavento
e spaventoso,
con la volontà del leone,
con la fame del leone,
famelico, sitibondo,
infaticabile, padrone
del deserto e del mondo
fui, e delle mie forze segrete.
Inesprimibile e senza nome
quel che fu il tormento
e il giubilo dell’anima mia,
quel che fu la fame e la sete
dell’anima mia!».
Disse: «Le fonti attossicate,
i fuochi graveolenti,
i sogni corrotti
e i vermi nel pane della vita
son necessarii?
Non io la mia vita
mendicai a frusto a frusto,
ma esso il mio disgusto
mi diede le forze e l’ale
che presentivano le sorgenti
dei fiumi solitarii.
E per giorni e per notti,
di monte in monte,
oltre il bene, oltre il male,
senza sosta, senza sonno,
il mio volo robusto
cercò cercò la fonte
della gioia; e la trovò in sommo.
Avido nelle acque canore
s’abbeverò il mio cuore
ove arde la mia grande estate.
Il mio cuore, ove splende
l’estate, s’abbeverò nell’acque
gelide e n’ebbe gioia infinita.
Tutta la mia vita
fu un’alta speranza.
O miei fratelli, dove siete?
Accorrete, accorrete
alla gioia che v’attende.
Troppo si piacque
della pianura
la vostra virtù. Non è sete
quella ch’estinguono i ruscelli
garruli, quella che alla cisterna
empie l’otro e vi s’indugia.
Uditemi, o miei fratelli!
Poi ch’io bevvi alla fonte apparite,
tutta la mia vita
fu una speranza eterna,
tutti i miei pensieri
per mille varchi e mille sentieri
migrarono alla terra futura.
Oh venite, fratelli in angoscia,
perché io vi mostri
la sorgente ignota
nell’alba che si leva!
Scaturisce ella con troppa
veemenza e scroscia
così che la coppa
si riempie e si vuota.
V’insegnerò come si beve.
Venite a me! Lasciate gli egri
e i vili alla bassura.
Venite perché io vi rallegri,
fratelli, ne’ cuori vostri.
Grande sarà l’estate su i monti
con gelide fonti
e silenzio infinito.
L’aquile ci porteranno il cibo
con i lor curvi rostri.
Vivremo come i v’ènti forti.
Negli occhi profondi
avremo la terra futura.
Venite a me col vostro amore
che non soccombe,
con la vostra sete
che non si placa, quanti siete
uomini che v’accresceste
di conoscimento e di dolore,
che la vita incideste
con la vostra vita dura,
che osaste abbattere le tombe
perché tal’uno risorgesse,
che seguiste il più aspro cammino
a cercar le vostre anime stesse,
che chiamaste il più crudo nemico
per guerreggiar la vostra guerra,
che santificaste nei perigli
le vostre inesorabili sorti,
venite a me su l’ultima altura!
Vivremo come i v’ènti forti.
Saremo fedeli alla terra,
fedeli alla terra dei figli,
fedeli alla terra futura».
Disse: «Il mio lavoro
fu la guerra, la mia pace
fu la vittoria.
La mia volontà fu sospesa
sul mio capo come una legge,
come una gloria,
come un nimbo d’oro.
In ogni impresa
il mio pensiere
fu la mia sola face.
Sdegnai di bere
dove bevve il gregge,
sdegnai di rimirare il cielo
oscurato dalla cava nube;
perch’io sapea che nella rupe
aerea tu eri, o sorgente
pura, o sorella dell’aria,
io sapea l’erta necessaria
per rimirarti, o cielo
pudico e ardente,
libertà, serenità d’oro.
O cielo su la mia testa
nuda, giocondo
abisso, gorgo
di luce, festa
del sole, o cielo senza
nube e senza tuono,
ecco la mia innocenza,
ecco che io risorgo
verso di te mondo
di ogni tabe e di ogni lebbra,
ecco che io sono
colui che afferma
e colui che benedice;
e per questo lottai su la terra,
per questo ebbi tanta guerra
tante armi tante ire:
per aver libere mani,
o serenità liberatrice,
miracolo d’oro sul mondo,
per avere un giorno le mani
libere a benedire!
E così benedico:
«Essere sopra ogni cosa
come il suo proprio cielo,
come il suo volubile tetto,
come la sua cerulea volta
e l’eterna sua pace». E felice
colui che benedice
così! Però che la sorgente
dell’eternità sia
il battesimale
fonte di tutte le cose,
oltre il bene, oltre il male;
e il bene e il male sien ombre
fuggitive; e su tutte le cose
unico si spanda il ridente
cielo delle sorti
misteriose;
e sia la terra una divina
tavola al divino
gioco degli iddii che tu porti,
Eternità, per colui che t’ama.
Però che io sia colui che t’ama,
o Eternità, colui che brama
il tuo anello eternale,
colui che vuole
da te il nuziale
anello del ritorno
e del divenire,
colui che ti chiama
al suo desire
ed al suo giorno,
o Eternità, per teco
generar la sua prole,
colui che fu cieco
per la possa del tuo sole
che a lungo ei mirò fiso,
colui che alfine ha un riso
vasto come un baleno
creatore sul mondo,
colui che ama il tuo seno,
il tuo seno profondo,
o Eternità, colui che t’ama!».
Così parlava l’Asceta.
Questa parola disse
colui che terribilmente visse
per la sua terribile mèta.
Così parlava
su la plebe schiava
su la moltitudine morta
colui che errò lunghi anni
pei labirinti fallaci,
per tutte le ambagi
dei secolari inganni,
e ritrovò la porta
antica della Vita bella.
Disse: «Insegno al cuore umano
una volontà novella».
Disse: «Insegno all’uomo non l’amore
del prossimo ma del più lontano,
del vertice ch’ei s’elegge.
Sia l’uomo la sua propria stella,
sia la sua legge e il vendicatore
della sua legge».
E il fiato impuro dell’uomo
lo soffocava; lo soffocava
il lezzo della bestia
inferma e vile.
Ed egli andava andava andava,
cupo ed ostile,
nell’aria gravida di tempesta,
emulo del lampo e del tuono,
ebro della sua guerra,
splendido della sua virtù, irto
de’ suoi pensieri, tra i sogni grami
di mille e mille anime stanche.
E disse: «Il tuo spirto
e la tua virtù infiammino anche
la tua agonia, come il fuoco
del tramonto infiamma la terra.
Così voglio io morire
perché a causa di me tu ami,
o fratello, sempre più la terra;
così voglio io reddire
luminoso alla gran madre terra».
Ahi che dal Fato,
cui d’evento in evento
amò di così gagliardo
amore, non gli fu dato
morire nel combattimento,
morire alzato e pronto
al più difficile varco,
nell’atto di tendere l’arco
lucido ponderoso
per l’ultimo dardo,
il grande arco d’Ulisse,
quello dal nervo che garrisce
come la rondine messaggera,
quello che tende sol uno
contro la schiera
innumerevole! Ahi che il notturno
Fato l’oppresse a mezzo dell’opra!
Ed egli stette nell’ombra
senza mutamento,
immoto, vacuo, taciturno
come un cratère spento.
Poi, come l’acqua informe
colma i cratèri
immemori del fuoco pugnace,
la materia eguale
l’agguagliò nell’ombra infinita
e nei silenzii eterni
ove si celano le norme
del ritorno e del divenire,
ove tutte le forme
dell’essere s’aprono in misteri
ineffabili e la morte è vita
e la vita è morte.
O Verità redimita
di quercia, cantami la sua vita
e la sua morte
con la possa delle antiche lire!
Canta pei figli degli Ellèni
il Barbaro enorme
che risollevò gli iddii sereni
dell’Ellade su le vaste porte
dell’Avvenire!
Io lo canterò, io figlio
degli Ellèni, con una ode
ampia, di possente volo;
perché dissi, quando udii la voce
di lui solo io solo,
dal suo esiglio nel mio esiglio,
dissi: «Questi è il mio pari.
Questo duro Barbaro che bevve
una colma tazza dell’ardente
vin campàno ed ebro di dominio
e di libertà corse i mari
armoniosi agognando il suolo
ove l’uomo per la divina
etra incedeva al fianco del dio
ed entrambi erano Ellèni,
questi è il fratel mio.
Salutammo le rosse triremi
nelle acque di Salamina
nutrice di colombe;
portammo una corona alle tombe
di Maratona».
Dissi: «O Vita, egli non sa che vive
su le rive sonore
un figlio della florida stirpe.
Io nasco in ogni alba che si leva.
Io so io so come si beva,
o Vita. E chi t’amò su la terra
con questo furore?
Chi più larghe piaghe
s’ebbe nella tua guerra
e chi ferì con spade
di più sottili tempre?
Chi di te gioì sempre
come s’ei fosse per dipartirsi?
Ah tutti i suoi tirsi
il mio desiderio scosse
verso di te, o Vita
dai mille e mille vólti,
a ogni tua apparita,
come un Tìaso di rosse
Tìadi in boschi folti,
tutti i suoi tirsi!
Io nasco in ogni alba che si leva.
Ogni mio risveglio
è come un’improvvisa
nascita nella luce:
attoniti i miei occhi
mirano la luce e il mondo.
Egli non sa come sien pure
le mie pupille, o Vita,
mirando il cielo verecondo.
Egli non sa come trabocchi
il mio cuore, simile alla grande
fiumana. Che m’insegnerà egli,
o Vita.? Io so come si danzi
sopra gli abissi e come si rida
quando il periglio è innanzi,
e come si compie sotto il rombo
della tempesta l’opera austera,
e come si combatta con l’ugne
e col rostro, e come si uccide,
e come si tessan le ghirlande
dopo le pugne».
Ma riconobbi i suoi pensieri
fraterni come il navigatore
ansio riconosce i verzieri
d’Italia da lungi all’odore
che gli recano i v’ènti.
Il tuo sole, il tuo sole,
o Italia, colorò la sua fronte,
maturò la sua saggezza forte,
converse in oro
il ferro delle sue saette.
Il barbaro pellegrino
sotto il tuo cielo alcionio
apprese il canto dal coro
alato delle tue selve aulenti.
O Italia, egli bevve il vino
delle tue vigne ambrosio;
colse il miele de’ tuoi favi meri,
le rose de’ tuoi roseti
gravi di api e di colombe. I piedi
suoi divennero leggeri
su i prati di violette.
La serenità adamantina
che s’inarca su i ghiacciai dell’erme
Alpi placò la sua furia.
Gli proposero enimmi
le rupi che nel mar di Liguria
si protendono come sfingi
coronate di fiori.
Come un novo Erme
senza caduc’èo
egli portò su la sua spalla
Dioniso infante, nelle Terme
di Caracalla,
nel Fòro, nel Colosséo.
Come Eraclito nel tempio efesio,
egli meditò la sua dottrina
illuminato dagli ori
di San Marco nell’ombra marina.
E il fresco vento etesio
gonfiò la sua vela nei meriggi
d’estate, fra Sorrento e Cuma,
sul golfo ove il Vesuvio fuma.
Quivi, o triste ombra della greca
Antigone, anima profonda
che gli fosti custode
fedele nella notte cieca,
o sorella, quivi reca
il cadavere dell’eroe,
sul golfo l’unato e grande
come l’arco ch’egli tese.
Gli alzeremo un tumulo grande,
un’altissima tomba,
là dove le coste
sono più scoscese
e il flutto più rimbomba
nelle caverne più nascoste
con le eterne risposte
alle eterne domande.
Gli daremo ghirlande
d’ulivo selvaggio e, tra le accese
faci, libàmi come all’altare.
Gli canteremo in coro una ode
misurata al respiro del mare.
Canteremo: «Qui dorme,
nella sacra Italia, sul mare
delle Sirene, sul Mare
Nostro, in vista dell’arce cumèa
dove il figlio di Venere Enea
giunse recando i Penati
di Troia ed i Fati
di Roma, qui dorme,
in vista del fuoco distruttore
e creatore
che irrompe dal cuor della Terra,
vegliato dalle antiche Mire
figlie della Notte arbitre sole
della nascita e della morte,
o prole degli Ellèni,
qui dorme, placate le ire
dopo tanta guerra,
il Barbaro enorme
che risollevò gli iddii sereni
dell’Ellade su le vaste porte
dell’Avvenire».
Per la morte di un capolavoro
Foreste su i monti, chiome fragorose
di oro di porpora e di croco
all’aquilone,
su l’aeree fronti
immense corone
che affoca il foco dei tramonti;
rosarii di rose
nate su i fonti solitarii
ancor tiepidi dell’Estate
che vi s’immerse;
orti, orti conclusi, pomarii
soavi cui l’Autunno pone
monili più gravi che quelli di Serse
poi che su le gemme celate
il bel garzone
ebro il pomo punico aperse;
voluttà della Terra, o fronde,
o fiori, o frutti,
gioia di tutti,
prole delle Stagioni sacre,
portento dell’Acqua e del Sole,
fronde, fiori, frutti,
ecco, ora nati, ora distrutti,
chi mai si duole
oggi di vostra bella morte?
quale corda piange vostri dolci lutti?
Vivono le profonde
radici nel buio attorte.
Ancóra brilleran felici
i ramicelli,
e il suco acre
si farà di miele nelle polpe bionde.
Ma la creatura infinita,
in cui la mente
dell’uom fatto dio
continuò l’opera della divina
Madre e trasfigurò la vita
sotto la specie dell’Eterno;
ma l’effigie pura
in cui l’uom solo nell’oblìo
di sé mutamente
svelò la virtù del dolore
sotto la specie dell’Eterno;
ma il mondo creato sopra la Natura,
ove con un gesto l’uom si fe’ signore
del Fato e congiunse la sua forza antica
alla sua bellezza futura
sotto la specie dell’Eterno;
ma lo specchio dell’Ideale,
o Poeti, la misura degli Eroi,
la somma dell’Arte,
il vertice del Pensiero e del Mistero,
il segno visibile dell’Immortale
muore, o Poeti, non è più.
Perisce e non si rinnovella.
Da noi si diparte; non avrà ritorno.
S’oscura per sempre nella notte eguale.
Fronde fiori frutti nel sereno giorno
rivedremo noi,
la giovine Terra, la sua genitura,
e non l’infinita creatura bella!
Piangete, o Poeti, o Eroi,
per la luce che non è più,
per la gioia che non è più.
Umiliato è l’Universo.
Menomato è l’orgoglio delle sorgenti.
Un grande fiume è inaridito.
Un gran potere s’è disperso.
Nella memoria delle genti
resta la grandezza d’un nome
come il nome d’un mito
lontano, d’un cielo abolito,
d’un dio che parlò nel silenzio degli evi,
bianchissimo sopra le nevi,
vestito di sua verità.
O Poeti, Eroi, volontà
meravigliose della giovine Terra,
date il canto e il pianto,
sopra la guerra,
alla meraviglia che non rivivrà.
Culmine delle speranze sovrumane
alta anima senza compagna,
precinta isola dal dolore infinito,
solitudine dell’abisso,
occhio aperto e fisso
nell’interno mare
della Bellezza, ebbe Egli un nome per voi?
«Chi mangia il pane
con me, mi ha alzato contro le sue calcagna»
parlava ai suoi il signore del Convito;
e il pane azzimo involto nell’erbe amare
eragli innanzi, e la tristezza era immensa.
«In verità vi dico: quegli che bagna
la mano insieme a me nel piatto,
quegli mi tradirà.» E la man nell’atto
non tremava sopra la mensa.
Udiste voi queste parole?
Parlò per voi queste parole
Egli, il Galileo? Ben le udiste
dall’anima sua che fu triste
sino alla morte?
Ebbe per voi nome Gesù
Egli, e il giorno degli azzimi era
quello che risplendea dietro la sua testa?
Piangete, o Poeti, o Eroi,
per la fiamma che non è più,
per la gloria che non è più!
Era l’eterna primavera, la festa
d’ogni ritorno;
ed Egli era nel silenzio suo profondo
solo col cuor del mondo e con la sua sorte;
e gli uomini schiavi e tardi erangli intorno.
E disse Egli queste parole:
«Dove io vo, tu non puoi seguirmi».
Ah queste udimmo noi, fratelli,
antiche parole d’eroi
che sonarono verso tutte le cime
terribili, al nembo ed al sole,
per l’erte cui il sogno sublime
impresse vestigi che furon suggelli.
«Dove io vo, tu non puoi seguirmi.»
Udimmo; e non ebbe Egli nome
per noi; non lontanar dietro le sue chiome
vedemmo la rupe di Scizia o il Calvario;
non vedemmo la croce, né l’avvoltore.
Ma, solitario
tra la sua gente, era Egli sopra il dolore
Colui che annuncia che rivela e che inizia;
ed eglino erano gli schiavi
che non veggono e che non sanno,
schiavi eterni della forza e dell’inganno;
e la creatura dal viso
lene, che soleva adagiarglisi al petto
invincibile, il suo diletto
femineo giglio
reclinato, l’anima dalle soavi
labbra, quel sorriso che parve
quasi il minor fratello del suo dolore,
anche era distante.
Ed Egli era solo, il gran cuore
era solo, incluso nel petto
come in diamante.
E non eravi per lui padre né figlio,
e non amico, e non amante.
«Ah, chi mai lo consolerà?»
dicemmo noi nello spavento.
«Chi consolerà
Colui ch’ebbe a sé testimoni
il Sole, il Vento,
le sorgenti dei Fiumi, il riso
innumerevole delle onde marine,
la madre di tutte le cose, la Terra?
Chi mai lo consolerà nel dì supremo?
L’antico Oceano? Nicodemo
con gli aromi della Giudea?
Il canto delle Oceanine?
Il lamento delle pie donne?
Qual parola nata
dal sale del mare e del pianto
lenirà l’insonne?»
E noi leggemmo sol nel gesto
delle sue mani e nell’ombra de’ suoi cigli:
«Non han le case degli uomini giacigli
per l’insonne, dov’egli giacersi voglia.
Non io m’arresto alla tua soglia.
Dove io vo, tu non puoi seguirmi.
La mia certezza canta nel mio sentiero
ed alza ai perigli colonne
trionfali sul limite degli abissi.
E’il mio pensiero più che il giorno e il domani.
So come sia dolce grappoli vermigli
premere e bei capei prolissi;
so come sia dolce una foglia, e la gola
della colomba. Ma beni più lontani
cerco, e il silenzio. Non della mia parola
io m’inebrio, ma di quel che mai non dissi».
O puro Eroe, inalzato sopra il tempo
e sopra le favole umane,
o segno visibile dell’Immortale,
che vale ora il pane
che diviso t’è innanzi? Che vale il manto
che ti traveste, e il nome che ti fa santo
nelle preci vane,
e lo stuolo inquieto che ti circonda?
Ben lungi sei tu dall’altare frequente.
Terreno e celeste,
tu sei a te stesso il tuo tempio.
Ti creò dalla più profonda
verità del suo spirto, dal più bello
ardore della sua mente quel segreto
artefice che volle foggiarsi le ale
ad attingere un ciel novello.
A similitudine di sé ti volle
quegli ch’ebbe in sé la radice
ed il fiore della volontà perfetta
con tutto il travaglio del mare
e tutte le geniture della terra
e le virtù dei saggi e degli antichi iddii
e i gèrmini senza forma e senza nome,
le semenze delle bellezze future.
A similitudine di sé ti fece
quel Prometèo meditabondo
che immune fu dal supplizio, rapitore
inviolabile, modello del Mondo.
E tu vivesti, inspirato dal più forte
alito della sua bocca che nutrita
s’era alla plenitudine della vita
e della morte.
Vivesti solo su la cima
ultima della Conoscenza,
sol tu capace
di respirarvi, imperiale
come il sire della vita e della morte,
sì lungi agli uomini e pur sì presso a loro,
vedendo il male passare, la speranza
durare, la pace seguire alla guerra,
il sogno condurre il lavoro,
ma senza felicità e senza
corona perché tu sapevi
che nata non era dalle arti
umane la gioia onde avresti
tu potuto gioire e nato non era
dal sen della Terra l’alloro
onde tu avresti potuto incoronarti.
Ahi, che rimane oggi fra i cieli
e le tombe, nella notte ove s’oscura
la tua bellezza,
nella gente cui tu raggiavi
con la bellezza la tua muta dottrina,
nella patria divina ove Leonardo
ti fece misura d’eroi,
specchio dell’Ideale, norma dell’opre,
culmine delle speranze sovrumane,
or che rimane per l’ultimo tuo sguardo,
che mai ti si scopre se non allegrezza
d’irrisori ed onta di schiavi?
Il sole declina
come te, fra i cieli e le tombe.
Su l’ampia ruina
inane caligine incombe.
E tu così dunque per sempre ti parti
dai cuori cui fin la tua ombra
fu luce e il tuo segno fu gioia?
Ten vai tu forse nel prato d’asfodelo
sorridendo verso gli eguali?
Trapassi tu di là dal velo
a contemplar le cose eterne
con fronte indicibile ed occhi immortali?
Chi verrà dietro la tua ombra?
Ah, per somigliarti
una volta, per esser degno
del tuo segno, innanzi ch’ei muoia
tal’uno di noi darà al rogo
l’error che l’ingombra!
E arderà l’anima sua pura in un atto
come in un lampo arde il potere di un cielo.
Canti della ricordanza e dell’aspettazione
Il sole declina fra i cieli e le tombe.
Ovunque l’inane caligine incombe.
Udremo su l’alba squillare le trombe?
Ricòrdati e aspetta.
Vedremo all’aurora l’Eroe sollevarsi?
Ahi dietro la nube splendori scomparsi!
Rilucono selci per fiumi riarsi.
Ricòrdati e aspetta.
Son nude le selci, son aride e nude
ma piene di fato ciascuna in sé chiude
per l’urto favilla di grande virtude.
Ricòrdati e aspetta.
E’piena di fato la muta ruina.
All’ombra dei marmi la via cittadina
si tace pensando che l’ora è vicina.
Ricòrdati e aspetta.
La polvere è un turbo di gèrmini folti.
Il rosso mattone qual sangue che sgorghi
fiammeggia novello per case e per torri.
Ricòrdati e aspetta.
Fra l’erba che cresce davanti ai palagi
terribili, spogli dell’armi e degli agi,
s’ascondono forse divini presagi.
Ricòrdati e aspetta.
E’figlia al silenzio la più bella sorte.
Verrà dal silenzio, vincendo la morte,
l’Eroe necessario. Tu veglia alle porte,
ricòrdati e aspetta.
Le città del silenzio
FERRARA, PISA, RAVENNA
O deserta bellezza di Ferrara,
ti loderò come si loda il vólto
di colei che sul nostro cuor s’inclina
per aver pace di sue felicità lontane;
e loderò la chiara
sfera d’aere e d’acque
ove si chiude
la tua melanconia divina
musicalmente.
E loderò quella che più mi piacque
delle tue donne morte
e il tenue riso ond’ella mi delude
e l’alta imagine ond’io mi consolo
nella mia mente.
Loderò i tuoi chiostri ove tacque
l’uman dolore avvolto nelle lane
placide e cantò l’usignuolo
ebro furente.
Loderò le tue vie piane,
grandi come fiumane,
che conducono all’infinito chi va solo
col suo pensiero ardente,
e quel lor silenzio ove stanno in ascolto
tutte le porte
se il fabro occulto batta su l’incude,
e il sogno di voluttà che sta sepolto
sotto le pietre nude con la tua sorte.
O Pisa, o Pisa, per la fluviale
melodìa che fa sì dolce il tuo riposo
ti loderò come colui che vide
immemore del suo male
fluirti in cuore
il sangue dell’aurore
e la fiamma dei vespri
e il pianto delle stelle adamantino
e il filtro della luna oblivioso.
Quale una donna presso il davanzale,
socchiusa i cigli, tiepida nella sua vesta
di biondo lino,
che non è desta ed il suo sogno muore;
tale su le bell’acque pallido sorride
il tuo sopore.
E i santi marmi ascendono leggeri,
quasi lungi da te, come se gli echi
li animassero d’anime canore.
Ma il tuo segreto è forse tra i due neri
cipressi nati dal seno
de la morte, incontro alla foresta trionfale
di giovinezze e d’arbori che in festa
l’artefice creò su i sordi e ciechi
muri come su un ciel sereno.
Forse avverrà che quivi un giorno io rechi
il mio spirito, fuor della tempesta,
a mutar d’ale.
Ravenna, glauca notte rutilante d’oro,
sepolcro di violenti custodito
da terribili sguardi,
cupa carena grave d’un incarco
imperiale, ferrea, construtta
di quel ferro onde il Fato
è invincibile, spinta dal naufragio
ai confini del mondo,
sopra la riva estrema!
Ti loderò pel funebre tesoro
ove ogni orgoglio lascia un diadema.
Ti loderò pel mistico presagio
che è nella tua selva quando trema,
che è nella selvaggia febbre in che tu ardi.
O prisca, un altro eroe renderà l’arco
dal tuo deserto verso l’infinito.
O testimone, un altro eroe farà di tutta
la tua sapienza il suo poema.
Ascolterà nel tuo profondo
sepolcro il Mare, cui ‘l Tempo rapì quel lito
che da lui t’allontana; ascolterà il grido
dello sparviere, e il rombo
della procella, ed ogni disperato
gemito della selva. «E’ tardi! E’ tardi!»
Solo si partirà dal tuo sepolcro
per vincer solo il furibondo
Mare e il ferreo Fato.
Le città del silenzio
RIMINI
Rimini, dove la cesariese
Aquila gli occhi dubbii al Fato avulse
col rostro e il diede al Sire che l’impulse
verso Roma sì cieco alle contese,
in te non cerco i segni delle imprese
ma le tombe cui semplici ti sculse
pe’ i Vati e i Sofi quei che al genio indulse
pur tra il furor delle mortali offese.
Dormon gli Itali e i Greci lungo il grande
fianco del Tempio, ove le caste Parche
sospesero marmoree ghirlande.
Ignorar voglio i nomi ed ascoltare
sol l’antico Pensier rombar nell’arche
come il Mar nelle conche del tuo mare.
URBINO
Urbino, in quel palagio che s’addossa
al monte, ove Coletto il Brabanzone
tessea l’Assedio d’Il’io, ogni Stagione
l’antica istoria tesse azzurra e rossa.
E Guidubaldo torna dalla fossa
a tener corte, e tornano a tenzone
il Bembo e Baldassarre Castiglione,
Giuliano de’ Medici e il Canossa.
Ascolta Elisabetta da Gonzaga
a fianco dell’esangue Montefeltro
poetar Serafino, il novo Orfeo;
o chiede la Gagliarda ond’ella è vaga,
ver lei musando l’armillato veltro,
al liutista Gianmaria Giudeo.
PADOVA
Non alla solitudine scrovegna,
o Padova, in quel bianco april felice
venni cercando l’arte beatrice
di Giotto che gli spiriti disegna;
né la maschia virtù d’Andrea Mantegna,
che la Lupa di bronzo ebbe a nutrice,
mi scosse; né la forza imperatrice
del Condottier che il santo luogo regna.
Ma nel tuo prato molle, ombrato d’olmi
e di marmi, che cinge la riviera
e le rondini rigano di strida,
tutti i pensieri miei furono colmi
d’amore e i sensi miei di primavera,
come in un lembo del giardin d’Armida.
LUCCA
Tu vedi l’unge gli uliveti grigi
che vaporano il viso ai poggi, o Serchio,
e la città dall’arborato cerchio,
ove dorme la donna del Guinigi.
Ora donne la bianca fiordaligi
chiusa ne’ panni, stesa in sul coperchio
del bel sepolcro; e tu l’avesti a specchio
forse, ebbe la tua riva i suoi vestigi.
Ma oggi non Ilaria del Carretto
signoreggia la terra che tu bagni,
o Serchio, sì fra gli arbori di Lucca
rosso vestito e fosco nell’aspetto
un pellegrino dagli occhi grifagni
il qual sorride a non so che Gentucca.
Le città del silenzio
PISTOIA
I.
T’amo, città di crucci, aspra Pistoia,
pel sangue de’ tuoi Bianchi e de’ tuoi Neri,
che rosseggiar ne’ tuoi palagi fieri
veggo, uom di parte, con antica gioia.
Come s’uccida in te, come si muoia
i Panciatichi sanno e i Cancellieri.
Fin quel de’ Sigisbuldi, tra pensieri
d’amor, grida: «Emmi tutto ‘l Mondo a noia!».
Vanni Fucci odo, come nell’Inferno
tra i sibili del serpe che l’agghiada,
«A te le squadro!» ulular furibondo.
Cino rincalza, folle del suo scherno:
«E’ piacemi veder colpi di spada
altrui nel vólto e navi andar al fondo».
II.
Or placato è nel suo marmo senese,
fuor d’ogni parte, il buon Giureconsulto;
e stanno intorno a lui nel marmo sculto
gli alunni che animò Cellin di Nese.
E’in pace la Città dal pistolese
di lama corta. Intorno al suo sepulto
dorme, né vede sul sepolcro occulto
sorridere la bella Vergiolese.
Là dove il mul nemico a Dio Signore,
col Mironne e con Vanni della Monna,
involava a Sant’Iacopo il tesauro,
ella ride il Digesto e il suo dottore,
quasi celata dietro la colonna,
Musa furtiva che nasconde il lauro.
III.
Ma nella sagrestia de’ belli arredi
io conosco un sorriso più divino.
Trema, o Pistoia, in te come il mattino
quando nasce su’ colli; e tu no ‘l vedi.
Colselo un giorno Lorenzo di Credi
forse in un giovinetto fiorentino,
stando con Leonardo e il Perugino
presso Andrea che di gloria ebbeli eredi.
Dalla tavola al marmo, ove riposa
il Forteguerri sotto il grave incarco,
si diffonde quel tremito leggero.
E la Speranza ha la maravigliosa
bocca che il Vinci incurverà com’arco
a mirar l’infinito del Mistero.
PRATO
I.
O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti,
chiusa città, forte nella memoria,
ove al fanciul compiacquero la Gloria
e la figliuola di Francesco Buti!
Spazzavento, alpe delle mie virtuti,
che lustri come di ferrigna scoria,
ove parvemi svelta alla Vittoria
penna di nibbio fra’ tuoi sassi acuti!
O lapidoso letto del Bisenzio
ove cercai le sìlici focaie
vigilato dal triste pedagogo,
camminando in disparte ed in silenzio,
mentre l’anima come le tue ghiaie
faceasi dura a frangere ogni giogo!
II.
Sul petrame ove raro striscia il biacco,
rosseggiar come sangue che s’accaglia
e incupirsi io vedea l’alta muraglia
che il Cardona scalò per dare il sacco.
E ogni sera nel verde bronzo il Bacco
infante alla nascosta mia battaglia
ridea dal fonte. «Il tuo riso mi vaglia
contra il compagno scaltro dal cor fiacco!»
E amico l’ebbi, il pargolo divino,
su l’agil coppa sua, tra i freschi getti.
Ei m’insegnava il riso di Lieo.
Or fatto è prigioniere nel museo
squallido, in mano degli scribi inetti.
Io spremo dai miei grappoli il mio vino.
III.
Ma ancóra pende sopra il capitello
florido, al sole e al vento come un grande
nido, il pergamo ricco di ghirlande
ignude, o Michelozzo, o Donatello!
Nel marmo appeso udii cantar l’augello
come nel nido; e il Duomo, che in sue bande
verdi e bianche chiudea le venerande
reliquie, fogliar vidi al sol novello.
E non il Sacro Cingolo, che v’è
tra le mura cui pinse Agnolo Gaddi,
adorai quivi reclinando il capo;
ma il metallo che Bruno di Ser Lapo
fece di grazie naturato. E caddi
in ginocchio dinanzi a Salomè.
IV.
La figlia d’Erodiade, apparita
al Tetrarca, in sua frode e in sua melode
magica ondeggia: entro il bacino s’ode
bollire il sangue della gran ferita.
Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita
danza come colei davanti a Erode,
voluttuosa; e il tuo desìo si gode
d’ogni piacer quand’ella ti convita.
Ma il Dolore guardar sai fisamente
e la Morte, e le lacrime, e lo strazio
delle bocche e l’orror de’ vólti muti.
Io ti vedea sopra la sabbia ardente
schiavo in catene; e ti vedea poi sazio
dormir sul seno di Lucrezia Buti.
V.
Filippino, in sul canto a Mercatale
quante volte intravidi pe’ razzanti
vetri del Tabernacolo i tuoi Santi
come i fiori d’un orto angelicale!
Fiori tu désti alla città natale:
freschi petali i vólti, aiuole i manti.
E intorno alla Maria le tue spiranti
grazie non ebber mai sì lievi l’ale.
Vedevi, oprando, la materna porta
ove l’antica suora in atti umìli
pregava pel figliuol del suo peccato.
Demoniaco segno, il seggio porta
al piede, come l’ara dei Gentili,
testa bicorne di capron barbato.
VI.
Tali m’ebb’io maestri. O Giuliano
da San Gallo, il tuo tempio fu misura
dell’arte a me che la sua grazia pura
mirai caldo del fren vergiliano.
La croce greca l’ordine soprano
reggea della pacata architettura,
spaziandosi in ritmo ogni figura
come il bel verso al batter della mano.
La cupola dai dodici occhi tondi
il bianco-azzurro fregio dei festoni
i fiori i frutti gli òvoli i dentelli
i dorici pilastri dai profondi
solchi eran come nelle mie canzoni
fronti sìrime volte ritornelli.
VII.
O grande architettor della Canzone,
più anni Convenevole il Grammatico,
dal Bisenzio natìo maestro erratico,
alunno t’ebbe in Pisa e in Avignone.
La fame eragli al fianco assiduo sprone;
e tu benigno al vecchierel salvatico
fosti, quando per pane e companatico
ei mise in pegno il bel tuo Cicerone.
Non la foglia di lauro ma d’assenzio
rugumando, ei tornò nel tardo autunno
alla tua terra che gli diede un’arca.
E dalla Sorga a lui verso il Bisenzio
mandò la gloria il suo divino alunno.
L’epitafio da te s’ebbe, o Petrarca.
VIII.
E Guido del Palagio, il Fiorentino,
non mandò egli sue canzoni al banco
di Porta Fuia, al mercatante Bianco,
all’orfano di Marco di Datino?
Guido le belle rime e l’angioino
fiordaliso donavagli il Re franco.
Per le terre a far paci, non mai stanco,
sen giva il vecchio vestito di lino.
«Probitas» scrisse il re nel suo diploma.
Cantava Guido: «O gentil popolano,
sia chi si vuole, ascolta il mio latino!».
E l’orfano di Marco di Datino
ripetea, tra la rascia e il pannolano:
«Recatevi a memoria l’alta Roma!».
IX.
Nel novel tempo del Decamerone
o Ser Lapo Mazzei, sottil notaio,
che buon villico foste e pecoraio
e, innanzi Fra Girolamo, piagnone,
ogni giorno s’avea vostro sermone
«Francesco ricco» in quel giardin suo gaio,
alla Porta, fiorito dal denaio
dei fondachi di Pisa e d’Avignone.
Gli mutaste in bigello ed in albagio
i drappi di Damasco e quei d’Aleppo;
ond’ei fece del Ciel l’ultimo acquisto.
Seguì nel Cielo Guido del Palagio;
e l’unta quercia del suo banco in Ceppo
ritornò, per i Poveri di Cristo.
X.
Ma al sol s’allegra in la vita serena
Messer Agnolo; e par che gli fiorisca
vermiglio il cor se Mona Amorrorisca
favelli, o canti Bianca la sirena.
Il felice Bisenzio è la sua vena.
Discorrer fa la Sapienza prisca
negli Animali, sì che le obbedisca
il buon re di Meretto Lutorcrena.
Oh di nostro parlar limpida fonte
in cui mi rinfrescai! Della Bellezza
Celso ragiona all’ombra degli allori.
Dice: «Le guance bramano bianchezza
più rimessa che quella della fronte…».
Le tue, Selvaggia che il bel Prato infiori!
XI.
E nella villa di Lorenzo Segni
sopra Sant’Anna, ove a Bernardo è caro
meditar le sue Storie o legger Maro,
e suoni e balli allegrano i convegni.
Tempo non è che d’aspro sangue impregni
la polve il Guazzalotro o il Dagomaro;
tempo è che il figlio di Fioretta a paro
col Firenzuola i molli amori insegni.
Ma il Ferrucci stramazza a Gavinana.
Scossa da Lorenzino l’ultimo urlo
getta la Libertà dalla man mozza.
Sotto il maligno agosto, in su l’alfana
bolsa cavalca giù da Montemurlo
tra gli schemi plebei Filippo Strozza.
XII.
O Libertà, colui che abbeverasti
del tuo latte alla tua sinistra mamma
sì che col nutrimento egli la fiamma
del tuo gran cor si bevve e i sogni vasti,
il Leon primogenito nei Fasti
della tua nova genitura, infiamma
de’ suoi vestigi il suol, dall’alto dramma
di Roma escito agli ultimi contrasti.
Quivi il Profugo sosta. E la giogaia,
la gleba, il fonte, l’albero, la porta
ch’egli varca, la mensa ove s’asside,
il pan che spezza, l’uomo a cui sorride
sono sacri. E il molino di Cerbaia
splenderà fin che Roma non sia morta.
XIII.
O Vaiano, Cammin di Spazzavento,
Madonna della Tosse, umili e insigni
nomi di luoghi e di fati! I macigni
e gli sterpi indagai pien di spavento.
Taceva il suolo, senza mutamento
Ma non vidi, pe’ tramiti ferrigni,
passi d’eroe? Me li facea sanguigni
tutto il sangue del cor mio violento.
Lui seguitai per monti e boschi e fiumi,
Lui vidi giungere al Tirreno, ignoto
entrar nel mare come un dio marino.
E, quando mi chinai su’ miei volumi
ebro, nel canto omerico il piloto
re d’Itaca mi parve men divino.
XIV.
Lascia che in te s’indugi la mia rima,
Città della mia chiusa adolescenza,
ove alla fiamma della conoscenza
si rivelò la mia bellezza prima.
L’anima del fanciullo è fatta opima.
Ave, ingigliata figlia di Fiorenza!
Quei ch’era ignaro della sua potenza
ora combatte a conquistar la cima.
Ti mando sette e sette spade acute
che recisero i dìttami e gli acanti
della Memoria, e n’hanno aulente il ferro.
Le promesse ti furon mantenute.
Ma il più fiero de’ mostri or m’ho davanti.
L’onta cada su me, se non l’atterro.
Le città del silenzio
PERUGIA
I.
Maschia Peroscia, il tuo Grifon che rampa
in cor m’entrò col rostro e con l’artiglio,
onde tutto il mio sangue acro e vermiglio
delle immortali tue vendette avvampa.
Certo segnato fui della tua stampa
un dì, tra ferro e fuoco io fui tuo figlio
ancor vivo, qual fecemi il Bonfiglio,
là sul muro ove Totila s’accampa.
Le catene spezzai nelle tue strade,
precipitai gli uccisi per isfregio
dalle tue torri, usai spiedo e roncone.
Brillar vidi tra il rugghio delle spade
il mio sogno di re nell’occhio regio
di Braccio Fortebraccio da Montone.
II.
Dal Palagio non scendono, o Peroscia,
i tuoi Priori le solenni scale?
L’acqua, che ai gradi della Cattedrale
terse il sangue degli Oddi, ancóra scroscia.
Tace la piazza. Il Gonfalon s’affloscia.
Vento d’odio o d’amor più non l’assale?
Ecco Astorre Baglione, a Marte eguale,
che cavalca con l’asta in su la coscia!
Anco viene Gismondo a piè, con tanta
levità che assimiglia presta lonza:
lo scolare alemanno i passi ammira;
e Grifonetto, il figlio d’Atalanta,
senza elmo, come il sole che l’abbronza
bello: valletti ha il Tradimento e l’Ira.
III.
Il magnifico Astorre a Porta Sole
mena la donna sua del sangue Ursino.
Monna Lavinia in veste d’oro fino
danza a suono di piffari e viuole.
La mensa d’ogni frutto e fior redole,
reca d’ogni ragion confetti e vino.
In quell’ora il signor di Camerino
soffia a Carlo Barciglia sue parole.
E il gobbo invesca Filippo di Braccio.
Mastro d’inganni è il bastardo: ei sghignazza
pensando a Giovan Pavolo e a Zenopia.
E, mentre Astorre nel fraterno abbraccio
sorride, su Peroscia che gavazza
versa una negra iddia la Cornucopia.
IV.
Dorme col suo bagascio Simonetto
che in vita non conobbe mai paura
ed Astorre non sa che in sepoltura
è per mutarsi il nuzial suo letto.
«Griffa! Griffa!» Il perduto giovinetto
apre tutte le porte alla congiura.
Ecco primo il bastardo. Ei raffigura
il grande Astorre al grande ignudo petto.
Questi urla: «Misero Astorre che more
commo poltrone!». E spira sotto i colpi
ciechi d’Ottaviano dalla Corgna.
Ma Gian Pavolo, il suo vendicatore
che tornerà l’ione tra le volpi,
escito è in salvo per la Porta Borgna.
V.
Giacciono su la via come vil soma
gli occisi. Or qual potenza li fa sacri?
Nei corpi è la beltà dei simulacri
che custodisce l’almo suol di Roma.
Sembrano infusi in un sublime aroma,
se ben privi de’ funebri lavacri.
Quasi letèi papaveri son gli acri
grumi, serto di porpora alla chioma.
Traggono allo spettacolo le genti,
percosse di stupore. Il Maturanzio
sogna Achille Pelìde e il Telamonio.
Ma nella cerchia di quegli occhi intenti,
o Peroscia, è un divino testimonio:
tal’un nomato Rafaele Sanzio.
VI.
Coi fanti e con le lance alle Due Porte
Iovan Pavolo vien sul suo morello.
Nitrire ode il corsiero del fratello
tradito; e il cor gli rugge: «A morte! A morte!».
Di repente rivolgesi la sorte.
«Addosso a Corgna! A me Monte Sperello!»
D’ogni banda cavalcano al macello
i partigiani in arme con le scorte.
Entra il gran falco da Sant’Ercolano
e incontra il figlio d’Atalanta. «Addio,
traditore Grifone: sei pur qua!
Non t’ammazzo. Non vo’ metter la mano
io nel mio sangue. Vattene con Dio.»
E sprona innanzi a prender la città.
VII.
Cade reciso il bello infame fiore.
Filippo Cencie con Messer Gintile
l’abbatte in su le selci. «O Grifon vile,
or tu griffa se puoi, vil traditore»
Portato è in piazza su la bara, ad ore
ventidue, come Astorre! Il grido ostile
tacesi a un tratto. Ecco la giovenile
madre china sul figlio che si muore.
Ecco Atalanta, la viola aulente,
ecco Zenopia, la soave rosa,
più belle nell’orror della gramaglia.
Inondano di pianto il moriente.
E intorno alla bellezza dolorosa
sospeso arde il furor della battaglia.
VIII.
Ben è che dal tuo vertice selvaggio
tu guardi a valle il sacro fiume nostro,
maschia Peroscia che con l’ugne e il rostro
sì togli preda e vendichi l’oltraggio.
Dalla Lupa il tuo Grifo ebbe il retaggio.
Sempre il tuo sangue splende come l’ostro.
Per dardo in torre e per flagello in chiostro
sanguina fiammeggiando il tuo coraggio.
O Turrena, città pontificale,
grande arce guelfa, al Papa e a Dio ribelle,
ligia al Sole, devota all’Aquilone,
non odi su la porta comunale,
nell’irto bronzo contra l’evo imbelle,
l’urlo del Grifo e il rugghio del Leone?
ASSISI
Assisi, nella tua pace profonda
l’anima sempre intesa alle sue mire
non s’allentò; ma sol si finse l’ire
del Tescio quando il greto aspro s’inonda.
Torcesi la riviera sitibonda
che è bianca del furor del suo sitire.
Come fiamme anelanti di salire,
sorgon gli ulivi dalla torta sponda.
A lungo biancheggiar vidi, nel fresco
fiato della preghiera vesperale,
le tortuosità desiderose.
Anche vidi la carne di Francesco,
affocata dal dèmone carnale,
sanguinar su le spine delle rose.
SPOLETO
Spoleto, non la Rocca che ti guarda
ghibellina dal Guelfo tuo nemico,
né la grandezza di Teodorico
che pensosa nel vespro vi s’attarda,
non la Borgia onde par che tu riarda
subitamente del trionfo antico,
né dal vasto acquedotto all’erto vico
segno romano ed orma longobarda
cerco, ma ne’ silenzii dell’Assunta
l’arca di Fra Filippo che dai marmi
pallidi esala spiriti d’amore
mentre nel muro pio la sua defunta
Vergine, sciolta dalla morte, parmi
piegar sul petto dell’Annunciatore.
GUBBIO
Agobbio, quell’artiere di Dalmazia
che asil di Muse il bel monte d’Urbino
fece, l’asprezza tua nell’Apennino
guerreggiato temprò con la sua grazia.
Or tristo e spoglio il tuo Palagio spazia
tra l’azzurro dell’aere e del lino.
Ma ne’ tuoi bronzi arcani il tuo destino
resiste alla barbarie che ti strazia.
E, se teco non più ridon le carte
di Oderisi cui Dante sotto il pondo
vide andar chino tra la lenta greggia,
l’argilla incorruttibile per l’arte
di Mastro Giorgio splende; e in tutto il mondo
l’alta tua nominanza ne rosseggia.
SPELLO
Spello, qual canto palpita nei petti
delle tue donne alzate in su la Porta
di Venere? La Dea che non è morta
l’arco nudo t’adorna di fioretti.
E par che il pafio pargolo saetti
nel sol novo ai precordii con accorta
ferocia strali dell’antica sorta,
come solea negli élegi perfetti.
Non l’amico di Cynthia oggi sospira
dai prati d’asfodelo i suoi patemi
campi che Ottavio diede al veterano?
Nelle tue torri imitan quella lira
i caldi v’ènti, mentre negli Inferni
sogna l’Umbria il Callimaco romano.
MONTEFALCO
Montefalco, Benozzo pinse a fresco
giovenilmente in te le belle mura,
ebro d’amor per ogni creatura
viva, fratello al Sol, come Francesco.
Dolce come sul poggio il melo e il pesco,
chiara come il Clitunno alla pianura,
di fiori e d’acqua era la sua pintura,
beata dal sorriso di Francesco.
E l’azzurro non désti anche al tuo biondo
Melanzio, e il verde? Verde d’arboscelli,
azzurro di colline, per gli altari;
sicché par che l’istesso ciel rischiari
la tua campagna e nel tuo cor profondo
l’anima che t’ornarono i pennelli.
NARNI
Narni, qual dorme in Santo Giovenale
su l’arca il senatore Pietro Cesi,
tal dormi tu su’ massi tuoi scoscesi
intorno al tuo Palagio comunale.
Sogni il buon Nerva in ostro imperiale?
o Giovanni tra gli odii in Roma accesi?
Io di secoli, d’acque e d’elci intesi
murmure che dal Nar fino a te sale.
E vidi su la tua Piazza Priora,
ove muto anco dura il cittadino
orgoglio, alzarsi una grand’ombra armata:
grande a cavallo il tuo Gattamelata,
sempiterno in quel bronzo fiorentino
che gli invidian lo Sforza ed il Caldora.
TODI
Todi, volò dal Tevere sul colle
l’Aquila ai tuoi natali e il rosso Marte
ti visitò, se il marzio ferro or parte
con la forza de’ buoi le acclivi zolle.
Ebro de’ cieli Iacopone, il folle
di Cristo, urge ne’ cantici; in disparte
alla sua Madre Dolorosa l’arte
del Bramante serena il tempio estolle.
Ma passa, ombra d’amor su la tua fronte
che infoscan gli evi, la figlia d’Almonte,
il fior degli Atti, Barbara la Bella.
E l’inno del Minor si rinnovella:
«Amor amor, lo cor si me se spezza!
Amor amor, tramme la tua bellezza!».
ORVIETO
I.
Orvieto, su i papali bastioni
fondati nel tuo tufo che strapiomba,
sul tuo Pozzo che s’apre come tomba,
sul tuo Forte che ha mozzi i torrioni,
su le strade ove l’erba assorda i suoni,
su l’orbe case, ovunque par che incomba
la Morte, e che s’attenda oggi la tromba
delle carnali resurrezioni.
Gli angeli formidabili di Luca
domani soffieran nell’oricalco
l’ardente spiro del torace aperto.
Stanno sotterra, ove non è che luca,
oggi i Vescovi e il gregge. Solo un falco
stride rotando su pel ciel deserto.
II.
Uman prodigio dell’artier da Siena,
nel ciel deserto il Duomo solitario
risplende come nel reliquiario
il Corporal sanguigno di Bolsena.
Di grandezze la sua fulva ombra è piena,
piena di Dio, piena dell’Avversario.
O Angelico, Ugolin di Prete Ilario,
Gentile, il respir vostro odesi appena!
Sola il vòto dei marmi bianchi e neri
occupa e turba la tremenda ambascia
dell’artier da Cortona, come un vento.
Ruggegli nel gran cor Dante Alighieri;
e però di sì dure carni ei fascia
il Dolore la Forza e lo Spavento.
III.
Sfolgorati procombono i Perduti,
salgon gli Eletti a ber l’alme rugiade;
e gli Arcangeli snudano le spade
mentre i Musici toccano i leuti.
Ma i re spirtali degli inconosciuti
mondi, Empedocle che le vie dell’Ade
sforza, l’amor dell’api e delle biade
Vergil’io che apre al Teucro i regni muti,
e l’Alighier grifagno che con ira
in foco in sangue in fanghe in ghiacce inerti
i peccatori abbrucia attuffa asserra,
cantano all’Uomo un inno senza lira
dall’alto; e il Tosco ha due volumi aperti,
Libro del Cielo e Libro della Terra.
Le città del silenzio
AREZZO
I.
Arezzo, come un ciel terrestro è il lino
cerulo, il vento aulisce di viola.
Ove sono Uguccion della Faggiuola
e il cavalier mitrato Guglielmino?
Non vedo Certomondo e Campaldino,
né Buonconte forato nella gola.
Alla tua Pieve il balestruccio vola;
in San Francesco è Piero, e il suo giardino.
Non vedo nella polve i tuoi pedoni
carpone sotto il ventre dei cavalli
con le coltella in mano a sbudellarli.
Van sonetti del tuo Guitton, canzoni
del tuo Petrarca per colline e valli;
e con voce d’amore tu mi parli.
II.
Bruna ti miro dall’aerea l’oggia
che t’alzò Benedetto da Maiano.
Fan ghirlanda le nubi ove Lignano
e Catenaia e Pietramala poggia.
E fànnoti ghirlande i tralci a foggia
di quelle onde i tuoi vasi ornò la mano
pieghevole del figulo pagano
quando per lui vivea l’argilla roggia.
Or rivive pel mio sogno il liberto
grèculo intento a figurar le tigri
l’evie i tripodi i tirsi le pantere.
Arar penso i tuoi campi e, nell’aperto
solco da’ buoi di Valdichiana impigri,
discoprir l’ansa infranta del cratere.
III.
Aste in selva, stendardi al vento, elmetti
di cavalieri, Costantin securo,
Massenzio in fuga, Cosra morituro,
e le chiare fiumane e i cieli schietti!
Come innanzi a un giardin profondo io stetti,
o Pier della Francesca, innanzi al puro
fulgor de’ tuoi pennelli; e il sacro muro
moveano i fiati dei pugnaci petti.
Ma il Vincitore e il Labaro e Massenzio
e la bella reina d’Asia oblìa
il mio cor; ché levasti più grand’ala!
Presso l’arca del crudo Pietramala
vidi il fiore di Magdala, Maria.
E un greco ritmo corse il pio silenzio.
IV.
Forte come una Pallade senz’armi,
non ella ai piè del mite Galileo
si prostrò serva, ma il furente Orfeo
dissetò arso dal furor dei carmi.
Qui da tristi occhi profanata parmi,
mentre a specchio del Ionio o dell’Egeo
degna è che s’alzi in bianco propileo
come sorella dei perfetti marmi.
Ellade eterna! Non il vaso d’olio
odorifero è quel di Deianira,
ov’essa chiuse il dono del Biforme?
Per lei Ristoro ode cantar le torme
degli astri, come il Samio; e su la lira
Guido Monaco tenta il modo eolio.
CORTONA
I.
O Cortona, l’eroe tuo combattente
non è già quel gagliardo che s’accampa
giuso in Inferno alla penace vampa
ove si torce la perduta gente?
Pur le Vergini crea la man possente
e i Chèrubi, usa all’affocata stampa,
come l’Etrusco orna la dolce lampa
e di macigni alza la porta ingente.
Chiusa virtù d’antiche primavere,
urbe di Giano, irrompe nel tuo Luca.
Maravigliosamente in lui tu vigi.
Forza del mondo è il tuo robusto artiere.
Sparvero come in vortice festuca
i tuoi tiranni Uguccio ed Aloigi.
II.
O Corito, perché la Lampa è priva
di nutrimento? Io vidi messaggera,
grande come Call’iope, leggera
come Aglaia, recar l’olio d’oliva.
Ecco, nel bronzo la Gorgóne è viva;
nuota il delfino, corre la pantera;
segue le melodíe di primavera
Sileno su la fistola giuliva.
Bacco e gli aspetti delle Essenze ascose
fan di fecondità ricco il metallo.
Or versa nel suo cavo l’olio puro!
La vital Lampa in cui l’arte compose
tra mostri e iddii l’Onda marina e il Phallo,
tu sospendila accesa al dio futuro.
III.
Dirompendo col vomere l’antica
gleba etrusca il bifolco, a Sepoltaglia,
all’Ossaia, la spada e la medaglia
scopre laddove ondeggerà la spica.
Chi sa, nell’ansia della sua fatica
sotto l’ignea fersa, non l’assaglia
un sùbito furore di battaglia
a trionfar la sorte sua nemica!
Muzio Attèndolo Sforza nella rovere
di Cotignola gitta il suo marrello
e ferrato cavalca al gran destino.
Sono le glebe tue fatte sì povere,
o Italia, che non sórgavi un novello
Eroe dall’aspro sangue contadino?
BERGAMO
I.
Bergamo, nella prima primavera
ti vidi, al novel tempo del pascore.
Parea fiorir Santa Maria Maggiore
di rose in una cenere leggera.
E per l’aer volar pareano a schiera
i chèrubi fuggiti da Trescore,
quei che Lorenzo Lotto il dipintore
alzò fra i tralci della Vigna vera.
Davanti la gran porta australe i sassi
deserti verzicavano d’erbetta,
quasi a pascere i due vecchi leoni.
Dolce correa per la città dei Tassi
la melode a destar la verginetta
Medea sepolta presso il Coleoni.
II.
Destarsi la dormente, qual la pose
su l’origlier di marmo l’Amadeo:
gli occhi aprirsi, le labbra LAUS DEO
clamare, le due mani sparger rose:
quest’opere vid’io meravigliose
del lene April; ma in vetta al mausoleo,
tutt’oro l’arme, il gran Bartolomeo
pronto imperar tra le Virtù sue spose.
Non diemmi forse l’alto Condottiere,
benigno a’ suoi ed a’ nimici crudo,
col suo gesto il segnal della riscossa?
Oh seme delle nostre primavere!
Triplice egli ebbe nell’invitto scudo
il carnal segno della maschia possa.
III.
L’ombra canuta del Guerrier sovrano
a Malpaga erra per la ricca l’oggia,
mutato l’elmo nel cappuccio a foggia,
tra i rimadori e i saggi in atto umano.
E tu, Bergamo, il suo sepolcro vano
chiudi. Ma all’aspro vento che da Chioggia
sìbila è vivo! Ancor di strage ha roggia
lunghia e la pancia il suo stallon romano.
Stretto nel pugno il fólgore di guerra,
i fanti contra Galeazzo ei sferra
tonando co’ mortaro e la spingarda.
Arcato il duro sopracciglio, ei guarda
di su la manca spalla irta di piastra;
e, bronzo in bronzo, nell’arcion s’incastra.
CARRARA
I.
Carrara, morti son vescovi e conti
di Luni, e son dispersi i loro avelli;
gli Spinola e Castruccio Antelminelli
son morti, e gli Scaligeri e i Visconti;
ed Alberico che t’ornò di fonti,
gli antichi tuoi signori ed i novelli.
Ma su quante città regnano i belli
eroi nati dal grembo de’ tuoi monti!
Quei che li armò di soffio più gagliardo,
quei fa su te da vertice rimoto
ombra più vasta che quella del Sagro.
E non il santo martire Ceccardo
t’è patrono, ma solo il Buonarroto
pel martirio che qui lo fece magro.
II.
Su la piazza Alberica il solleone
muto dardeggia la sua fiamma spessa;
e, nel silenzio, a piè della Duchessa
canta l’acqua la rauca sua canzone.
Dalla Grotta dei Corvi al Ravaccione
ferve la pena e l’opera indefessa.
Scendono in fila i buoi scarni l’ungh’essa
l’arsura del petroso Carrione.
S’ode ferrata ruota strider forte
sotto la mole candida che abbaglia,
e il grido del bovaro furibondo,
ed echeggiar la bùccina di morte
come squilla che chiami alla battaglia,
e la mina rombar cupa nel fondo.
III.
Arce del marmo, in te rinvenni i segni
che t’impresse la forza dei Romani;
sculti al sommo adorai gli Iddii pagani;
e dissi: «O Roma nostra, ovunque regni!».
Dissi: «O mio cuore, or fa che tu m’insegni
la rupe che foggiar volea con mani
di foco il grande Artier, sì che i lontani
marinai la vedesser dai lor legni».
E dal Sagro alla Tecchia, da Betogli
al Polvaccio, da Créstola alla Mossa
cercai l’arcana imagine scultoria.
Tutta l’Alpe splendea d’eterni orgogli.
«O cuor» dissi «il tuo sangue sì l’arrossa!»
E in ogni rupe vidi una Vittoria.
Le città del silenzio
VOLTERRA
Su l’etrusche tue mura, erma Volterra,
fondate nella rupe, alle tue porte
senza stridore, io vidi genti morte
della cupa città ch’era sotterra.
Il flagel della peste e della guerra
avea piagata e tronca la tua sorte;
e antichi orrori nel tuo Mastio forte
empievan l’ombra che nessun disserra.
Lontanar le Maremme febbricose
vidi, e i plumbei monti, e il Mar biancastro,
e l’Elba e l’Arcipelago selvaggio.
Poi la mia carne inerte si compose
nel sarcofago sculto d’alabastro
ov’è Circe e il brutal suo beveraggio.
VICENZA
Vicenza, Andrea Palladio nelle Terme
e negli Archi di Roma imperiale
apprese la Grandezza. E fosti eguale
alla Madre per lui tu figlia inerme!
Bartolomeo Montagna il viril germe
d’Andrea Mantegna in te fece vitale.
La romana virtù si spazia e sale
per le linee tue semplici e ferme.
Veggo, di là dalle tue mute sorti,
per i palladiani colonnati
passare il grande spirito dell’Urbe
e, nel Teatro Olimpico, in coorti
i vasti versi astati e clipeati
del Tragedo cozzar contra le turbe.
BRESCIA
Brescia, ti corsi quasi fuggitivo,
nell’ansia d’una voluttà promessa!
Ed ebbi onta di me, o Leonessa,
per la vil fiamma che di me nudrivo.
Sol cercai nel tuo Tempio il vol captivo
della Vittoria, con la fronte oppressa.
Repente udii su l’anima inaccessa
fremere l’ala di metallo vivo.
Bella nel peplo dorico, la parma
poggiata contro la sinistra coscia,
la gran Nike incidea la sua parola.
«O Vergine, te sola amo, te sola!»
gridò l’anima mia nell’alta angoscia.
Ella rispose: «Chi mi vuole, s’arma».
RAVENNA
Ravenna, Guidarello Guidarelli
dorme supino con le man conserte
su la spada sua grande. Al vólto inerte
ferro morte dolor furon suggelli.
Chiuso nell’arme attende i dì novelli
il tuo Guerriero, attende l’albe certe
quando una voce per le vie deserte
chiamerà le Virtù fuor degli avelli.
Gravida di potenze è la tua sera,
tragica d’ombre, accesa dal fermento
dei fieni, taciturna e balenante.
Aspra ti torce il cor la primavera;
e, sopra te che sai, passa nel vento
come pòlline il cenere di Dante.
Canto di festa per calendimaggio
Uomini, qual mai voce oggi si spera
nei campi della terra taciturna,
nelle città fatte silenziose,
nei puri solchi del rinato pane
e nelle selci delle vie maestre?
Qual parlerà vento di primavera
mentre si tace l’opera diurna,
se il giusto Sole genera le rose
presso le soglie e intorno alle fontane,
lungo le siepi e su per le finestre?
Uomini, qual s’attende messaggera
che tra le man sue certe arrechi l’urna
dei beni ignoti e, pallida di cose
ineffabili, annunzii la dimane
alla potenza del dolor terrestre?
Uomini operatori, anime rudi
ansanti nei toraci vasti, eroi
fuligginosi cui biancheggian buoni
i denti in fosco bronzo sorridenti
e le tempie s’imperlano di stille;
voi che torcete il ferro su le incudi
il pio ferro atto alle froge dei buoi,
alle unghie dei cavalli, atto ai timoni
dei carri, atto agli aratri, agli strumenti
venerandi delle opere tranquille,
voi presso il fuoco avito seminudi
artieri delle antiche fogge; e voi
negli arsenali ove dà lampi e tuoni
il maglio atroce su le piastre ardenti,
atleti coronari di faville;
e voi anche, nei porti ove la nave
onusta approda, onde si parte onusta,
che recate su l’òmero servile
con vece alterna le ricchezze impure
fluttuanti nel traffico del mondo;
o voi che a piè delle inesauste cave,
pel nobile arco e per la porta angusta,
pel tempio insigne e pel fumoso ovile,
polite nelle semplici misure
la pietra che azzurreggia o il marmo biondo;
e voi, destri in quadrar la sana trave
pel tetto, in far la madia di robusta
quercia e di bosso l’arcolaio gentile,
inchini al pianto delle fibre dure
sotto la pialla o al tornio fremebondo;
uomini solitarii, su l’erbosa
via dove giunge suono di campane
fioco e quell’erba assorda il passo raro,
dati all’opra dei padri, senza pena
e senza gioia e senza mutamento;
uomini in alleanza minacciosa
di volontà ribelli entro l’immane
opificio vorace ove l’acciaro
con suo moto infallibile balena
ostile come nel combattimento;
o uomini, oggi che il lavoro posa
e il sudore non bagna il vostro pane
e letifica tutti gli occhi il chiaro
giorno, ascoltate la voce serena
che spazia ai campi e alle città sul vento.
Or si tace stridore di metalli,
rombo d’acque, e il vostro ànsito, operai.
Stan mute nel mistero le immortali
Forze signoreggiate dai congegni
lucidi e vigilate dagli schiavi.
Il sol di maggio brilla su i cristalli
dei tetti immensi come su i ghiacciai.
Tinte in sanguigno, dentro gli arsenali
ove marcì la Gloria in vecchi legni,
le ferrate carcasse delle navi
grandeggiano deserte. O poggi, o valli,
o per ovunque nevi di rosai!
Rondini su l’argilla dei canali
molli! Ombre delle nubi e soffii pregni
di pòlline su i pascoli soavi!
Torbidi uomini, uscite dalle porte,
disertate le mura ove il tribuno
stridulo, ignaro del misterioso
numero che governa i bei pensieri,
dispregia il culto delle sacre Fonti;
però che il verbo della nova sorte
ultimamente vi dirà sol uno
che ascoltato abbia il canto glorioso
dei secoli e con gli occhi suoi sinceri
contemplato il fulgor degli orizzonti.
Sol chi si nutre della terra è forte.
Glorificate in voi la Madre! Ognuno
la sentirà presente al suo riposo.
Di beltà si faran gli animi alteri,
di nobiltà s’accenderan le fronti.
E’tutto il cielo come un fermo sguardo
su voi, ma l’erbe un palpito frequente
hanno come le ciglia per soverchio
lume. E gli olivi son come una veste
di verità su i colli inginocchiati.
Il fiume lento, simile al vegliardo,
reca la verità; pure il silente
lago la custodisce nel suo cerchio
di rupi; e l’armonia delle foreste
l’accompagna, e l’allodola dei prati.
Sembra che in ogni gleba un cuor gagliardo
pulsi. Ed ecco il passato a voi presente
come un sepolcro che non ha coperchio!
Ricca è l’antica Madre onde nasceste.
La sua mammella abbeveri i suoi nati.
Poi, Sol calando, ai reduci dal puro
giòlito la Città sembri d’amore
ardere co’ i palagi e le fucine,
co’ i lupanari e con le cattedrali,
oh come bella, avida e furibonda!
Il gesto dell’eroe verso il futuro
amplia la piazza; sola erge il vigore
d’una gente la torre; alle ruine
auguste sopra seggono fatali
presagi; sta nell’anima profonda
la virtù del pensiero nascituro;
la volontà si tempra nel dolore;
l’atto sublime sfolgora; divine
armonie surgon dai più crudi mali.
Glorificate la Città feconda!
Quivi restò la testimonianza
della forza magnifica e pugnace
che ben commetter seppe il marmo, eletto
nei monti ad eternar la sua memoria.
Uomini, in voi glorificate l’Uomo!
Il superbo disìo della possanza
quivi trovar soleva la sua pace
nell’edificio esculto, ai cieli eretto
qual visibile canto di vittoria.
Uomini, in voi glorificate l’Uomo!
Il vestimento d’ogni alta speranza
è la bellezza. Ogni conquista audace
non par compiuta, in terra, se un perfetto
fior non s’esprima dall’umana gloria.
Uomini, in voi glorificate l’Uomo!
Or quella torna, ch’era dipartita,
del Mare Egeo mirabil Primavera?
Par che un ìgneo spirito si mova
dal santo lido ad infiammare il mondo.
Glorifichiamo in noi la Vita bella!
La bellezza escir può dall’incallita
mano del fabro, s’ei la sua preghiera
alzi verso le Forme dalla nova
anima sua piena d’ardor giocondo.
Glorifichiamo in noi la Vita bella!
Sol nella plenitudine è la Vita.
Sol nella libertà l’anima è intera.
Ogni lavoro è un’arte che s’innova.
Ogni mano lavori a ornare il mondo.
Glorifichiamo in noi la Vita bella!
Canto augurale per la nazione eletta
Italia, Italia,
sacra alla nuova Aurora
con l’aratro e la prora!
Il mattino balzò, come la gioia di mille titani,
agli astri moribondi.
Come una moltitudine dalle innumerevoli mani,
con un fremito solo, nei monti nei colli nei piani
si volsero tutte le frondi.
Italia! Italia!
Un’aquila sublime apparì nella luce, d’ignota
stirpe titania, bianca
le penne. Ed ecco splendere un peplo, ondeggiare una chioma…
Non era la Vittoria, l’amore d’Atene e di Roma,
la Nike, la vergine santa?
Italia! Italia!
La volante passò. Non le spade, non gli archi, non l’aste,
ma le glebe infinite.
Spandeasi nella luce il rombo dell’ali sue vaste
e bianche, come quando l’udìa trascorrendo il peltàste
su ‘l sangue ed immoto l’oplite.
Italia! Italia!
Lungo il paterno fiume arava un uom libero i suoi
pingui iugeri, in pace.
Sotto il pungolo dura anelava la forza dei buoi.
Grande era l’uomo all’opra, fratello degli incliti eroi,
col piede nel solco ferace.
Italia! Italia!
La Vittoria piegò verso le glebe fendute il suo volo,
sfiorò con le sue palme
la nuda fronte umana, la stiva inflessibile, il giogo
ondante. E risalìa. Il vomere attrito nel suolo
balenò come un’arme.
Italia! Italia!
Parvero l’uomo, il rude stromento, i giovenchi indefessi
nel bronzo trionfale
eternati dal cenno divino. Dei beni inespressi
gonfia esultò la terra saturnia nutrice di messi.
O madre di tutte le biade,
Italia! Italia!
La Vittoria disparve tra nuvole meravigliose
aquila nell’altezza
dei cieli. Vide i borghi selvaggi, le bianche certose,
presso l’ampie fiumane le antiche città, gloriose
ancóra di antica bellezza.
Italia! Italia!
E giunse al Mare, a un porto munito. Era il vespro.
Tra la fumèa rossastra
alberi antenne sàrtie negreggiavano in un gigantesco
intrico, e s’udìa cupo nel chiuso il martello guerresco
rintronar su la piastra.
Italia! Italia!
Una nave construtta ingombrava il bacino profondo,
irta de l’ultime opere.
Tutta la gran carena sfavillava al rossor del tramonto;
e la prora terribile, rivolta al dominio del mondo,
aveva la forma del vomere.
Italia! Italia!
Sopra quella discese precìpite l’aquila ardente,
la segnò con la palma.
Una speranza eroica vibrò nella mole possente.
Gli uomini dell’acciaio sentirono subitamente
levarsi nei cuori una fiamma.
Italia! Italia!
Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi
di strage alla tua guerra
e per le tue corone piegarsi i tuoi lauti e i tuoi mirti,
o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,
aroma di tutta la terra
Italia, Italia,
sacra alla nuova Aurora
con l’aratro e la prora!