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27 Gennaio 2019Fonologia
27 Gennaio 2019Traccia di un tema sui problemi della immigrazione
Traccia del tema
L’emergenza profughi è una triste conseguenza della povertà e delle guerre. Migliaia di persone ogni giorno sono costrette ad affrontare viaggi pericolosi (in alcuni casi mortali) senza avere una casa, un lavoro, e una patria, né là dove partono, né là dove arrivano. Che sentimenti suscita in te l’arrivo delle carrette del mare con il loro carico di derelitti?
Utilizza i seguenti documenti presi dalla rete internet per tessere” un discorso sull’argomento. Cerca di esprimere in modo coerente la tua tesi.
1) Profughi dalla Libia
da L’Onu all’Italia: accogliete i rifugiati «200-300 mila migranti in arrivo»
Nuovi sbarchi a Lampedusa
Corriere della Sera – 22 febbraio 2011
MILANO – C’è il rischio che arrivino in Italia 200-300 mila migranti in fuga dalla Libia. E’ uno degli scenari – secondo quanto si apprende da fonti governative – emerso nel vertice a palazzo Chigi di martedì. Alla riunione, presieduta dal premier Silvio Berlusconi, hanno partecipato i ministri degli Esteri, Franco Frattini, della Difesa, Ignazio La Russa, dell’Economia, Giulio Tremonti, del Lavoro, Maurizio Sacconi, della Giustizia, Angelino Alfano, e dell’Interno, Roberto Maroni. Il governo ha deciso di costituire un comitato permanente sulla crisi libica. «E’ inimmaginabile – ha spiegato La Russa – pensare che tocchi solo all’Italia arginare questa emergenza». Il comitato permanente servirà controllare i flussi degli immigrati, anche se è difficile fare una stima sui possibili arrivi. Continuano, intanto, gli sbarchi a Lampedusa. Martedì sera è arrivato nel porto dell’isola un barcone con a bordo 197 migranti, tutti tunisini, fra cui tre donne. E mercoledì mattina è approdato il motopesca mazarese Chiaral’una, con a bordo 38 migranti tutti maschi, rimasti per due giorni in balia del mare.
2) Profughi dal Sudan
Darfur, il dramma senza fine dei profughi sudanesi
Panorama – 12 agosto 2008
In genere, quando si parla della situazione del Darfur, si fa riferimento alla guerra che affligge i sudanesi dal 2003, al ruolo giocato dal governo sudanese nel trasformare il conflitto in genocidio, al disinteresse della maggior parte dei Paesi occidentali e al continuo approvvigionamento di armi ai ribelli garantito da Cina, Russia e Iran. Difficilmente si racconta quello che succede nel Paese o si descrive la vita nei campi dei rifugiati. Panorama.it ne ha parlato con Silvia Colona, coordinatrice di uno dei sei progetti portati avanti da Medici Senza Frontiere in Sudan. Colona, nello staff di MSF da tre anni e in Darfur già da dieci mesi, è responsabile per MSF del campo rifugiati Kalma, dove vivono più di 100.000 sudanesi. Oltre alla clinica di Kalma, ne coordina anche un’altra mobile temporanea in un’area (Sakeli) dove circa 10,000 sfollati si sono recentemente raggruppati per sfuggire al conflitto che sta distruggendo i loro villaggi d’origine. In realtà, ci spiega Colona, chiamare questo luogo un campo per IDPs (Internally Displaced People) è un eufemismo: si tratta piuttosto di unininterrotta distesa di sabbia senza acqua, latrine, case o strade. Qua e là sorgono delle tende” improvvisate con quattro canne di bambù e qualche straccio che i rifugiati usano per ripararsi sia nelle notti di vento gelido sia nelle giornate di sole cocente”.
3) Profughi alla ricerca di un lavoro
Immigrazione: rifugiati, “la difficile integrazione nel tessuto socio-lavorativo italiano”
Nanni Magazine – 2 luglio 2010
di Silvia D’Ambrosi
Sarti, calzolai, magazzinieri, occupazioni a termine: i rifugiati alla ricerca di un qualsiasi lavoro che possa garantire la sopravvivenza economica per sé e per i familiari rimasti nei paesi d’origine, spesso in territori pericolosi.
Non sono immigrati, non propriamente. In Italia, come in molti altri Paesi, esistono i rifugiati, anch’essi in cerca di lavoro. Rifugiato è, chi dopo esser passato per la tappa del richiedente asilo, è stato riconosciuto da un’apposita Commissione come ‘meritevole’ – è questo il termine tecnico – del riconoscimento dello status di rifugiato e dunque meritevole, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, di ricevere dallo Stato protezione sussidiaria o umanitaria. Le Commissioni (sono circa una decina in Italia) sono composte da funzionari dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), da un prefetto che le presiede, da un funzionario delle forze di polizia e da un rappresentante dell’Ente locale.
I richiedenti asilo (sudanesi, etiopi, somali, eritrei e afgani), però, si trovano in una sorta di limbo, in attesa. Secondo il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR), solo a Roma, attualmente, i richiedenti asilo sono almeno 2mila. Vivono in condizioni di alloggio e sanitarie drammatiche, tanto che “visitare i loro accampamenti è come visitare i campi in Darfur, non sembra di essere Roma”, aggiungono gli operatori del CIR.
Ottenuto il riconoscimento, il rifugiato ha scelto il suo Paese di adozione secondo il Regolamento Dublino II, in vigore nell’Unione europea. Il regolamento stabilisce che l’Italia, ad esempio, nel momento in cui riconosce lo status di rifugiato, è responsabile della protezione di questa persona nei confronti di tutta l’Unione europea. Molto rari sono i casi di accordi tra stati per il trasferimento di rifugiati. Dunque, in quanto responsabile, è l’Italia che si fa carico del percorso di integrazione del rifugiato.
Un’integrazione che passa necessariamente anche per l’inserimento nel mercato del lavoro. I rifugiati “hanno parità di diritti rispetto ai cittadini italiani e ai migranti per quanto riguarda l’accesso al mercato del lavoro, ma non hanno canali preferenziali. Non sono considerati lavoratori svantaggiati in alcun modo”, Valeria Carlini, responsabile dei progetti di integrazione socio-economica per il CIR, si sofferma sul sistema di accoglienza in Italia per richiedenti asilo e rifugiati. “Il sistema di accoglienza è composto da più di cento progetti locali. Per quei rifugiati che entrano a farne parte, i progetti prevedono anche attività di orientamento lavorativo. I servizi esistenti, centri di accoglienza o strutture del territorio sociale, cercano di creare dei percorsi di integrazione lavorativa specifici. Quest’anno, il Fondo europeo per i rifugiati, gestito dal ministero dell’Interno in quanto autorità responsabile in Italia, ha messo a bando dei fondi per creare percorsi di integrazione socio-economica, proprio perché lo scoglio lavoro rende particolarmente difficoltosa un’integrazione reale nel tessuto italiano”.
Per questa ragione sono stati creati dei progetti ad hoc per favorire l’inserimento socio-economico dei rifugiati appartenenti a categorie vulnerabili (vittime di tortura, minori non accompagnati, donne con figli o nuclei monoparentali). “Il CIR gestisce uno di questi progetti, chiamato ‘Intrecciare percorsi, integrare persone’ – continua la Carlini -, che come obiettivo iniziale aveva quello di accompagnare verso l’integrazione economica e lavorativa 42 utenti nelle città di Roma, Napoli, Ancona e Caserta. Il progetto sta per terminare e stiamo per concludere 46 percorsi di integrazione lavorativa. Abbiamo lavorato soprattutto attraverso lo strumento del tirocinio formativo (il più frequentemente utilizzato nei percorsi di facilitazione al lavoro). Si sono creati dei contatti con le aziende, ed abbiamo attivato più di 30 tirocini nelle quattro città oltre a 18 percorsi di formazione”.
Che tipo di occupazione riescono a trovare i rifugiati?
“Come CIR ci muoviamo tendenzialmente lungo due direttive. Abbiamo una serie di contatti organici con alcune realtà della grande distribuzione (IPERCOOP, IKEA), che hanno tra i loro dipendenti un forte turn-over e quindi garantiscono una buona possibilità di inserimento, anche se per brevi periodi, per lavoro stagionale, sostituzione maternità o perché c’è un ricambio all’interno dell’organico. Il secondo canale che scegliamo è quello dei piccoli artigiani, che continuano ad avere un mercato locale sviluppato. E’ un canale che ci consente di coniugare l’esperienza pregressa di alcuni rifugiati. Per la prima volta, quest’anno abbiamo stabilito contatti con piccole realtà artigiane – calzolai, sarti – e i tirocini stanno funzionando piuttosto bene, tanto che alcune persone sono state confermate, certo, non con contratti a tempo indeterminato, ma comunque contratti di lavoro regolare. Il tirocinio si conferma, quindi, uno strumento indispensabile per due ragioni. La prima è perché mette in condizione di conoscere il mercato del lavoro italiano, parlo del modello organizzativo, soprattutto in realtà complesse come quelle della grande distribuzione, mette in contatto con persone italiane e fa sviluppare il vocabolario ed il linguaggio anche in ambito lavorativo. La seconda è perché consente di far entrare in contatto i datori di lavoro direttamente con i rifugiati, evitando tutta la fase di selezione, particolarmente svantaggiosa per i rifugiati, perché spesso mancano competenze linguistiche o titoli di studio riconosciuti, penso ai curricula, alle presentazioni da allegare”.
Dal vostro osservatorio privilegiato quali sono le aspettative dei rifugiati in ambito lavorativo, cosa sperano?
“L’aspettativa è evidentemente avere un lavoro che serva per poter vivere dignitosamente in Italia e inoltre, spesso e volentieri, a sostenere le famiglie nei Paesi di origine o di transito. Questa è in assoluto la principale aspettativa: uno stipendio che possa garantire serenità economica sia per il rifugiato che per i suoi parenti, rimasti in situazioni di pericolo. Desiderano, poi, attraverso un’integrazione reale, ricongiungersi con i familiari, anche in questo caso la sicurezza economica è fondamentale. Quindi i fattori legati al versante economico-lavorativo sono predominanti, gli altri, che riguardano la soddisfazione personale, la continuazione di un proprio percorso professionale, vengono messi da parte, la necessità economica mette in secondo piano velleità o aspirazioni circa un mestiere piuttosto che un altro. Purtroppo il CIR, che da vent’anni si occupa di integrazione socio-economica dei rifugiati, ha spesso constatato che la tipologia di inserimento lavorativo dei rifugiati si posiziona spesso ai gradini più bassi dell’offerta di lavoro, rispetto a quelle che erano le professioni di ciascuno nei Paesi d’origine. Spesso sono occupazioni remunerate così poco da non permettere di raggiungere l’obiettivo di indipendenza e autosufficienza economica cui aspirano maggiormente. Non scorderò mai quando, anni fa, cominciando a lavorare su un progetto di integrazione lavorativa per rifugiati e chiedendo loro che lavoro volessero fare, la risposta era ‘tutti’, perché essenziale era ed è per loro poter camminare sulle proprie gambe”.
4) Profughi per ricongiungersi con la famiglia
da La scuola multiculturale (sito RAI.IT)
Lo stabilizzarsi del fenomeno migratorio nel nostro paese ha determinato l’aumento progressivo degli allievi stranieri. Infatti, se dieci anni fa c’erano 37 mila studenti stranieri iscritti nella scuola italiana, quest’anno le cifre parlano di 300 mila iscritti appartenenti, fenomeno unico in Europa, a 191 etnie diverse.
Molti di loro sono nati in Italia, altri sono arrivati per ricongiungersi alla famiglia e alcuni di loro sono profughi, sfuggiti a guerre, pericoli o povertà.
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[…] Emergenza profughi Traccia di un tema sui problemi della immigrazione, corredata da alcuni documenti per argomentare e imbastire il discorso […]