Giorgio Gaber Il teatro del pensiero
27 Gennaio 2019Giulia Barboni
27 Gennaio 2019di Rebecca Rossiello
Gran parte degli intellettuali ha considerato e continua a considerare il tema della felicità troppo disimpegnante per essere trattati. Bauman, al contrario, non ha avuto paura di parlare di quella che è l’aspirazione che accomuna l’intera umanità. Spiegando cos’è la felicità nel documentario La Teoria svedese dell’amore”, il teorico ha detto che non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Tanto più siamo in grado di combattere, lottare, di fare scelte significative, tanto più si accorcerà la distanza che ci separa dalla felicità. Secondo Bauman a contribuire a dimenticare la felicità sono stati la smania del desiderio e il consumismo di massa. Inoltre, Bauman sosteneva che la felicità dovesse essere un obiettivo a cui tendere, cioè il fine quotidiano della nostra esistenza, perché la cosa più sbagliata da fare è ‘desiderare il desiderio più che la realizzazione di esso’.
Il consumismo è un fenomeno che ha caratteristiche economiche e sociali e coinvolge la maggior parte dei paesi industrializzati. Tale fenomeno impronta il suo funzionamento sul processo di acquisti sfrenati di beni di consumo, sul possesso di oggetti e sul consumo di beni materiali, identificando in essi fonte di felicità. I consumatori sono costantemente incantati da un mondo che determina la convinzione che con il maggior possesso di beni si possa ambire e raggiungere la meta della felicità. Grandi studiosi stanno sconvolgendo la tradizionale convinzione che l’aumento di reddito sia l’unico criterio per assicurare un progressivo aumento della felicità. Il possesso di cose e l’acquisto indiscriminato di beni di consumo costituiscono solo apparentemente una soddisfazione dei desideri, poiché portano con sé effetti di noia e frustrazione. Ed è proprio da queste conseguenze che sono stati sviluppati nuove teorie e modelli per sconvolgere radicalmente questo sistema economico fondato esclusivamente sul profitto e sulla competizione.
In un mondo in cui le persone sembrano aver perso la loro spiritualità e la loro felicità in cerca del benessere materiale, il Bhutan, piccolo stato montuoso dell’Asia diviene per noi un modello da cui trarre ispirazione. Nel 1970 il re del Butan, Jigme Singye Wangchuck, coniò il termine FIL, ossia felicità interna lorda. Questo concetto si discosta dal concetto di PIL, prodotto interno lordo, in quando quest’ultimo analizza il reddito sociale, mentre il benessere si articola in diversi fattori. Secondo i parametri occidentali basati sul PIL, il Bhutan risulterebbe essere una delle nazioni più povere della terra; in realtà si classifica come la nazione più felice del continente e l’ottava del mondo. Questo stato già da anni adotta come indicatore per calcolare il benessere della popolazione il FIL. I criteri presi in considerazione sono la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione e la ricchezza dei rapporti sociali. Il FIL pone la persona al centro dello sviluppo riconoscendo che l’individuo ha bisogni di natura materiale, sicuramente, ma anche di natura spirituale ed emozionale.