Linda De Benedictis
27 Gennaio 2019Mario Falanga
27 Gennaio 2019Foscolo, Ugo (Zante 1778 – Turnham Green, Londra 1827), poeta italiano. Nato nell’isola greca di Zante, l’antica Zacinto, allora possedimento veneziano, Foscolo si trasferì a Venezia nel 1792; qui, a contatto con letterati allora famosi (Ippolito Pindemonte, Melchiorre Cesarotti, traduttore di Ossian), si formò una solida cultura e iniziò il suo apprendistato poetico. Le sue idee giacobine e rivoluzionarie lo costrinsero a ritirarsi nel 1796 sui colli Euganei e, dopo la rappresentazione della tragedia Tieste (1797), che gli valse una certa notorietà, fu costretto a riparare a Bologna nella Repubblica Cispadana, dove pubblicò l’ode A Bonaparte liberatore. Tornò poi a Venezia, dove era nato un governo democratico, ma le speranze di libertà vennero stroncate dal trattato di Campoformio (novembre 1797), col quale Napoleone cedette Venezia all’Austria. Amareggiato lasciò la città e si recò a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina.
Ugo Foscolo in un ritratto realizzato da François Xavier Fabre e conservato alla Biblioteca nazionale di Firenze. Per il celebre romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis (prima edizione completa nel 1802), che inaugurò la grande narrativa italiana, Foscolo si ispirò ai Dolori del giovane Werther di Goethe. Nel carme Dei sepolcri (1807), come nel poema incompiuto Le Grazie, l’autore, di fronte alle delusioni della storia e dell’esperienza, propose la poesia come valore non soltanto consolatorio ma anche etico e civile.
Foscolo e i Sepolcri
“Il carme è una storia dell’umanità da un punto di vista nuovo, una storia de vivi costruita da morti”. Così Francesco De Sanctis, in un capitolo della sua Storia della letteratura italiana, definisce emblematicamente il carme dei Sepolcri di Ugo Foscolo nel quale vede un fondamentale momento di passaggio tra due secoli e due epoche, il Settecento dei Lumi e della Rivoluzione e l’Ottocento del sentimento romantico individuale e collettivo. Il senso della transizione viene individuato sia sul piano dei contenuti “ideologici” (il risorgente bisogno di spiritualità, benché illusoria, dopo la stagione del materialismo illuminista) sia su quello dell’innovazione formale: abbandono della rima per il verso libero (“la nuova parola bastava ella sola a se stessa”) e rottura degli schemi strofici per il libero fluire del carme (“pensiero nudo, acceso nella immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne”).
I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a’ sommi. Fu chiamato per antonomasia “l’autore de’ Sepolcri”. E in verità, questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l’affermazione della coscienza rifatta, dell’uomo nuovo.
Una legge della repubblica prescriveva l’uguaglianza de’ sepolcri, l’uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de’ sepolcri sembrava privilegio de’ nobili e de’ ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle classi, anche in quella forma. – Parini dunque giacerà nella fossa comune accanto al ladro, – pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancora abitato dall’uomo. Né gli entrava quel trattar l’uomo come un puro animale. Sentiva in sé offeso il poeta e l’uomo. Mancava l’idea religiosa che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell’obblio. Ma vivo era il senso dell’umanità nel suo progresso e ne’ suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la libertà, con la gloria. Di là cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de’ sepolcri: il sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da’ sentimenti più delicati dell’umanità in un pantheon vivente, perché opera ancora su’ vivi, desta ricordanze e illusioni, accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza dubbio; ma sono le illusioni dell’umanità, eterne quanto essa, parte della sua storia. Il carme è una storia dell’umanità da un punto di vista nuovo, una storia de’ vivi costruita da’ morti. Senti un’ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de’ sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d’Italia; il doppio mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Il’io e Santa Croce. La storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del nulla e dell’infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d’uomo, il tutto in una forma solenne e quasi religiosa come di un inno alla divinità.
La Rivoluzione sotto l’orrore de’ suoi eccessi rifaceva già la sua via. Sopravvenivano idee più temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
Declamare contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva in nome della filosofia, della libertà, dell’economia pubblica. Qui il tono è altro.
Non può credere il poeta all’immortalità dell’anima; pure vorrebbe crederci. Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono felici, che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno delle idee religiose, non in nome della verità, ma in nome dell’umanità e della poesia. Senti già Châteaubriand.
Ma se “purtroppo” è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia solo è immortale, e le forme periscono, non è vero che la morte dell’uomo sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietà de’ defunti è la religione dell’umanità, ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena: sia pure, anzi pur troppo è così: “vero è ben, Pindemonte!”. Ma, uomini, possiamo noi rifiutar fede all’umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. E’ in lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro di demolizione, e che si arretra, cercando un punto di fermata ne’ sentimenti umani, via a’ sentimenti religiosi.
Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era già il patriota, il liber uomo: qui apparisce l’uomo nella sua intimità, ne’ delicati sentimenti della sua natura civile. L’uomo nuovo s’integra, il mondo interiore della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di sentire che sono uscite le più belle ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra, le impressioni di Maratona, l’apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è così elevato che lo spettacolo d’Italia caduta così giù, materia di tanta rettorica, lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d’uomo e ispirazione di poeta.
Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tócca una corda che vibrava in tutt’i cuori. E non fu minore l’impressione su’ letterati.
La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla terzina e all’ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la cantilena. La nuova parola, confidente nella serietà del suo contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa, e non era già una tragedia o un poema, era una composizione lirica, alla quale egli osa togliere tutt’i mezzi cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme tradizionali e meccaniche, vien fuori spezzato in sé, con nuove tessiture e nuovi suoni, e non è artificio, è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva il carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e religioso, l’elevazione dell’anima nelle alte sfere dell’umanità e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell’uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l’uomo intero, nella esteriorità della sua vita di patriota e di cittadino e nella intimità de’ suoi affetti privati, era l’aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all’inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.
In morte del fratello Giovanni
Composto in memoria del fratello minore Giovanni, morto in circostanze misteriose nel 1801, il sonetto non è solo la celebrazione del defunto, ma è anche e soprattutto una dolorosa meditazione di Foscolo sul proprio destino. Il tema dell’esilio, condizione nella quale il poeta trascorse quasi tutta la vita, percorre l’intero componimento e la tristezza per la scomparsa del fratello si intreccia con la disillusione dell’autore nei confronti delle proprie aspettative e speranze, fino a fargli desiderare la quiete della morte. Ricco di reminiscenze classiche – Tibullo, Virgilio, Petrarca – il sonetto riecheggia soprattutto il carme CI di Catullo, esso pure dedicato alla memoria di un fratello morto.
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da l’unge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quïete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
Dalla Germania e dalla Francia i grandi temi romantici circolarono in tutta Europa, costituendo un punto di riferimento essenziale per gran parte della produzione letteraria del XIX secolo. In Italia, i primi segni di sensibilità romantica emersero già in Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo. Si assume però come anno di nascita del romanticismo il 1816, anno di pubblicazione sulla rivista milanese “Biblioteca italiana” dell’articolo intitolato Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni scritto da madame de Staël. Criticando “gli eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri”, la scrittrice francese sollecitò gli italiani a cogliere i fermenti innovativi presenti nelle letterature delle altre nazioni europee. L’articolo innescò un acceso dibattito culturale che vide schierati su posizioni conservatrici autori come Vincenzo Monti e Pietro Giordani, mentre i giovani romantici, tra i quali Silvio Pellico, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri e Giovanni Berchet, si riunirono intorno alla rivista “Il Conciliatore”, mostrandosi aperti ai nuovi stimoli culturali, soprattutto ai temi patriottici. Fu Berchet, con La lettera semiseria di Grisostomo (1816), a indicare come nuovo percorso compositivo la poesia popolare in contrapposizione a quella classica e mitologica, definendo quest’ultima “poesia dei morti”.
di Elena