Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Don Candeloro e C.” (1894)
Novelle di Giovanni Verga
Quante volte, nei drammi della vita, la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e diventar tragica, e l’uomo che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente, come i grandi attori! – Quante altre amare commedie e quanti tristi commedianti!
Ho visto la commedia del dolore al letto di un’agonizzante. Un caso di corte d’Assise, se era vero, come dicevano i vicini, che Matteo Sbarra non moriva, no, di un calcio di mulo; ma fosse stato il compare Niscima che l’aveva ucciso a tradimento, con una badilata nella testa, quando seppe di quell’altro tradimento che Matteo Sbarra gli faceva con la moglie – un compare, un amicone che spartiva con loro il pane e il lavoro, e si sarebbe fatto ammazzare per tutt’e due! – Niscima piangeva, sua moglie piangeva, strappandosi i capelli, fosse amore, o fosse timore della giustizia. – O compare, che giornata spuntò oggi per tutti noi! – O che fuoco ci ho qui dentro, compare bello! – E il giudice istruttore era presente; e la stanza era piena di vicini che sapevano e non sapevano; e il mulo, legato lì fuori, non poteva parlare.
Matteo Sbarra, col singhiozzo alla gola, stava zitto anche lui, dinanzi al giudice, dinanzi ai testimoni, dinanzi al prete che gli dava l’assoluzione dei suoi peccati. Guardava la comare, guardava il compare, cogli occhi torbidi, dove forse passava già la visione della vita eterna. Ah! le mani di lei, che gli asciugavano adesso col fazzoletto il sangue e il sudore della morte! E le mani dell’amico che gli rassettavano il guanciale sotto il capo, lì, nello stesso letto matrimoniale dove l’aveva tratto in agguato – a colpo sicuro, se era vero che la donna ve l’aveva stretto altre volte fra le braccia, poiché Niscima sapeva bene che il maschio della selvaggina vi torna di nuovo sotto il fucile, al richiamo della femmina, fosse ferito e grondante sangue. – La vicina Anna aveva udito dietro l’uscio il rumore della lotta brusca e violenta, appena il marito era arrivato a casa: le grida soffocate, il rantolo della donna, e l’anelito furioso di lui. Cosa doveva fare, poveretta, se era vero che fosse colpevole? se è vero che Dio non paga il sabato, e ci castiga col nostro stesso peccato? – Perché l’hai fatto scappare, buona donna? Digli che torni. Dovete averci un segnale fra di voi. Fagli segno di venire, pel nome di Dio! – Ella mise il segnale: un fazzoletto rosso color di sangue: la videro altri vicini, più morta che viva, alla finestra. Avevano ben ragione di strillare adesso tutti e due: – O compare mio, che fuoco mi lasciate qui dentro nel mio cuore! – Signor giudice, signori miei, uccidetemi qui stesso, dinanzi a lui, se fui io il traditore! – E la giustizia oscura che era nella coscienza dei testimoni muti, pensava forse: – Il morto è morto. Bisogna salvare il vivo. –
Quest’altra da tribunale correzionale invece: lui buttandosi fra le fiamme che aveva appiccato di nascosto al magazzino, dicevasi, onde salvarsi dal fallimento, e cercando di spegnerle colle sue stesse mani: le mani arse, i panni che gli fumigavano addosso, i capelli irti, il viso stravolto e terreo di un disperato o di un delinquente – e la moglie seminuda, i figliuoli atterriti che s’avvinghiavano a lui. – Lasciatemi!… perdio!… E’ la rovina!… Meglio la morte! – Il vocìo della folla, il crepitare dell’incendio, il getto delle pompe, lo squillare delle cornette dei pompieri. – E dei visi arrossati, delle ombre nere che formicolavano nel chiarore ardente, le placche dei carabinieri che l’abbacinavano. – Che vedeva egli, che sentiva in quel momento torbido? Le mani convulse che si stendevano verso di lui, fra il luccicare delle baionette; la fanciulla brancicata senza riguardo da cento sconosciuti, il figliuolo dibattendosi furioso fra i soldati: – Papà! papà mio! – E i sogghigni dei malevoli, il sussurro avverso della voce pubblica: – Trecentomila lire d’assicurazione!… Si capisce!… Tanto più che la barca faceva acqua da tutte le parti! – Due volte il forsennato tentò di rompere il cordone di truppa che isolava l’incendio, e due volte fu respinto urlante e traballante sul marciapiedi: – E’ la mia roba, vi dico!… La mia roba!… Lasciatemi morire! – E noi, papà? Siamo noi! Ascolta – Ah, figli miei! Poveri figli miei! – E il piangere che faceva, lì in mezzo alla strada, le lagrime che gli rigavano il viso sporco di fumo e di polvere – le lagrime della moglie e dei figli! Erano finte anche quelle? Erano complici pietosi ancor essi della turpe commedia? Piangevano sulla colpa del padre, o sulla loro rovina? Avevano letto prima in quel volto venerato ed amato le angustie segrete, le ansie, le lotte che il negoziante onorato e stimato fino a quel giorno aveva dovuto dissimulare fra loro, a tavola, in teatro, nell’intimità della famiglia e al cospetto del pubblico che bisognava illudere colle apparenze di una costante prosperità? Era la disperata necessità della menzogna istessa che li contaminava tutti adesso per la comune salvezza? Sino a qual punto erano finte le lagrime del colpevole, lì, sotto gli occhi della moglie e dei figli, la sua tenerezza, il suo orgoglio, le sue vittime, i suoi giudici primi e più inesorabili nel segreto della coscienza? Chi avrebbe potuto dirlo? – Voi uomo di banca, che giuocate alla Borsa col sigaro in bocca delle partite di vita o di morte, e di rovina per altri mille che hanno fede soltanto nella vostra bella indifferenza? – O voi uomo di toga, che avete fatto piangere i giudici per salvare l’omicida? – Tutt’a un tratto la folla, i soldati, gli stessi pompieri indietreggiarono atterriti, dinanzi all’orror dell’incendio, fra un urlo immenso. Egli solo, il disgraziato, si strappò dalle braccia dei figli per slanciarsi nella voragine ardente, rovesciando quanti gli si opponevano, lottando come un forsennato contro tutti, respinto, percosso, tornando a cacciarsi avanti a testa bassa, grondante sangue, colla schiuma alla bocca, la bocca da cui usciva un grido che non aveva più nulla d’umano: – La cassa! I libri! –
Lo portarono a casa su di una barella, tutto una piaga e mezzo asfissiato. Stette un mese fra morte e vita, coll’aspettativa del giudizio infame in quell’agonia, e gli occhi dei figli che lo interrogavano. – Povera Lia, come sei pallida! E anche tu, Arturo! Anche tu! Vedete, sono tranquillo adesso, tra voi. Vedete come sorrido, povere creature? – E poi ancora dinanzi ai giudici, seduto al posto dei malfattori, sotto l’interrogatorio e le testimonianze contrarie, e la difesa dell’avvocato che invocava in suo favore quarant’anni di probità intemerata, e il viso pallido del figliuolo che ascoltava fra l’uditorio, e le braccia tremanti delle sue donne che l’avvinsero all’uscita del tribunale. – Assolto! Assolto! – Senza dir altro, un’altra parola, che rimase muta e gelida fra di loro, sempre!
E la commedia di tutti i giorni, nella casa patrizia, sotto lo stesso tetto, alla stessa tavola, al cospetto dei figli e dei domestici, rappresentata per vent’anni, colla disinvoltura del gran mondo, tra il marito offeso e la moglie colpevole, se il triste segreto era realmente fra di loro. – La moglie di Cesare non deve essere neppure sospettata, – ed entrambi, legati alla medesima catena da un casato illustre, osservavano perfettamente il codice speciale della loro società. Né il mondo ci aveva nulla da vedere. Forse qualche capello bianco di più sulle tempie delicate di lei; ma non un riguardo, né un’attenzione di meno della cortesia implacabile del marito. Se la dama, moglie e madre onorata e insospettata sino al declinare della giovinezza, era caduta tutt’a un tratto, e caduta male, giacché il pleonasmo è ammesso nel suo mondo, come una povera creatura delicata e fiera, avvezza soltanto a camminar a testa alta sui tappeti e che non sappia mettere le mani avanti, il marito la sorresse tosto con braccio fermo, perché continuasse a portare degnamente il nome suo e quello dei figli. Certo è che essa non gridò né pianse, né fece piangere le anime caritatevoli sulla pietà del caso. – E anche il marito ebbe gran parte di merito nel tenere la cosa in famiglia; poiché l’altro era un uomo di mondo lui pure, della stessa casta e quasi dello stesso casato, bel cavaliere e bel giuocatore alle carte e in amore, che correva alla rovina e alla morte col sorriso alle labbra e il fiore all’occhiello, e sapeva vivere – e morire, al bisogno, evitando ogni scandalo. Egli non le aveva scritto che due o tre lettere, nei casi più urgenti, quando si era trovato proprio coll’acqua alla gola o colla rivoltella sotto il mento. Il male fu che una di quelle lettere, la più breve e grave, l’ultima, cadde in mano del marito, mentre stavano per recarsi a una gran festa, e la carrozza aspettava a piè dello scalone, e la povera donna già pettinata e vestita, pallida come una morta, seduta dinanzi a un gran fuoco, aspettava i gioielli che aveva impegnati per l’amante, e che questi le aveva promesso di restituirle per quella sera a ogni costo. – A ogni costo. – Perciò le chiedeva scusa, scrivendole, se per la prima volta, e l’ultima, mancava alla sua parola. La poveretta ne aveva già il triste presentimento, giacché aveva il cuore stretto da quella immensa angoscia ed era così pallida dinanzi a quel gran fuoco? Aveva visto balenare l’idea del suicidio, ed era stata la pietosa attrattiva che l’avea data a lui, quando lo aveva visto perdere tutto, calmo e impenetrabile, in una terribile partita? – Una terribile partita che faceva disertare il ballo e attirava anche le dame nella sala da giuoco. Egli, incontrando gli occhi di lei, tristi e pietosi, le aveva detto allora con un pallido sorriso: – Perché viene a vedere queste brutte cose, duchessa? – E lei… – Perché?… Perché fa questo, Maurizio? – balbettò essa con un filo di voce. Egli si strinse nelle spalle, chinandosi a baciarle la mano, e non rispose altro, fissandola in viso con gli occhi chiari e fermi, e decisi a tutto.
La notizia del suicidio correva già per i trivi sulla bocca dei venditori di giornali, allorché il duca entrò nello spogliatoio della moglie colla fatale lettera in mano. Era fermo anche lui, e impenetrabile come quell’altro, nella rovina improvvisa di tutto ciò che aveva formato il suo orgoglio e la sua fede. – Scusatemi, – le disse – se l’ho letta prima di accorgermi che non era diretta a me. Ma riflettete che poteva capitare in mani peggiori. Bruciatela insieme a tutte le altre che dovete avere, e datevi un po’ di rosso, giacché non posso condurvi al ballo con quella faccia, senza renderci ridicoli voi ed io -.
Il ridicolo fu evitato. Se pure i cacciatori di scandali si affollarono all’uscio, quando fu annunziata l’illustre coppia, e le amiche indulgenti si rivolsero a lei, allorché la notizia del suicidio cominciò a circolare nella festa, videro lei diritta e forte, senza battere palpebra sotto il colpo mortale che le picchiava alla testa, e gli sguardi dei curiosi, e le parole del marito che compiangeva «quel povero Maurizio» colla discrezione mondana che attutisce ogni stridere molesto. Essa fu malata, e il duca non lasciò un sol giorno la stanza di lei. Ricomparve ai teatri, ai ricevimenti, ammirata, inchinata, al braccio di quell’uomo di cui sentiva l’intima repulsione, accanto alla vergine candida e pura e al giovinetto di cui era l’orgoglio e la tenerezza. Quando essi andarono sposi, il padre aveva detto loro: – Serbatevi degni del vostro nome, e dell’esempio che vi hanno dato i vostri -. Dinanzi a loro, dinanzi a tutti, egli non dimenticò giammai, un giorno solo, per anni ed anni, di dare lo stesso esempio di devozione e di stima alla compagna della sua vita e della sua catena, rimasta sola con lui, nel palazzo immenso, sonoro e vuoto come una tomba. Se mai il volgare sospetto fosse durato ancora nella mente di qualche domestico o di un familiare, egli volle smentirlo sino all’ultimo momento, sino al punto di morte, stringendo la mano della moglie singhiozzante, prostrata dinanzi a lui, dinanzi ai figli, dinanzi ai congiunti, mentre il prete gli dava la estrema unzione. Soltanto nell’ultima convulsione di spasimo, respinse quella mano colla mano di ghiaccio. Nel testamento lasciò un ricco legato «alla sua fedele compagna».
Quante altre! Quante! – Il sorriso procace della disgraziata che deve guadagnarsi il pranzo. – Le lagrime dello scroccone che viene a chiedervi venti lire «in prestito». – L’eleganza dello spiantato che cena colle paste del the. – Gli occhi bassi della ragazza che cerca un marito. – E la più desolante, infine, la commedia dell’amore, quando l’amore è morto, e resta la catena. O braccia delicate che vi allacciaste all’amplesso stanche e illividite! Quando Alberto strinse in quella festa da ballo la piccola mano che doveva avvincergli così tenacemente la catena al collo, non sapeva che essa se ne sarebbe svincolata così presto. E anche lui allora non sapeva di lasciarsi prendere all’ardore che simulava e alla lusinga delle proprie frasi galanti. – Il sorriso trionfante di lei che si inebbriava all’omaggio di quel bell’avventuriero d’amore disputato e ammirato – il sottile eccitamento della danza – la carezza della musica che accompagnava la carezza delle parole – gli occhi bramosi che cercavano i suoi, e il fulgore ch’essa vi scorse allorché chinò il capo biondo ad assentire: – Sì! Sì! – con qual altra ebrezza e qual smarrimento negli occhi ella ascese la prima volta quella scala e spinse quell’uscio, premendosi forte il manicotto sul seno ansante! Con qual altro sbigottimento vi ritornò poi, guardandosi intorno e buttandosi a sedere appena entrata, col viso pallido e una ruga sottile fra le sopracciglia. – Mi son fatta aspettare, non è vero? – No… non importa ormai… Sei qui!… – Ah, son mezzo morta… Sapeste!… Mio marito!… Quel portinaio che mi vede passare! – Insomma tutte quelle cose che non vedeva prima, quando aveva gli occhi abbacinati dal sogno d’oro. – Lasciatemi, Alberto!… Ve ne prego! Vi prego!…
– Vi lascio. Scusatemi!
– Che vi piglia adesso? Vedete in che stato sono!… Che faccio per voi!…
Gli occhi negli occhi, le mani nelle mani, e la bocca rosea che sorrideva stanca e si offriva sotto la veletta. Ah, non era quella la bocca che una volta sfuggiva tremante e si era abbandonata avida al primo bacio! Gli si offriva anche adesso, pietosa menzogna, perché vedeva gli occhi ardenti dell’innamorato cercare in quelli di lei l’amore che non c’era più. Egli non raccolse quel bacio, guardandola fiso: – O povera Maria! – disse tristamente.
Ella si era fatta rossa, fissandolo anche lei con gli occhi già inquieti. Scorgeva forse il dubbio e l’incredulità atroce negli occhi di lui? – Povero amore! Povera Maria! – Non le disse altro, e l’accarezzò sui capelli, sorridendo anche lui. Ma era bianco bianco, e il sorriso era amaro. Allora essa avvinse nelle sue carezze quel pallore e quegli occhi, e vi si smarrì un istante ella pure, forse sinceramente, o volle smarrirvisi per compassione di lui. O povero amore, che hai bisogno di batterti i fianchi colle ali! Povera amante discesa a rappresentare l’ignobile commedia! – No! No! – Egli indietreggiò barcollante, come se avesse ricevuto un urto al petto, fece qualche passo per la stanza, e tornò a sederlesi allato, cercando di sorriderle ancora, cercando le parole che non venivano.
– E’ tardi – diss’ella alzandosi. – Saranno quasi le cinque. Devo andarmene -.
Si alzò egli pure senza dir nulla.
Essa cercò il manicotto ed i guanti, si aggiustò il velo sul viso serio e freddo, senza una parola, senza guardarlo, e s’avviò all’uscio. Egli l’apriva già.
– Fatemi il favore. Se ci fosse qualcheduno per la scala…
– Aspettate -.
Uscì a spiare dal pianerottolo e rientrò tosto. – Nessuno -.
L’amata esitò un istante e rialzò la veletta al di sopra della bocca. L’amante finse di non vederla, e le strinse la mano.
– Addio dunque.
– Addio -.
Udì sino all’ultimo scalino il rumore dei passi di lei che altra volta si dileguavano furtivi, e dalla finestra la vide ferma e tranquilla sul marciapiedi, come una che non ci abbia più nulla da nascondere adesso, accennando a un cocchiere d’accostarsi, con un gesto grazioso della destra infilata nel manicotto.