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Un infinito numero
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Un’ idea
27 Gennaio 2019
Forse il luogo in cui emerge l’uomo da una parte nella sua meschinità , ma anche nella capacità di amare, è l’ospedale.
Ti può capitare di avere nel letto accanto qualcuno, e all’inizio vivi con un po di disagio questa convivenza, fino a scoprire poi che, magari, quando ti capita di tornare a casa, quasi rimpiangi di non essere più accanto a questa persona. Magari avevi giudicato male, dall’alto della tua superiorità intellettuale, di laureato, quella persona, ma poi hai scoperto che, proprio quando avevi più bisogno, bisogno anche semplicemente di una persona che ti ascoltasse o ti trattasse come un uomo, lui era l’unico a starti vicino.
Gaber ha fatto questa esperienza spesso negli ultimi suoi anni, colto da una malattia che inesorabilmente lo ha consumato, ma anche noi, noi che abbiamo avuto le nostre esperienze, direttamente, o per un nostro parente, un nostro amico, noi lo sappiamo. L’uomo è un limite, l’uomo è è un soffio, noi lo sappiamo.
Eppure, o questo è una condanna, oppure è il momento in cui compare la nostra umanità nel profondo.
O si elimina questa realtà e si dice questo non esiste, non deve esistere, la persona che si trova in quella situazione è meglio che decida di togliersela, la vita”, oppure si affronta questo limite, questo aspetto anche volgare, anche scostante della vita, perché o si ama anche questo, oppure non si ama veramente.
Infine, proprio in quello stesso ospedale, dove si muore, accade anche che, in un altro reparto, si nasca.
Gildo di Gaber – Luporini 1981 © Edizioni Curci Srl – Milano
Fu proprio là nella corsia di un ospedale
che aprii gli occhi e vidi un letto accanto al mio
il primo giorno si ha una sensazione spiacevole e volgare
e i piccoli disagi non fanno bene al cuore.
Ma la notte, la notte
aumenta lo spessore del dolore con le sue presenze
la notte, il cuore è gonfio la notte
e i lamenti dei malati riempiono le stanze.
Ma stranamente il giorno dopo prima che arrivino i parenti
si fa un poco di ironia persino sui lamenti
e il letto accanto al mio con dentro un uomo grosso e un po volgare
diventa una presenza singolare.
“Gildo, come faccio, mi vergogno, dovrei andare…”
E Gildo, il grosso Gildo, mi insegna da sdraiato come devo fare.
E intanto a pochi metri di distanza si fatica a respirare.
Sono le innocenti stonature di un salotto
sono i piccoli fastidi, i gesti un po meschini
che fanno l’uomo veramente brutto.
Ma in ospedale dove la perdita è totale
dove lo schifo che devi superare
è quello di aiutare un uomo a vomitare.
Dove non c’è più nessuna inibizione
dal vomito al sudore, alla defecazione
e allora salti il piano se lo sai saltare
e entri in un altro reparto dell’amore.
“Gildo, io vorrei che all’insaputa delle suore…”
E Gildo, il grosso Gildo, mi passa di nascosto qualche cosa da mangiare.
E intanto a pochi metri di distanza un uomo muore.
Si parla poco e piano per diverse ore
e a notte alta quell’ospite agghiacciante vien portato via
e riprende indisturbato e noncurante il ritmo della corsia.
I piccoli disagi, lho già detto fanno male al cuore
ma il senso della morte
è sempre stato troppo forte.
Gildo, non l’ho mai saputo immaginare
chissà perché improvvisamente diventa elementare
potrà sembrare irriverente ma qualche ora dopo
ridevamo tutti per niente.
Ma a scanso di fraintesi
non è il cinismo mestierante dei dottori
ma il senso della vita che ti spinge fuori.
“Gildo, mi dispiace, son guarito, devo andare…”
E Gildo, che naturalmente mai più nella mia vita ci avrò il gusto di incontrare
nasconde, questa volta con vergogna, il suo dolore.
Il cielo azzurro e teso
e le mie gambe strane, senza peso.
Attraversavo il giardino tremante
come in un sogno riposante.
Gli occhi delle nuove madri luccicavano
e i grossi seni sotto le vestaglie biancheggiavano.
Solitario avvertivo quel candore, quell’aria di purezza
e il cielo era azzurrino e cera un po di brezza
e stranamente un senso d’amore che non so dire.
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