Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
– Giuratemi!… giurami! –
Chi non avrebbe giurato, al vederla così pallida sotto i nastri rossi del cappellino, al vedere i begli occhi lucenti e il sorriso triste che mi cercava come un bacio? – povera e cara Ginevra, innamorata sino ai capelli, in un fiat, da un momento all’altro, dacché le avevo confessato d’amarla, in segreto, senza speranza, da circa due mesi! – Anch’essa! anch’essa! Peccato che avessimo aspettato l’ultimo momento a dircelo! – Almeno voleva lasciarmi negli occhi, nel sangue, nell’anima, la sua immagine, il suo profumo, le ultime sue parole. – Lì, lì, e lì! in tutto voi, fin nel vostro vestito, dovunque sarete, sempre! – Era venuta per questo alla Villa, a quell’ora. – Non sapete quel che ci è voluto! – In ogni suo accento, nel suono della voce, nel muovere delle labbra, c’erano tali carezze che penetravano in me come una gran dolcezza, e come altrettante punture anche, di tratto in tratto, allorché pensavo ad Alvise che dicevano suo amante. – E’ gelosa, sapete!… di tutte!… di tutte le donne che avete conosciuto… La Seraffini, dite?… o la Maio… a costei le facevate la corte! Non negate. V’ho conosciuto in casa sua. Il guaio è che l’avrete compagna di viaggio sino a Genova! Giuratemi!… Neanche una parola!… almeno a lei… almeno a quelle che conosco!… Pensate a me, d’Arce! Pensate che vi veggo, laggiù, dovunque sarete, che vi seguo col pensiero, dal momento che metterete il piede sul battello, nella cabina, a tavola… Colei ci verrà pure, a tavola, dovesse rendere l’anima a Dio, per farvi ammirare le sue smorfie e il suo vestito da viaggio… –
Ella guardava tristamente il bel mare azzurro che doveva separarci per tanto tempo, fra poche ore, e aveva gli occhi gonfi di lagrime, e mi abbandonava la mano, senza curarsi della gente che poteva vederci – per altro erano delle coppie mattutine che venivano a cercare le ombre discrete della Villa, e avevano altro pel capo anche loro – senza pensare al pericolo che correva, senza pensare a quell’orco di suo marito… senza pensare ad altri. E mi si abbandonava tutta, con quella manina tremante di cui parevami di sentire le carezze e la febbre attraverso il guanto di Svezia; e intrecciava le sue dita alle mie, e si attaccava a me, voleva legarsi a me, per sempre – l’una dell’altro – col cuore gonfio ambedue di amore eterno, di costanza e di fedeltà – io a dispetto dei miei venticinque anni – ella col marito sulle spalle… ed Alvise, e tutti gli spergiuri latenti in una bella donna che ride volentieri, e ama sentirsi dire che il suo sorriso fa perdere la testa al prossimo… Allora balbettai:
– Anche voi!… anche tu… giurami!… –
Ella non rispose, colle mani nelle mie, gli occhi negli occhi, e una fiamma rapida le salì al viso: – Che posso farci? che posso farci? – voleva dirmi, povera donna. Ma a un tratto mi lesse in viso il nome di un altro, l’immagine odiosa del mio amico Alvise che tornava a mettersi fra di noi. – Oh! – mormorò, scolorandosi rapidamente. – Oh, d’Arce! –
Chinò il capo, passandosi le mani sul volto, e non disse altro. Aveva una peluria bionda che moriva dolcemente sulla bianchezza immacolata della nuca. Le dolci parole, il delirio, la frenesia che mi si gonfiarono in cuore allora per chiederle perdono! Come avrei voluto buttarmi a’ suoi piedi e abbracciare i suoi ginocchi, i ginocchi che si accennavano vagamente fra le molli pieghe del vestito bigio!… Essa continuava a scuotere il capo, con un sorriso dolce e malinconico, e riprese:
– Quanti orrori vi avranno narrato sul conto mio… le mie buone amiche… lui stesso, fors’anche! Non negate… è inutile. Voglio che sappiate tutto… oramai, sul punto di lasciarci forse per sempre!… Come a un fratello… come in punto di morte… Mi crederete, d’Arce? mi crederete?… Sono stata un po’ leggiera… un po’ civetta anche, mettiamo… Ecco, vi dico tutto! In casa mia poi, bisogna sapere quante noie! Che scene e che musi lunghi per un misero ballonzolo, fra quattro gatti… per andare una sera a teatro… Non sono né vecchia né gobba infine. Mio marito invece vorrebbe tenermi sotto chiave nella santabarbara della sua nave. Pedante, sospettoso, uggioso! Una cosa tremenda, caro mio! Allora, capite bene… se bisogna nascondergli le cose più innocenti… la colpa è tutta sua… E una povera donna… a meno di finir tisica… Sì, parola d’onore, tante volte ho sputato sangue. Chi sa se mi troverete ancora quando tornerete in Italia, povero d’Arce!… Vi ricorderete sempre di me, dite? Verrete a trovarmi al camposanto? –
Trasse pure il fazzolettino dalla tasca del petto, e se lo recò alla bocca, tossendo un po’, con certe piccole scosse che facevano sollevare gli omeri delicati sotto la giacchetta attillata, e le inumidivano gli occhi di un languore sorridente, e le facevano il viso tutto color di rosa. No, no, non volevo sentirla parlare così! L’avrei difesa da quelle malinconie, fra le mie braccia, stretta stretta. Ella schermivasi gaiamente; minacciava pure col fazzolettino… – Badate!… Che matto!… Siamo due matti!… Avete sempre quel brutto sospetto? No, sentite, voglio dirvi tutto. E’ meglio che sappiate tutto da me stessa… pel caso che egli vi abbia fatto le sue confidenze… quell’altro… giacché siete suo amico… Sì, lo so… voialtri uomini siete discreti… Lasciamola lì! E’ vero che mi ha fatto un po’ di corte… come tanti altri… più degli altri anche… E me la son lasciata fare. Mio marito… me lo ha messo fra i piedi lui stesso, il vostro amico, col pretesto di farne il suo ufficiale d’ordinanza… E gli ha attaccato il suo male pure… le sue esigenze e le sue gelosie. Dite la verità, vi avrà fatto delle scene anche a voi, Alvise? Un bel divertimento, quei musi lunghi! E senza averne il diritto, vi giuro! Mi credete, d’Arce! mi credete? Vedete adesso come sono venuta a voi!… Lo sapete… da due mesi… i miei occhi che vi dicevano… – Poi, a voce più bassa, accostando il viso al mio, figgendomi gli occhi nell’anima, con un sospiro: – Tua! Soltanto tua!… Mi credi? –
Li avessi visti ai suoi piedi, in quel momento, il marito, e quell’altro, mi avessero detto che anche loro… Avrei giurato che mentivano. Mi turbava però il rimorso delle infedeltà che le avevo fatto… prima di conoscerla… e anche dopo… Sì, delle vertigini… qualche momento di oblio… Ero arrivato a farle di queste confessioni, in quel punto, nel caldo della passione… Volevo dirle tutto, per ispirarle la mia fede, perché non avesse a dubitare anch’essa, mentre saremmo stati tanto lontani!… – Ah, sentite, è una cosa terribile! Volersi tanto bene… proprio all’ultimo momento… volersi così!… E neanche la punta di un dito!… Non mi guardate a quel modo, per l’amor di Dio!… Proprio un amore senza macchia e senza paura, questo nostro!… Ah! quel sorriso che mi fiorirà sempre in cuore! Quella fossetta che fate sulla guancia, ridendo!… Un amore siffatto non deve aver paura di nulla… e di nessuno… del tempo che passa…
– Che ora sarà adesso? – chiese a un tratto lei.
Erano circa le due. Essa s’alzò in piedi sgomenta.
– Dio mio! così tardi! Ah, povera me! – Poi mi stese la mano e volle pure cavarsi un po’ il guanto, buona e cara Ginevra, perché le baciassi il polso sulla nuda carne, lì, dove la piccola vena azzurra avrebbe voluto portarmi su su pel braccio, e le labbra volevano struggersi. – Addio! addio! – Per ricordo strappò una foglia dal cespuglio, dandomene la metà; l’altra se la nascose dentro il guanto, proprio dove si era posata la mia bocca. E nel viso affilato, negli occhi, nella voce, la poveretta aveva il medesimo struggimento che sentiva, pareva che non potesse staccarsi da me. Dovette fare uno sforzo – come uno strappo, nell’ultima stretta di mano – e se ne andò frettolosa, pensando ch’era tardi. Ho ancora nelle orecchie il fruscìo della sua sottana di raso. Povera Ginevra, come doveva avere il cuore gonfio anche lei! E le sarebbe toccato dissimulare poi col marito e con tutti gli altri! Almeno io… Io mi posi a sedere dove essa era stata, andai a rintracciare il ramoscello dal quale aveva strappato la fogliolina. Feci insomma tutto ciò che fanno gl’innamorati in casi simili. Infine dovetti accorgermi che si faceva tardi e che avevo ancora la valigia da terminare.
La prima persona che vidi sul battello, al momento d’imbarcarmi, fu Alvise, il buon Alvise che era venuto a salutarmi, e mi stendeva la mano, a mia confusione. Gliela strinsi con un po’ di rossore al viso, ma grato e commosso, quasi mi avesse recato qualcosa della donna che amavamo entrambi. Non c’era nulla di male, se l’amava anch’esso, giacché lei non poteva soffrirlo, e mi preferiva a lui, e si lasciava rubare a lui. Per nascondere il mio imbarazzo gli domandai se ci fossero già dei passeggeri a bordo. – No, non molti – rispose lui. – La signora Maio, una simpatica compagna di viaggio -.
La signora Maio risaliva sul ponte in quel momento; c’incontrammo insieme alla scaletta. – Oh, d’Arce! – Colei è un vero demonio, poiché al vedermi quella faccia i suoi occhi si misero a ridere da soli sotto il velo blu; e non la finiva più colle domande: – Dove andavo – se mi era toccata una buona destinazione – se sarei stato un pezzo laggiù – se mi rincresceva di lasciare l’Italia – il bel cielo di Napoli – gli amici…
– Ah, Ginevra! Buona Ginevra! Che pensiero gentile!… che piacere mi hai fatto!… –
Era proprio lei, la buona Ginevra, che inaspettatamente veniva a dare il buon viaggio alla cara amica che odiava, come Alvise era venuto per me. – Per voi! per vedervi ancora un’ultima volta! – dicevano i suoi occhi nel rapido sguardo che mi rivolse. E bastò per farmi rizzare le orecchie sul vero motivo che aveva condotto Alvise a bordo, e farmi allungare tanto di muso. Però essa era meno imbarazzata di me, che dovevo esser pallido in modo ridicolo. Filava imperturbabile il cinguettìo delle donne che non vogliono dir nulla, con la sua amica, con Alvise – a me rivolse appena qualche parola. – Ah, va via anche lei? Partono tutti! Cosa hanno al Ministero che vi mandano tutti via? – Poi fu colta d’ammirazione pel berrettino da viaggio della signora Maio, un cosino di stoffa eguale al vestito, ch’era un amore, posato bravamente sui bei capelli castani, avvolti nella garza che dava una straordinaria finezza al bel visetto ardito e al mento spiritoso. Si mise ad accomodare le pieghe con un buffetto che sembrava una carezza, dietro le spalle della sua amica, e intanto mi lanciò pure un’occhiata tremenda. – L’amica prestavasi discretamente alla manovra, col tatto di una donna che sa vivere e lasciar vivere, tutta per lei, affabilissima anche con Alvise, dimenticando quasi che io fossi lì, come un intruso in quel terzetto spensierato che lasciava suonare la campana della partenza senza badarci.
Infine la ragazza che andava in giro col piattello a raccogliere i soldi pei virtuosi che ci avevano strimpellato l’augurio di buon viaggio, il cameriere che spingeva verso la scaletta i venditori di cannocchiali e di pettini di tartaruga, fecero capire ch’era il momento di separarci.
Le due amiche si buttarono le braccia al collo. Alvise s’ebbe pure la sua stretta di mano all’inglese dalla signora Maio, la quale trovò un mondo di saluti da lasciargli, per lui, pei suoi amici, per tutto il genere umano, occupandolo, impadronendosene, pigliandoselo tutto per sé, tenendolo sempre per mano, mentre Ginevra stringeva la mia forte forte – fu l’unico segno – e le labbra che tremavano, il sorriso che spasimava, e l’occhiata lunga… Poi la rivolse sull’amica, scintillante, e quasi minacciosa.
– Buona Ginevra! – osservò la Maio, rispondendo al saluto che essa continuava a mandare dalla barchetta, mentre si allontanava in compagnia di Alvise. – E pensare che le toccherà pigliarsi delle osservazioni da quell’orso del Comandante, se egli arriva a sapere… –
La gentile signora volle ancora restar lì, appoggiata al parapetto, perché la nostra amica potesse continuare a salutarci, rispondendo al saluto col fazzoletto anche lei, di tanto in tanto, sbadatamente e guardando altrove. Poi mi lasciò solo, e scese nella cabina, allorché il fazzolettino della barchetta poté seguitare a sventolare da lontano senza compromettersi. Caro fazzolettino che tremava nella brezza, e palpitava verso di me, e moriva nella caligine della sera, sul fondo già scuro del bel lido che cominciava a formicolare di lumi, a destra verso Portici, a sinistra per la Riviera. Quante volte avevo colà cercato i nastri rossi del tuo cappellino, amor mio, e i tuoi occhi bramosi mi avevano detto: – Sì, sì, lo so!… Io pure!… – Tu pure pensi a me in questo momento, e cerchi il lume del mio bastimento fra gli altri lumi che si allontanano dal porto, mentre Alvise ti dà la mano per aiutarti a scendere a terra, seccatore! Egli può ancora udire lo scricchiolìo delle tue scarpette che si affrettano verso una carrozzella, e vedere il tuo piedino che si posa sul montatoio. Qual via farai per andare a casa? San Ferdinando… Chiaia… Le vetrine scintillanti del Caffè d’Europa, dinanzi a cui tu passi come una visione… Gli oziosi che stanno a vederti dal marciapiedi! Quante volte ti ho aspettata anch’io, lì… Lo sai che ti vedo… e ti accompagno cogli occhi, io pure… passo passo, come tu promettesti di pensare a me?… Come ero felice di sentirti parlare, di sentirti dire che volevi seguirmi col pensiero, col cuore, ogni momento, dacché avrei messo il piede sul ponte, nella cabina, a tavola!… Povera e cara Ginevra! ti seccava che ci dovesse venire quell’altra, a tavola! Ti seccava, come mi secca che Alvise ti abbia accompagnata… Eri gelosa… E senza motivo, credi! Colei ha capito subito che son ben preso, sino ai capelli, tutto tuo!… Non è mica una sciocca la signora Maio!… E a tavola non vorrà perdere il tempo a farmi ammirare le sue smorfie, come le chiami, cattiva! Non vorrà che io rida di lei sotto i baffi… Ed io non voglio ch’essa rida di me, se non mi vede a pranzo, se le lascio immaginare che io stia qui a pascermi di lai… com’ella suol dire quando il suo musetto sardonico vi mette tutti i diavoli in corpo.
La signora Maio però non era scesa a tavola. Il posto di lei rimaneva vuoto, a destra del capitano. Ma l’udivo muoversi nella cabina, dietro le mie spalle, con un fruscìo d’abiti che mi turbava, a volte sommesso, quasi timido e pudibondo, a volte alto e brusco, come agitato da un’improvvisa fantasia. Che diavolo faceva la bella signora? Si sentiva male? Stava per coricarsi? Non la finiva più di sgusciare delle sottane e di sfibbiare dei ganci?… Il vestito, no… Quello non era il frù-frù vivo della seta… Era piuttosto il fruscìo molle della biancheria più intima. Pareva di sentirne il profumo all’ireos. Il fatto è che mi guastava il pranzo, mi dava delle distrazioni, una tensione d’udito in cui sembravami di vedere ogni parte del suo vestiario, a misura che le passava per le mani, di vederla nelle bottiglie e negli specchi dirimpetto, colle braccia nude, pettinandosi per la notte. – Buona notte che avrei passato con quella cabina attaccata alla mia! – Povera Ginevra, le parlava il cuore! – Talché non volli aspettare neppure il caffè, e andai sul ponte a fumare un sigaro… e pensare a lei…
– Bravo, d’Arce! Venite a farmi compagnia, – udii una voce che mi chiamava da poppa. Proprio la Maio, che desinava tranquillamente, al lume della bussola, col piatto sulle ginocchia.
– Come… voi qui! – mi scappò detto.
– Grazie! Credevo che aveste già notata la mia presenza a bordo, ingrato! – rispose sorridendo e mordendo una fetta di pera.
– Mi era parso di sentire… Chi c’è dunque nella vostra cabina?
– La cameriera, credo. Starà mettendo in ordine la mia roba. Pensate che devo starci quattro o cinque giorni in quella gabbia!
– Tanto meglio!
– Tanto meglio, sia pure, giacché siete in vena d’amabilità. Intanto mi tocca far penitenza, come vedete…
– L’avrei fatta anch’io volentieri con voi, se avessi saputo…
– Oh, voi… è un’altra cosa. Prima di tutto siete corazzato… sul mare; e poi vi sono i regolamenti, che so io, tutti quegli ostacoli che avete immaginato voialtri… a bordo. Mentre io… povera donna… Mi è riuscito di intenerire il cameriere… con un po’ di buona volontà… E’ una vergogna! In tanti anni che ho l’onore di appartenere alla marina di Sua Maestà… per via di mio marito, non sono arrivata a farmi il piede marino, come dite voialtri; e se non voglio morir di fame bisogna prendere delle precauzioni. Volete prenderne anche voi? Lì, in quel sacchetto, c’è della menta di VanPol eccellente. Fumate pure, sapete che la sigaretta non mi dà noia. Non ci conosciamo da oggi, mi pare! Anzi, se volete darmene una anche a me… –
Mentre allungava il musetto color di rosa per accenderla, quasi volesse baciarmi, mi parve di vedere un altro punto luminoso nei suoi occhi, un balenìo che diceva: – Traditore! – Ma si tirò subito indietro, per farmi un po’ di posto nel seggiolino pieghevole al quale aveva appoggiato i piedi, avvolgendosi nel suo mantellone da viaggio.
Invece, come attratto, mi accostai a lei, guardandola dal basso, col sorriso sincero di quei momenti, dicendole colla voce un po’ roca:
– Sapete che mi hanno dato la cabina accanto alla vostra?
– Tanto meglio.
– Per voi forse… Ma per un povero diavolo…
– Ah, la tentazione? Beveteci sopra un bicchier d’acqua. Del resto vi prometto che passerò la notte sopra coperta. Laggiù si soffoca… Il faro di Napoli! – interruppe a un tratto, additando un punto luminoso in fondo.
Sembrava un occhio che ci spiasse dall’orizzonte buio, ora tremulo, come velato di lacrime, ora raggiante all’improvviso. Sembrava che giungesse sino a noi, col mormorìo vasto e profondo del mare, l’eco della città, coi sospiri soffocati, con voci misteriose, con canzoni malinconiche. La Maio s’alzò, vacillante pel rollìo del bastimento, e prese il mio braccio, appoggiandovi anche il petto nel fare qualche passo, sfiorandomi col vestito, col mantello grave che mi si avvolgeva alle gambe e mi legava.
– Non mi reggo, no caro d’Arce! A momenti vi casco nelle braccia! – balbettò fra due scoppi di risa soffocati che risuonavano come una musica.
Infine si fermò presso la sponda, senza lasciare il mio braccio, col gomito sulla ringhiera, e il bel mento delicato sulla mano nuda, guardando sempre laggiù, verso il punto luminoso.
– Cara Napoli! A quest’ora i nostri amici saranno tutti allo Châlet. Vi rammentate le belle serate allegre?… Quando il marito di Ginevra non era di cattivo umore, povera Ginevra… Come è stata buona venendo a salutarmi sino a bordo!… Tutta cuore… si farebbe in quattro pe’ suoi amici… E’ per questo che ne ha molti… e devoti… voi, Alvise… Mi sembra di vederlo quel diavolo di Alvise, a combinare il giochetto per nascondere a quell’orso di marito l’innocente scappata d’oggi… d’accordo con Ginevra… Il solito giuoco di bussolotti… là, là, e là!… –
Questa volta essa aveva il sorriso diabolico in bocca, mentre picchiava sul parapetto colla mano nuda. Era sempre stata la mia passione quella mano un po’ lunga, un po’ magra, che diceva tante cose e faceva perdere la testa. Mi chinai su di essa e la baciai.
Ritirò la mano, lentamente, senza dir nulla; ma il sorriso le morì sulle labbra che parvero tremare e scolorirsi.
– Ecco come siete, tutti quanti!… – mormorò dopo un momento, guardandosi intorno, e passandosi la mano sul viso.
Eravamo soli, nascosti dalla parete della scala; la presi per forza e la baciai sulla bocca avidamente, felice di sentire che già si abbandonava, come fosse la prima volta.
– Dite la verità – mi chiese poi. – Ve la siete fatta dare apposta la cabina accanto alla mia? –
Alvise aveva ragione di dire che era una simpatica compagna di viaggio: allegra, graziosa, riboccante di spirito, e senza malinconie.
Se qualche momento ne avevo io, delle malinconie, ripensando alle ultime parole della mia Ginevra, ai suoi begli occhi lagrimosi che mi chiedevano di esserle fedele, quest’altra metteva la miglior grazia a farmi tosto spergiuro… e contento. Una di quelle donne che non passano la pelle, ma che sanno accarezzarla. Discreta poi! Mai una allusione o una parola. Sapeva forse che il mio cuore era preso, e si contentava del resto. Talché continuai a trovarla anche dopo che fummo arrivati a Genova, mentre aspettavo l’imbarco per Montevideo.
– Sapete, povera Ginevra… – mi disse un bel giorno, leggendo una lettera che le era giunta allora da Napoli. – Pare che abbia avuto dei guai laggiù, per quello scapato di Alvise… S’è lasciata cogliere dal marito, la sera stessa che partimmo, vi rammentate? –
A quella notizia dovetti fare un viso molto sciocco, poiché ella soggiunse, col suo ghignetto malizioso, stavolta:
– Ve l’aveva fatto anche lei, il giuramento del marinaio? –