Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Novelle rusticane ” (1883)
Novelle di Giovanni Verga
La piccina si affacciò all’uscio, attorcigliando fra le dita la cocca del grembiale, e disse:
– Sono qua -.
Poi, come nessuno badava a lei, si mise a guardare peritosa ad una ad una le comari che impastavano il pane, e riprese:
– M’hanno detto «vattene da comare Sidora».
– Vien qua, vien qua, – gridò comare Sidora, rossa come un pomodoro, dal bugigattolo del forno. – Aspetta ché ti farò una bella focaccia.
– Vuol dire che a comare Nunzia stanno per portarle il Viatico, se hanno mandato via la bambina -. Osservò la Licodiana.
Una delle comari che aiutavano ad impastare il pane, volse il capo, seguitando a lavorare di pugni nella madia, colle braccia nude sino al gomito, e domandò alla bimba:
– Come sta la tua madrigna? –
La bambina che non conosceva la comare, la guardò coi grandi occhi spalancati, e poscia tornando a chinare il capo, e a lavorar in furia colle cocche del grembiale, biascicò sottovoce:
– E’ a letto.
– Non sentite che c’è il Signore? – rispose la Licodiana. – Ora le vicine si son messe a strillare sulla porta.
– Quando avrò finito d’infornare il pane, – disse comare Sidora, – corro anch’io un momento a vedere se hanno bisogno di niente. Compare Meno perde il braccio destro, se gli muore quest’altra moglie.
– Certuni non hanno fortuna colle mogli, come quelli che son disgraziati colle bestie. Tante ne pigliano, e tante ne perdono. Guardate comare Angela!
– Ier sera, – aggiunse la Licodiana, – ho visto compare Meno sull`uscio, che era tornato dalla vigna prima dell’avemaria, e si soffiava il naso col fazzoletto.
– Però, – aggiunse la comare che impastava il pane, – ei ci ha una santa mano ad ammazzare le mogli. In meno di tre anni sono adesso due figlie di curatolo Nino che si è mangiate, l’una dopo l’altra! Ancora un po’ e si mangia anche la terza, e si pappa tutta quanta la roba di curatolo Nino.
– Ma cotesta bambina è figlia di comare Nunzia, oppure della prima moglie?
– E’ figlia della prima. A quest’altra le voleva bene come fosse sua mamma davvero, perché l’orfanella era anche sua nipote -.
La piccina, udendo che parlavano di lei, si mise a piangere cheta cheta in un cantuccio, per sfogarsi il cuor grosso, che aveva tenuto a bada giocherellando col grembiale.
– Vien qua, vien qua, – riprese comare Sidora. – La focaccia è bell’e pronta. Via, non piangere, ché la mamma è in paradiso -.
La bambina allora si asciugò gli occhi coi pugni chiusi, tanto più che comare Sidora dava mano a scoperchiare il forno.
– Povera comare Nunzia! – venne a dire una vicina affacciandosi sull’uscio. – Adesso ci vanno i beccamorti. Sono passati di qua or ora.
– Lontano sia! ché son figlia di Maria! – esclamarono le comari facendosi la croce.
Comare Sidora levò dal forno la focaccia, la ripulì dalla cenere, e la porse calda calda alla bambina, che la prese nel grembiale, e se ne andava adagio adagio, soffiandovi sopra.
– Dove vai? – Le gridò dietro comare Sidora. – Resta dove sei. A casa c’è il ba-bau colla faccia nera, che si porta via la gente -.
L’orfanella ascoltò seria seria, sgranando gli occhi. Poi riprese colla stessa cantilena cocciuta:
– Vo a portarla alla mamma.
– La mamma non c’è più. Statti qua -. Ripeté una vicina. – Mangiala tu la focaccia -.
Allora la piccina si accoccolò sullo scalino dell’uscio, tutta triste, colla focaccia nelle mani, senza toccarla.
Ad un tratto vedendo arrivare il babbo, si alzò lieta, e gli corse incontro. Compare Meno entrò senza dir nulla, e sedette in un canto colle mani penzoloni fra le ginocchia, la faccia lunga, e le labbra bianche come la carta, ché dal giorno innanzi non ci aveva messo un pezzo di pane in bocca dal crepacuore. Guardava le comari come a dire: – Poveretto me! –
Le donne, al vedergli il fazzoletto nero al collo, gli fecero cerchio intorno, colle mani intrise di farina, compassionandolo in coro.
– Non me ne parlate, comare Sidora! – ripeteva lui, scuotendo il capo e colle spalle grosse. – Questa è spina che non mi si leva più dal cuore! Vera santa era quella donna! che, senza farvi torto, non me la meritavo. Fino ad ieri, che stava tanto male, s’era levata di letto per andare a governare il puledro slattato adesso. E non voleva che chiamassi il medico per non spendere e non comprare medicine. Un’altra moglie come quella non la trovo più. Ve lo dico io! Lasciatemi piangere, ché ho ragione! –
E seguitava a scrollare il capo, e a gonfiare le spalle, quasi la sua disgrazia gli pesasse assai.
– Quanto a trovarvi un’altra moglie – aggiunse la Licodiana per fargli animo – non ne avete che a cercarla.
– No! no! – badava a ripetere compare Meno colla testa bassa come un mulo. – Un’altra moglie come questa non la trovo più. Stavolta resto vedovo! Ve io dico io! –
Comare Sidora gli diede sulla voce: – Non dite spropositi, ché non sta bene! Un’altra moglie dovete cercarvela, se non altro per rispetto di questa orfanella, altrimenti chi baderà a lei, quando andrete in campagna! volete lasciarla in mezzo alle strade?
– Trovatemela voi un’altra moglie come quella! Che non si lavava per non sporcar l’acqua; e in casa mi serviva meglio di un garzone, affezionata e fedele che non mi avrebbe rubato un pugno di fave dal graticcio, e non apriva mai bocca per dire «datemi!». Con tutto questo una bella dote, roba che valeva tant’oro! E mi tocca restituirla, perché non ci son figliuoli! Adesso me l’ha detto il sagrestano che veniva coll’acqua benedetta. E come le voleva bene a quella piccina, che le rammentava la sua povera sorella! Un’altra, che non fosse sua zia, me la guarda di malocchio, questa orfanella.
– Se pigliaste la terza figlia di curatolo Nino s’aggiusterebbe ogni cosa, per l’orfana e per la dote -. Osservò la Licodiana.
– Questo dico io. Ma non me ne parlate, ché ci ho tuttora la bocca amara come il fiele.
– Non son discorsi da farsi adesso -. Appoggiò comare Sidora. – Mangiate un boccone piuttosto, compare Meno, che siete tutto contraffatto.
– No! no! – andava ripetendo compare Meno. – Non mi parlate di mangiare, che mi sento un nodo alla gola -.
Comare Sidora gli mise dinanzi, su di uno scanno, il pane caldo, colle olive nere, un pezzo di formaggio di pecora, e il fiasco del vino. E il poveraccio cominciò a mangiucchiare adagio adagio, seguitando a borbottare col viso lungo.
– Il pane, – osservò intenerito, – come lo faceva la buon’anima, nessuno lo sa fare. Pareva di semola addirittura! E con una manata di finocchi selvatici vi preparava una minestra da leccarvene le dita. Ora mi toccherà comprare il pane a bottega, da quel ladro di mastro Puddo; e di minestre calde non ne troverò più, ogni volta che torno a casa bagnato come un pulcino. E bisognerà andarmene a letto collo stomaco freddo. Anche l’altra notte, mentre la vegliavo, che avevo zappato tutto il giorno a dissodare sulla costa, e mi sentivo russare io stesso, seduto accanto al letto, tanto ero stanco, la buona anima mi diceva: «Va a mangiarne due cucchiaiate. Ho lasciato apposta la minestra al caldo nel focolare». E pensava sempre a me, alla casa, al da fare che ci era, a questo e a quell’altro, che non finiva più di parlare, e di farmi le ultime raccomandazioni, come uno quando parte per un viaggio lungo, che la sentivo brontolare continuamente tra veglia e sonno. E se ne andava contenta all’altro mondo! col crocifisso sul petto, e le mani giunte di sopra. Non ha bisogno di messe e di rosari, quella santa! I denari pel prete sarebbero buttati via.
– Mondo di guai! – Esclamò la vicina. – Anche a comare Angela, qui vicino, sta per morire l’asino, dalla doglia.
– I guai miei son più grossi! – Finì compare Meno forbendosi la bocca col rovescio della mano. – No, non mi fate mangiare altro, ché i bocconi mi cascano dentro lo stomaco come fossero di piombo. Mangia tu piuttosto, povera innocente, che non capisci nulla. Ora non avrai più chi ti lavi e chi ti pettini. Ora non avrai più la mamma per tenerti sotto le ali come una chioccia, e sei rovinata come me. Quella te l’avevo trovata; ma un’altra matrigna come questa non l’avrai più, figlia mia! –
La bimba, intenerita, sporgeva di nuovo il labbro, e si metteva i pugni sugli occhi.
– No, non potete farne a meno – ripeteva comare Sidora. – Bisogna cercarvi un’altra moglie, per riguardo di questa povera orfanella che resta in mezzo a una strada.
– Ed io, come rimango? e il mio puledro? e la mia casa? e alle galline chi ci baderà? Lasciatemi piangere, comare Sidora! Avrei fatto meglio a morir io stesso, in scambio della buon’anima.
– State zitto, ché non sapete quello che dite! e non sapete cosa vuol dire una casa senza capo.
– Questo è vero! – osservò compare Meno, riconfortato.
– Guardate piuttosto la povera comare Angela! Prima le è morto il marito, poi il figliuolo grande, e adesso le muore anche l’asino!
– L’asino andrebbe salassato dalla cinghiaia, se ha la doglia, – disse compare Meno.
– Veniteci voi, che ve ne intendete – aggiunse la vicina. – Farete un’opera di carità per l’anima di vostra moglie -.
Compare Meno si alzò per andare da comare Angela, e l’orfanella gli correva dietro come un pulcino, adesso che non aveva altri al mondo. Comare Sidora, buona massaia, gli rammentò:
– E la casa? come la lasciate, ora che non ci è più nessuno?
– Ho chiuso a chiave; e poi lì di faccia ci sta la cugina Alfia, per tenerla d’occhio -.
L’asino della vicina Angela era disteso in mezzo al cortile col muso freddo e le orecchie pendenti, annaspando di tanto in tanto colle quattro zampe in aria, allorché la doglia gli contraeva i fianchi come un mantice. La vedova, seduta lì davanti, sui sassi, colle mani fra i capelli grigi, e gli occhi asciutti e disperati, stava a guardare, pallida come una morta.
Compare Meno si diede a girare intorno alla bestia, toccandole le orecchie, guardandola negli occhi spenti, e come vide che il sangue gli colava ancora dalla cinghiaia, nero, a goccia a goccia, aggrumandosi in cima ai peli irsuti, domandò:
– L’hanno anche salassato? –
La vedova gli fissò in volto gli occhi foschi, senza parlare, e disse di sì col capo.
– Allora non c’è più che fare, – conchiuse compare Meno; e stette a guardare l’asino che si allungava sui sassi, rigido, col pelo tutto arruffato al pari di un gatto morto.
– E’ la volontà di Dio, sorella mia! – le disse per confortarla. – Siamo rovinati tutti e due -.
Egli s’era messo a sedere sui sassi, accanto alla vedova, colla figliuoletta fra le ginocchia, e rimasero entrambi a guardare la povera bestia che batteva l’aria colle zampe, di tanto in tanto, tale e quale come un moribondo.
Comare Sidora, quand’ebbe finito di sfornare il pane, venne nel cortile anche lei colla cugina Alfia, che si era messa la veste nuova, e il fazzoletto di seta in testa, per far quattro chiacchiere; e disse a compare Meno, tirandolo in disparte:
– Curatolo Nino, non ve la darà più l’altra figliuola, ora che con voi gli muoiono come le mosche, e ci perde la dote. Poi la Santa è troppo giovane, e ci sarebbe il pericolo che vi riempisse la casa di figliuoli.
– Se fossero maschi pazienza! Ma c’è anche a temere che vengano delle femmine. Sono tanto disgraziato!
– Ci sarebbe la cugina Alfia. Quella non è più giovane, ed ha il fatto suo: la casa e un pezzo di vigna -.
Compare Meno mise gli occhi sulla cugina Alfia, la quale fingeva di guardare l’asino, colle mani sul ventre, e conchiuse:
– Se è così, se ne potrà parlare. Ma sono tanto disgraziato! –
Comare Sidora gli diede sulla voce:
– Pensate a coloro che sono più disgraziati di voi, pensate!
– Non ce ne sono, ve lo dico io! Non la trovo un’altra moglie come quella! Non potrò scordarmela mai più, se torno a maritarmi dieci volte! E neppure questa povera orfanella se la scorderà.
– Calmatevi, ché ve la scorderete. E anche la bambina se la scorderà. Non se l’è scordata la sua madre vera? Guardate invece la vicina Angela, ora che le muore l’asino! e non possiede altro! Quella sì che dovrà pensarci sempre! –
La cugina Alfia vide che era tempo d’accostarsi anche lei, colla faccia lunga, e ricominciò le lodi della morta. Ella l’aveva acconciata colle sue mani nella bara, e le aveva messo sul viso un fazzoletto di tela fine. Di roba bianca, non faceva per dire, ne aveva molta. Allora compare Meno, intenerito, si volse alla vicina Angela, la quale non si muoveva, come fosse di sasso.
– Ora che ci aspettate a fare scuoiare l’asino? Almeno pigliate i denari della pelle -.