Invalsi
27 Gennaio 2019Luigi Meneghello
27 Gennaio 2019Lettura in classe dell’incipit, di un brano centrale e del finale del romanzo Il barone rampante di Italo Calvino
Incipit
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco.
Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave.
Guardare la realtà da un’altra prospettiva
Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.
Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita.
Ma in tutta quella smania c’era un’insoddisfazione più profonda, una mancanza, in quel cercare gente che l’ascoltasse c’era una ricerca diversa. Cosimo non conosceva ancora l’amore, e ogni esperienza senza quello che è? che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?
Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Conclusione
Cosimo stava lassù e non si muoveva. Si levò il vento, era libeccio, la vetta dell’albero ondeggiava, noi stavamo pronti. In quella in cielo apparve una mongolfiera. Certi aeronauti inglesi facevano esperienze di volo in mongolfiera sulla costa. Era un bel pallone, ornato di frange e gale e fiocchi, con appesa una navicella di vimini: e dentro due ufficiali con le spalline d’oro e le aguzze feluche guardavano col cannocchiale il paesaggio sottostante. Puntarono i cannocchiali sulla piazza, osservando l’uomo sull’albero, il lenzuolo teso, la folla, aspetti strani del mondo.
Anche Cosimo aveva alzato il capo, e guardava attento il pallone. Quand’ecco la mongolfiera fu presa da una girata di libeccio;
cominciò a correre nel vento vorticando come una trottola, e andava verso il mare. Gli aeronauti, senza perdersi d’animo, s’adoperavano a ridurre – credo – la pressione del pallone e nello stesso tempo srotolarono giù l’ancora per cercare d’afferrarsi a qualche appiglio. L’ancora volava argentea nel cielo appesa a una lunga fune, e seguendo obliqua la corsa del pallone ora passava sopra la piazza, ed era pressapoco all’altezza della cima del noce, tanto che temevamo colpisse Cosimo. Ma non potevamo supporre quello che dopo un attimo avrebbero visto i nostri occhi.
L’agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell’ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù, s’aggrappò alla corda, coi piedi sull’ancora e il corpo raggomitolato, e così lo vedemmo volar via, trascinato nel vento, frenando appena la corsa del pallone, e sparire verso il mare…
La mongolfiera, attraversato il golfo, riuscì ad atterrare poi sull’altra riva. Appesa alla corda c’era solo l’ancora. Gli aeronauti, troppo affannati a cercar di tenere una rotta, non s’erano accorti di nulla.
Si suppose che il vecchio morente fosse sparito mentre volava in mezzo al golfo.
Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: «Cosimo Piovasco di Rondò -Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo».
Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure. Poi, la vegetazione è cambiata: non più i lecci, gli olmi, le roveri: ora l’Africa, l’Australia, le Americhe, le Indie allungano fin qui rami e radici. Le piante antiche sono arretrate in alto: sopra le colline gli olivi e nei boschi dei monti pini e castagni; in giù la costa è un’Australia rossa d’eucalipti, elefantesca di ficus, piante da giardino enormi e solitàrie, e tutto il resto è palme, coi loro ciuffi scarmigliati, alberi inospitali del deserto.
Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attoreigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.