Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “Per le vie” (1883)
Novelle di Giovanni Verga
Nel vano della finestra s’incorniciano i castagni d’India del viale, verdi sotto l’azzurro immenso – con tutte le tinte verdi della vasta campagna – il verde fresco dei pascoli prima, dove il sole bacia le frondi; più in là l’ombrìa misteriosa dei boschi. Fra i rami che agita il venticello s’intravvede ondeggiante un lembo di cielo, quasi visione di patria lontana. Al muoversi delle foglie le ombre e la luce scorrono e s`inseguono in tutta la distesa frastagliata di verde e di sole come una brezza che vi giunga da orizzonti sconosciuti. E nel folto, invisibili, i passeri garriscono la loro allegra giornata con un fruscìo d’ale fresco e carezzevole anch’esso.
Sotto, nel largo viale, la città arriva ancora col passo affaccendato di qualche viandante, col lento vagabondaggio di una coppia furtiva. Ella va a capo chino, segnando i passi coll’appoggiare cadenzato dell’ombrellino, e l’ondeggiamento carezzevole del vestito attillato, che il sole ricama di bizzarri disegni, mentre l’ombre mobili delle frondi giuocano sul biondo dei capelli e sulla nuca bianca come rapidi baci che la sfiorino tutta. Ed egli le parla gesticolando, acceso della sua parola istessa che gli suona innamorata. A un tratto levano il capo entrambi al sopraggiungere di un legno che va adagio, dondolando come una culla, colle tendine chiuse; e la giovinetta si fa rossa, pensando alla penombra azzurra di quelle tende che addormentò le sue prime ritrosie. Un vecchio che va curvo per la sua strada alza il capo soltanto per vedere se la giornata gli darà il sole.
E passa il rumore di un carro di cui si vedono le sole ruote polverose girare al di sotto dei rami bassi, e ciondolare addormentati del pari il muso del cavallo e le gambe del carrettiere penzoloni, rigate di sole. Poscia il trotto rapido di un cavallo, col lampo del morso lucente; o la fuggevole visione di una vittoria bruna, nella quale si adagia mollemente fra le piume e il velluto una forma bianca e vaporosa. Così si dileguano in alto le nuvole viaggiando per lidi ignoti, e la dama bianca vi cerca cogli occhi i sogni o i ricordi dell’ultimo ballo che vagano lontano, mollemente del pari.
E le foglioline si agitano fra di loro, con un tremolìo fresco d’ombre e di luce; a un tratto, nell’ebbrezza di sentirsi vivere al sole, stormiscono insieme, e cantano al limite della città romorosa la vita quieta dei boschi. Le coppie innamorate tacciono, quasi comprese di un sentimento più vasto del loro; e colla mano nella mano, vanno, sognando. Più in là, li desta il trotto stracco del carrozzino postale che passa barcollando, portando svogliatamente la noia quotidiana di tutte le faccenduole umane che va a raccogliere dalle cassette, e strascina sempre per la stessa via, al suono fesso della sonagliera, addormentato sotto il gran mantice tentennante. Dall’altro lato risponde il fischio del convoglio che corre laggiù, verso il sole, tirandosi dietro il pensiero, lontano, lontano, verso altri luoghi, verso il passato.
Ecco, fra i rami degli ippocastani c’è una linea d’ombra che sprofonda nel vuoto, come un viale tagliato nel dosso di un monticello, sotto un gran pennacchio di carrubbi. Le belle passeggiate d’allora nel meriggio caldo e silenzioso, quando le cicale stridevano nella valletta addormentata al sole! Accanto serpeggia verso l’alto la linea bruna di un tronco, rendendo immagine del sentiero che ascendeva fra i pascoli ed il sommacco di un noto poggio; e in cima, dove l’azzurro scappa infine libero, sembra di scorgere quella vetta che vedeva tanta campagna intorno. Un dì che voci allegre fra i sommacchi di quel poggio e le vigne di quel monticello! e tutta la comitiva che s’arrampicava festante per l’erta in quel dolce tramonto d’ottobre! E il chiaro di l’una della sera in cui si aspettavano da quella vetta i fuochi della festa al paesetto lontano, e che bagna ancora l’anima di luce malinconica al tornare di queste memorie! Quanto tempo è trascorso? Quanto è lontano ormai quel paesetto? Ora il carrozzino postale vi porta la sola cosa viva che rimanga di tanta festa, sotto un francobollo da venti centesimi. E una farfalletta bianca s’affatica a svolazzare su pel viale immaginario, fra i rami dei castagni d’India, aspirando forse alle cime troppo alte per le sue alucce.
Così quella donna che viene ogni giorno a passeggiare pel viale, e aspetta, e torna a rileggere un foglio spiegazzato che trae di tasca, e guarda ansiosa di qua e di là ad ogni passo che faccia scricchiolare la sabbia, rizzando il capo con tal moto che sembra vederle brillare tutta l’anima negli occhi. Ogni tanto si ferma sotto un albero colle braccia penzoloni e l’atteggiamento stanco. Anch’essa andò a chiedere trepidante quella lettera al postino che ne scorreva un fascio sbadigliando. Ora legge e rilegge la parola luminosa che ci dev’essere per rischiarare l’ombra uggiosa di quel viale, per ravvivare il verde di quegli alberi che le sono passati dinanzi agli occhi con mille gradazioni di tinte nelle desolate ore d’attesa. L’organetto che suonava il mattino gaio, in qualche osteria del sobborgo, e le cantava in cuore tutte le liete promesse della speranza, torna a passare collo stesso motivo già velato dalla mestizia della sera. Gli amanti che si tengono per mano in mezzo a quella festa d’azzurro e di verde, si voltano ridendo al vederla aspettare ancora, sola, vestita di nero. La sera giunge, e l’ombra s’allunga malinconica.
A quell’ora, ogni giorno, suol passare uno sconosciuto alto e pallido, coll’andatura svogliata e l’occhio vagabondo di chi voglia ingannare l’ora del pranzo. Allorché incontrò la donna vestita di nero egli volse a fissarla il volto magro e austero in cui la percezione acuta della vita ha scavato come dei solchi. E chinò il capo quasi indovinasse, stanco della stanchezza di quella derelitta. Ma fu un lampo, e seguitò ad andare diritto e fiero per la sua via, portando negli occhi la visione di tutte le camerette nude e fredde in cui si sono strascinati i suoi sogni di giovinezza e i suoi bauli sconquassati, pieni solo di scartafacci, nel vagabondare dietro un sogno. Quanti dolori ha incontrato per quella via, e quante grida d’amore o di fame ha sentito attraverso le pareti sottili di quelle camerette? Più tardi forse andrà a pranzare con una tazza di caffè e latte fra gli specchi e le dorature del Biffi, pensando a quella donna che aspettava colla stanchezza dell’anima negli occhi, mentre l’orchestra suona la mazurca dell’Excelsior. Ora l’operaio che gli passa allato, strascinando un carretto, non gli bada neppure. La città è troppo vasta, e ce ne son tanti.
E il tramonto in alto si spegne, tranquillo, in un cinguettìo confuso, con mille rumori indistinti che dileguano insieme all’azzurro che svanisce lontano, lontano, verso il paese dei sogni e delle memorie; e vi trasporta ai giorni in cui sentiste le prime mestizie della sera, e la prima canzone d’amore vi si gonfiò melodiosa nell’anima.
Ora la canzone passa vagabonda e avvinazzata pel viale, al casto lume della l’una che stampa in terra le larghe orme nere dei castagni addormentati – la canzone in cui suonano le note rauche della rissa d’osteria e la noia delle querimonie che aspettano a casa colla donna – o la gaiezza dolorosa di chi non vuol pensare al domani senza pane – oppure la brutale galanteria che si lascia alle spalle l’ospedale e la prigione, o il richiamo caldo che cerca l’ora molle d’amore dopo la dura giornata dell’operaio. Solo il bisbiglìo di due voci sommesse che si nascondono nell’ombra canta la primavera innamorata e pudibonda. E a un tratto, nella tarda ora silenziosa, in mezzo alla gran luce d’argento che piove sui rami, da una macchia nell’oscurità si leva una nota d’argento anch’essa, e canta la festa dei nidi alle ragazze che ascoltano alla finestra. In fondo, fra i rami s’intravvede lontano un lumicino, in una stanzuccia solitaria.
A quest’ora pure la cascatella mormora laggiù nel paese lontano, tutta sola in quell’angolo della rupe paurosa, sotto i grappoli di capelvenere, dinanzi la valletta che si stende bianca di l’una.
O i molli pleniluni estivi in cui la giovinezza canta e sogna per le strade, e le memorie sorgono dolci e candide del passato ad una ad una! – E le fredde l’une d’acciaio del Natale, quando i grandi scheletri dei castagni d’India segnano di nero l’azzurro profondo e cupo, e il turbine strappa le foglie dimenticate dall’autunno con un mugolìo che viene da lungi, dalle notti remote in cui passava dietro l’uscio chiuso sulla famigliuola raccolta intorno al ceppo, e spazzava via tutto! – E l’albe livide, i meriggi foschi sui rami inargentati di neve, i gemiti lunghi che vengono col vento dalle notti remote, e i giorni che scorrono silenziosi e deserti sul viale bianco di neve! Ora di tanto in tanto passa il carro funebre senza far rumore, come una macchia nera, ricamato di neve anch’esso, quasi recasse la fioritura della morte; e il doganiere che inganna la lunga guardia facendo quattro ciarle colla servotta dietro il muro, sbircia sospettoso se mai il drappo funebre dei morti non nasconda il contrabbando dei vivi.