Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “Per le vie” (1883)
Novelle di Giovanni Verga
Come il bugigattolo dei portinai non vedeva mai il sole, e avevano una figliuola rachitica, la mettevano a sedere nel vano della finestra, e ve la lasciavano tutto il santo giorno, sicché i vicini la chiamavano «Il canarino del n. 15».
Màlia vedeva passar la gente; vedeva accendere i lumi la sera; e se entrava qualcuno a chiedere di un pigionale rispondeva per la mamma, la sora Giuseppina, che stava al fuoco, o a leggere i giornali dei casigliani.
Sinché c’era un po’ di luce faceva anche della trina, con quelle sue mani pallide e lunghe; e un giovanetto della stamperia lì dicontro, al veder sempre dietro i vetri quel visetto, che era delicato, e con delle pèsche azzurre sotto gli occhi, se n’era come si dice innamorato. Ma poi seppe la storia del canarino, e di mezza la persona che era morta sino alla cintola, e non alzò più gli occhi, quando andava e veniva dalla stamperia.
Ella pure ci aveva badato: tanto nessuno la guardava mai! e quel po’ di sangue che le restava le tingeva come una rosa la faccia pallida, ogni volta che udiva il passo di lui sull’acciottolato. La stradicciuola umida e scura le sembra gaia, con quello stelo di pianticella magra che si dondolava dal terrazzino del primo piano e quei finestroni scuri della tipografia dirimpetto, dov’era un gran lavorìo di pulegge, e uno scorrere di strisce di cuoio, lunghe, lunghe, che non finivano mai, e si tiravano dietro il suo cervello, tutto il giorno. Sul muro c’erano dei gran fogli stampati, che ella leggeva e tornava a leggere, sebbene li sapesse a memoria; e la notte li vedeva ancora, nel buio, cogli occhi spalancati, bianchi, rossi, azzurri, mentre si udiva il babbo che tornava a casa cantando con voce rauca: – O Beatrice, il cor mi dice -.
Ella pure, la Màlia si sentiva gonfiare in cuore la canzone, quando i monelli passavano cantando e battendo gli zoccoli sul terreno ghiacciato, nella nebbia fitta. Ascoltava, ascoltava, col mento sul petto, e provava e riprovava la cantilena sottovoce, davvero come un canarino che ripassi la parte.
Diventava anche civettuola. La mattina, prima che la mettessero dietro la finestra, si lisciava i capelli, e ci appuntava un garofano, quando l’aveva, con quelle mani scarne. Come la Gilda, sua sorella, si attillava per andar dalla sarta, col velo nero sulla testolina maliziosa, e cutrettolava vispa vispa nella vestina tutta in fronzoli, la guardava con quel sorriso dolce e malinconico sulle labbra pallide, poi la chiamava con un cenno del capo, e voleva darle un bacio. Un giorno che la Gilda le regalò un fiocchetto di nastro smesso, ella si fece rossa dal piacere. Alle volte le moriva sulle labbra la domanda se nei giornali non ci fosse un rimedio per lei.
La poveretta non si stancava mai di aspettare che quel giovane tornasse ad alzare il capo verso la finestra. Aspettava, aspettava, cogli occhi alla viuzza, e le dita scarne che facevano andare la spoletta. Ma poi lo vide che accompagnava la Gilda, passo passo, tenendo le mani nelle tasche, e si fermarono ancora a chiacchierare sulla porta.
Si vedeva soltanto la schiena di lui, che le parlava con calore, e la Gilda pensierosa raspava nel selciato colla punta dell’ombrellino. Essa poi disse:
– Qui no, che c’è la Màlia a far la sentinella, ed è una seccatura -.
Alfine un sabato sera il giovanotto entrò anche lui insieme alla Gilda, e si misero a chiacchierare colla sora Giuseppina, che metteva delle castagne nella cenere calda. Si chiamava Carlini; era scapolo, compositore-tipografo, e guadagnava 36 lire la settimana. Prima d’andarsene diede la buona sera anche alla Màlia, che stava al buio nel vano della finestra.
D’allora in poi cominciò a venire sovente, poi quasi ogni sera. La sora Giuseppina aveva preso a volergli bene, pel suo fare ben educato, ché non veniva mai colle mani vuote: confetti, mandarini, bruciate, alle volte anche una bottiglia sigillata. Allora si fermava in casa anche il babbo della ragazza, il sor Battista, a chiacchierare col Carlini come un padre, dicendogli che voleva cucirgli lui il primo vestito nuovo, se mai. Egli ci aveva là il banco e le forbici da sarto, e il ferro da stirare, e l’attaccapanni, e lo specchio dei clienti. Adesso lo specchio serviva per la Gilda. Mentre il giovane aspettava l’innamorata, si metteva a discorrere colla Màlia; le parlava della sorella, le diceva quanto le volesse bene, e che incominciava a mettere dei soldi alla Cassa di Risparmio. Appena tornava la Gilda si mettevano a sussurrare in un cantuccio, bocca contro bocca, pigliandosi le mani allorché la mamma voltava le spalle.
Una sera egli le diede un grosso bacio dietro l’orecchio, mentre la sora Giuseppina sbadigliava in faccia al fuoco, e Carlini credeva che nessuno li vedesse, tanto che alle volte se ne andava senza pensare nemmeno che la Màlia fosse là, per darle la buonanotte. Una domenica arrivò tutto contento colla nuova che aveva trovata la casa che ci voleva: due stanzette a Porta Garibaldi, ed era anche in trattative per comprare i mobili dell’inquilino che sl’oggiava, un povero diavolo col sequestro sulle spalle, per via della pigione. Il Carlini era così contento che diceva alla Màlia:
– Peccato che non possiate venire a vederla anche voi! –
La ragazza si fece rossa. Ma rispose:
– La Gilda sarà contenta lei -.
Ma la Gilda non sembrava molto contenta. Spesso il Carlini l’aspettava inutilmente, e si lagnava colla Màlia di sua sorella, che non gli voleva bene come lui gliene voleva, e gli lesinava le buone parole e tutto il resto. Allora il povero giovane non la finiva più coi piagnistei; raccontava ogni cosa per filo e per segno: che piacere le aveva fatto la tal parola, come sorrideva con quella smorfietta, come s’era lasciata dare quel bacio. Almeno provava un conforto nello sfogarsi colla Màlia. Gli pareva quasi di parlare colla Gilda, tanto la Màlia somigliava a sua sorella, nell’ombra, mentre lo ascoltava guardandolo con quegli occhi. Arrivava perfino a prenderle la mano, dimenticando che era mezzo morta su quella seggiola.
– Guardate, – le diceva. – Vorrei che la Gilda foste voi, col cuore che avete! –
Stava lì per delle ore, colle mani sui ginocchi, finché tornava la Gilda. Almeno udiva il trottarello lesto dei suoi tacchetti, e la vedeva arrivare con quel visetto rosso dal freddo, e quegli occhi belli che interrogavano in giro tutta la stanzetta al primo entrare. La Gilda era vanarella e ambiziosa; gli aveva proibito di accompagnarla colla sua camiciuola turchina da operaio, quando andava impettita per via. Una sera Màlia la vide tornare a casa in compagnia di un signorino, di cui la tuba lucida passava rasente al davanzale, e si fermarono sulla porta come faceva prima col Carlini. Ma a costui non disse nulla.
Il poveraccio s’era dissestato. La pigione di casa, i mobili da pagare, i regalucci per la ragazza, il tempo che perdeva: tanto che il direttore della tipografia gli aveva detto: – A che giuoco giuochiamo? – Egli tornava a confidarsi colla Màlia, e la pregava:
– Dovreste parlagliene voi a vostra sorella -.
Gilda fece una spallucciata, e rispose alla Màlia:
– Piglialo tu -.
A capodanno il Carlini portò in regalo un bel taglio di lanina a righe rosse; tanto rosse che la Gilda diede in uno scoppio di risa, e disse che era adatta per qualche contadina di Desio o di Gorla, come le aveva viste a Loreto. Il giovanotto rimaneva mortificato con l’involto in mano, ripiegandolo adagio adagio, e lo offrì alla Màlia, se lo voleva lei.
Era il primo regalo che la Màlia riceveva e le parve una gran cosa. La sora Giuseppina, per scusare l’uscita della Gilda, prese a dire che quella ragazza era di gusto fine, come una signora, e non trovava mai cosa abbastanza bella pel suo merito. – Per quella figliuola là non sto mica in pena – soleva dire.
La Gilda infatti veniva a casa ora con una mantiglia nuova, che le gonfiava il seno tutto di frange, ora con le scarpine che le strizzavano i piedi, ed ora con un cappellaccio peloso che faceva ombra sugli occhi lucenti al pari di due stelle. Una volta portò un braccialetto d’argento dorato, con una ametista grossa come una nocciuola, che passò di mano in mano per tutto il vicinato. La mamma gongolava e strombazzava i risparmi che faceva la figliuola dalla sarta. La Màlia volle vedere anche lei; e il babbo stava per stendere le mani, e lo chiese in prestito per una sera, onde mostrarlo agli amici, dal tabaccaio e dal liquorista lì accanto. Ma la Gilda si ribellò. Allora il sor Battista cominciò a gridare se ella tornava a casa tardi, e a sfogarsi con Carlini che perdeva il suo tempo e i regalucci dietro quell’ingrata, la quale non aveva cuore nemmeno pei genitori. Gilda un bel giorno gli levò l’incomodo di aspettarla più.
Malgrado le sbravazzate del sor Battista nella casa ci fu il lutto. La sora Giuseppina non fece altro che brontolare e litigare col marito tutta sera. Il sor Battista andò a letto ubbriaco. La Màlia udì sino all’alba il Carlini che aspettava passeggiando nella strada.
Poi la sora Carolina, che vendeva i giornali lì alla cantonata, venne a raccontare qualmente avevano vista la Gilda in Galleria, vestita come una signora. Il babbo giurò che voleva andare col Carlini in traccia del sangue suo, quella domenica, e l’accompagnarono a casa che non si reggeva in piedi.
Il Carlini si era affiatato col sor Battista. Lavorava soltanto quando non poteva farne a meno, ora qua e là nelle piccole stamperie, l’accompagnava all’osteria, e tornavano a braccetto. In casa s’era fatto come un della famiglia per abitudine. Accendeva il fuoco o il gas per le scale, menava la tromba, teneva sempre in ordine i ferri del sarto, caso mai servissero, e scopava anche la corte, per risparmiare la sora Giuseppina, giacché suo marito non stava in casa gran fatto. La sora Giuseppina, per gratitudine, voleva fargli credere che la Gilda gli volesse sempre bene, e sarebbe tornata un giorno o l’altro. Egli scuoteva il capo; ma gli piaceva discorrerne colla vecchia, o colla Màlia, che somigliava tutta a sua sorella. Gli pareva di alleggerirsi il cuore in tal modo, quando ella l’ascoltava fra chiaro e scuro, fissandolo con quegli occhi. E una volta che era stato all’osteria, e si sentiva una gran confusione dalla tenerezza, le diede anche un bacio.
La Màlia non gridò: ma si mise a tremare come una foglia. Già non c’era avvezza, e la mamma per lei non stava in guardia. L’indomani, a testa riposata, Carlini era venuto a chiacchierare come il solito, spensierato e indifferente. Ma la poveretta si sentiva sempre quel bacio sulla bocca, col fiato acre di lui, e vi aveva pensato tutta la notte. Allora in principio di primavera, come se quel bacio fosse stato del fuoco vivo, Màlia cominciò a struggersi e a consumarsi a poco a poco. La mamma ripeteva alla sora Carolina e alla portinaia della casa accanto che il male le saliva dalle gambe per tutta la persona. Il medico glielo aveva detto.
Il marzo era piovoso. Tutto il giorno si udiva la grondaia che scrosciava sul tetto di vetro della stamperia, e la gente che sfangava per la stradicciuola. Ogni po’ si fermava alla porta un legno grondante acqua, e sbattevano in furia gli sportelli e l’usciale.
– Questa è la Gilda, – esclamava la mamma. La Màlia pallida cogli occhi fissi alla porta, non diceva nulla, ma s’affilava in viso. Poi nell’ora malinconica in cui anche la finestra si oscurava, passava la voce lamentevole di quel che vendeva i giornali: – Secolo! il Secolo! – come una malinconia che cresceva. E la Gilda non veniva.
Al san Giorgio, com’era tornato il bel tempo, la giornalista lì accanto ed altri vicini progettarono una gita in campagna. Il Carlini, che s’era fatto di casa, fu della partita anche lui. La sera scesero dal tramvai tutti brilli, e portando delle manciate di margheritine e di fiori di campo. Il Carlini, in vena di galanteria, volle regalare alla Màlia tutti quei fiori che gli impacciavano le mani. La povera malata ne fu contenta, come se le avessero portato un pezzo di campagna. Dal suo lettuccio aveva vista la bella giornata di là dalla finestra, sul muro dirimpetto che sembrava più chiaro, colla pianticella del terrazzino che metteva le prime foglie. Ella voleva che le piantassero quei fiorellini in un po’ di terra, perché non morissero, in qualche coccio di stoviglia, che ce ne dovevano essere tante in cucina. Un capriccio da moribonda, si sa. Gli altri rispondevano ridendo che era come far camminare un morto. Per contentarla ne collocarono alcuni in un bicchier d’acqua sul cassettone, e a fine di tenerla allegra tirarono fuori il discorso della veste a righe rosse e nere, tuttora in pezza, che la Màlia si sarebbe fatta fare, quando stava meglio. Suo padre ci aveva le forbici, e il refe e tutti i ferri del mestiere. La poveretta li ascoltava guardandoli in volto ad uno ad uno, e sorrideva come una bambina. Il giorno dopo i fiori del bicchiere erano morti. Nel bugigattolo mancava l’aria per vivere. L’estate cresceva. Giorno e notte bisognava tener spalancata la finestra pel gran caldo. Il muro di faccia si era fatto giallo e rugoso. Quando c’era la luna scendeva sin nella stradicciuola in un riflesso chiaro e smorto. Si udivano le mamme e i vicini chiacchierare sulle porte.
Al ferragosto il sor Battista coi denari delle mance prese una sbornia coi fiocchi, e si picchiarono colla sora Giuseppina. Il Carlini, nel far da paciere, si buscò un pugno che l’accecò mezzo.
La Màlia quella sera stava peggio; e con quello spavento per giunta, il medico che veniva pel primo piano disse chiaro e tondo che poco le restava da penare, povera ragazza.
A quell’annunzio babbo e mamma fecero la pace, e venne anche la Gilda vestita di seta, senza che si sapesse chi glielo aveva detto.
La Màlia invece credeva di star meglio, e chiese che le sciorinassero sul letto il vestito in pezza del Carlini, onde «farci festa» diceva lei. Stava a sedere sul letto, appoggiata ai guanciali, e per respirare si aiutava muovendo le braccia stecchite, come fa un uccelletto delle ali.
La sora Carolina disse che bisognava andare pel prete, e il babbo che quelle minchionerie le aveva sempre disprezzate col Secolo, se ne andò all’osteria in segno di protesta. La sora Giuseppina accese due candele, e mise una tovaglia sul cassettone. Màlia, al vedere quei preparativi si scompose in viso, ma si confessò col prete, anche il bacio del Carlini, e dopo volle che la mamma e la sorella non la lasciassero sola.
Il babbo, l’aspettarono, s’intende. La sora Giuseppina si era appisolata sul canapè, e Gilda discorreva sottovoce col Carlini accanto alla finestra, credendo che la Màlia dormisse. Così la poveretta passò senza che se ne accorgessero, e i vicini dissero che era morta proprio come un canarino.
Il babbo il giorno dopo pianse come un vitello e la sua moglie sospirava:
– Povero angelo! Hai finito di penare! Ma eravamo abituati a vederla là, a quella finestra, come un canarino. Ora ci parrà di esser soli peggio dei cani -.
La Gilda promise di tornar spesso e lasciò i denari pel funerale. Ma a poco a poco anche il Carlini diradò le visite, e come aveva cambiato alloggio a San Michele, non si vide più.
Sulla finestra il babbo, per mutar vita, fece inchiodare un pezzetto d’asse, con su l’insegna «Sarto» la quale vi rimase tale e quale come il canarino del n. 15.