Le monarchie feudali di Francia e Inghilterra nel XII secolo
2 Agosto 2022Malta
2 Agosto 2022Emilio De Marchi (Milano, 31 luglio 1851 – Milano, 6 febbraio 1901) è stato uno scrittore, poeta e traduttore italiano. Ritenuto fra i più importanti narratori del secondo Ottocento italiano, descrive nelle sue opere i contadini lombardi e la piccola borghesia milanese in Demetrio Pianelli, ma non solo.
Biografia
Nato da una famiglia di modeste condizioni e presto orfano di padre, riuscì a laurearsi in Lettere nel 1874 nell’allora Accademia scientifico-letteraria di Milano, poi divenuta l’Università degli studi di Milano. Dell’accademia divenne in seguito segretario e libero docente di Stilistica. Frequentò il mondo letterario milanese dominato in quel momento dalla Scapigliatura. Ebbe un ruolo attivo anche nelle istituzioni caritative cittadine, e un’eco di questa sua esperienza si riscontra anche nei suoi romanzi. Volle tenersi lontano dalle esasperazioni naturalistiche e fedele agli insegnamenti di Manzoni, all’equilibrio e al rigore morale del realismo a cui era spinto anche dal suo credo cristiano. Fondatore della rivista “La vita nuova” si dimette alla fusione con la rivista radicale “Il preludio” poiché riteneva inconciliabili i due punti di vista.
Negli anni 1876-1877 si dedicò a scrivere romanzi, secondo l’uso del tempo pubblicati su periodici e quotidiani: Tra gli stracci, Il signor dottorino e Due anime in un corpo. La morale è quella borghese del Manzoni, dove rassegnazione e onestà pagano più di sovversione e violenza, il contrasto doloroso tra ricchi e poveri non autorizza la lotta di classe.
Con Il cappello del prete (1888) inventò il romanzo noir, un nuovo genere letterario almeno per l’esperienza italiana. Nel romanzo, ambientato a Napoli, è appunto un cappello a essere l’unica traccia che conduce a svelare l’uccisione di un prete affarista da parte di un nobile spiantato. Il cappellaio si accontenta di un terno come pagamento di un cappello da prete; I numeri escono, ma nel frattempo il prete è stato ucciso. Esce a puntate nel 1887 per dimostrare quanto di onesto e vitale c’è nel grande pubblico.
Il successivo Demetrio Pianelli (1889) torna ad un’ambientazione milanese. Tale romanzo appartiene al filone del romanzo impiegatizio i cui dimessi eroi condannati ad una mediocre routine scoprono dentro di sé il bisogno di una felicità regolarmente negata. Demetrio in seguito al suicidio per debiti del fratello deve provvedere alla sua famiglia, ma si innamora della cognata e per lei (che sposerà in seconde nozze un ricco cugino) giunge ad insultare il capoufficio e viene trasferito a Grosseto.
Più che ai vinti di Verga, a differenza del quale De Marchi interviene nel racconto, il personaggio di Demetrio fa pensare ad un’umanità dolente di umiliati e offesi, bilanciato da un umorismo manzoniano.
Tra gli altri romanzi Arabella (1892), che continua la storia di Demetrio Pianelli, perché Arabella è sua nipote, anche lei destinata all’infelicità.
Fu ottimo traduttore dei versi delle Favole di Jean de La Fontaine, la critica ritiene che De Marchi sia riuscito a riportare nella versione italiana lo spirito del favolista francese, mettendone in risalto tanto l’ironia quanto la sua visione amara della vita.
Si augurò la nascita di un forte partito conservatore nel saggio Le forze conservatrici del 1898, e la permanenza dei valori tradizionali religiosi e familiari nello scritto pedagogico L’Età preziosa.
Nei saggi di critica letteraria, quali Lettere e letterati del secolo XVIII perseguì la ricerca di un contenuto morale.
Pubblicò i suoi romanzi sui quotidiani perché, rifacendosi al Manzoni, attribuiva alla letteratura una funzione educativa.
Muore a Milano il 6 febbraio 1901 ed è sepolto nel cimitero di Paderno Dugnano.
Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia.
Il cappello da prete e il decadentismo di De Marchi
Da Dostoevskij ha tratto alcuni aspetti del suo protagonista, in particolare da “Il giocatore” e da “Delitto e castigo” (ma qui non c’è salvezza per il nostro Barone, non c’è una Sonia che lo affianchi in un percorso di redenzione e penitenza).
Premessa
AVVERTENZA PREMESSA DALL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE (1888).
Questo non è un romanzo sperimentale, tutt’altro, ma un romanzo “d’esperimento”, e come tale vuol essere preso.
Due ragioni mossero l’autore a scriverlo.
La prima per provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere il romanzo detto d’appendice, con quel beneficio del senso morale e del senso comune che ognuno sa; o se invece, con un poco di buona volontà, non si possa provvedere da noi largamente e con più giudizio ai semplici desideri del gran pubblico.
La seconda ragione fu per esperimentare quanto di vitale e di onesto e di logico esiste in questo gran pubblico così spesso calunniato e proclamato come una bestia vorace che si pasce solo di incongruenze, di sozzure, di carni ignude, e alla quale i giornali a centomila copie credono necessario di servire di truogolo.
L’esperimento ha dimostrato già a quest’ora le due cose, cioè che anche da noi si saprebbe fare come gli altri e col tempo forse molto meglio per noi; e poi che il signor pubblico è meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare.
Pubblicato in due giornali d’indole diversa, in due città poste quasi agli estremi d’Italia, — nell’Italia di Milano e nel “Corriere di Napoli”— questo “Cappello del prete”, senza nessuna delle solite basse transazioni, ma col semplice ajuto dei comuni artifici d’invenzione e di richiamo, ha ottenuto più di quanto l’autore pensasse di ottenere. I signori centomila hanno letto di buona voglia e, da quel che si dice, si sono anche commossi e divertiti.
Dal canto suo l’autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più d’una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell’arte nostra.
Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare in mezzo ai palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che ajuti a sollevare gli animi.
L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori.
Useremo fotogrammi dallo sceneggiato televisivo del 1970 di Sandro Bolchi Incipit:
Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura.
A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile fascinatore.
Per qualche anno il barone, detto «u barone», lesse dei libri e prese la scienza sul serio: ma non sarebbe stato lui, se avesse per amore della scienza rinunciato alle belle donne, al giuoco, al buon vino del Vesuvio, e ai cari amici. Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno.
PRIMO CAPITOLO
Il barone napoletano Carlo Coriolano di Santafusca è alle prese con un grosso problema: ha appena ricevuto la richiesta di restituire entro due settimane una cartella di 15.000 lire al canonico amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle, altrimenti sarà denunciato. Trovandosi già nell’albo degli insolvibili e non in grado di ripianare il debito, il barone decide di rivolgersi a don Cirillo, detto ‘o prevete, un prete dedito più al denaro che alla missione religiosa, per proporgli la vendita del suo palazzo, la Villa di Santafusca.
Il barone ed il prete si incontrano e raggiungono un accordo sulla vendita della Villa per una somma di 30.000 lire, tuttavia entrambi non hanno palesato le loro vere intenzioni. Padre Cirillo ha in animo di truffare il barone, perché sa che la Sacra Mensa Diocesana è disposta a pagare l’edificio forse fino a 120.000 lire per collocarvi un seminario e un collegio teologico: se l’operazione riuscirà, prete Cirillo potrà “salvare per sé il diritto di una stanza nel collegio coll’obbligo di una messa quotidiana” e nel frattempo lascerà il suo squallido bugigattolo e si libererà dei popolani napoletani che lo assillano con la richiesta di numeri da giocare al lotto. L’idea che ronza in capo al barone è invece molto più oscura: far “sparire” Don Cirillo al suo arrivo alla Villa, in modo da poter mettere le mani sulle enormi ricchezze del prete.
SECONDO CAPITOLO
Giustificazioni del delitto
egli era profondamente persuaso che l’uomo è un pugno di terra, ohe la terra ritorna alla terra e s’impasta colla terra. La coscienza — aveva scritto il dottor Panterre — è un geroglifico scritto col gesso sopra una tavola nera. Si cancella così presto, come si fa. La coscienza è il lusso, l’eleganza dell’uomo felice. E Dio? Dio una capocchia di spillo puntato nel cuscino del cielo….
TERZO CAPITOLO
Alla vigilia del delitto
Nei giorni seguenti ‘o prevete porta avanti il suo progetto: risolve le questioni aperte con Cruschiello, un suo compare pignoratario, ritira molte cartelle di rendita depositate al banco, si reca al Sacro Monte per appianare con 8.000 lire il debito del barone e lascia i denari della pigione e le chiavi della casa al nipote Gennariello.
QUARTO CAPITOLO
Il delitto
Il giorno dell’appuntamento, Don Cirillo incontra Filippino, il cappellaio, che, essendo in gravi difficoltà economiche, gli offre un cappello nuovo coi nastrini di seta per poche lire, prima che gli vengano pignorati tutti gli averi. Don Cirillo si reca quindi alla villa del barone che lo uccide, colpendolo alla testa. Il cappello nuovo vola via ed il barone non se ne accorge.
QUINTO CAPITOLO
Dopo il delitto. – Sensazioni.
Era naturale ch’egli provasse nei primi giorni qualche spavento. Non si ammazza un uomo senza che il sangue non dia un tuffo. La natura, vuol la sua parte, ma non più che una parte, cioè una certa nausea che il barone era pronto a sopportare, finchè fosse passata a poco a poco da sè.
Prete Cirillo era una carcassa già sacra alla morte. Il tempo avrebbe distrutto a poco a poco ciò che la forza di un uomo distrusse subito. Era dunque questione di mesi e di giorni, che scompariscono in un numero grande di anni e sono un nulla nel tempo senza fine.
— Se al di là vi fosse veramente un Dio, — pensava a suo dispetto il barone, — il quale dal suo trono di cartone d’oro giudicasse di queste faccende, capisco ch’io starei fresco il giorno del giudizio; e non avrei gusto di veder risorgere il mio prete dalla sua cisterna. Ma poiché io sono convinto che al di là non c’è nulla e che il cielo non è che una soffitta dove collochiamo le idee che non usiamo più, di chi, di che avrò paura? delle ombre? dei sogni? del diavolo? delle baie dei preti? Dunque, da questa parte possiamo vivere in pace. Prete Cirillo non ha fatto che pagare un poco prima del tempo il suo debito alla natura, e se lo meritava un poco, perché egli era avaro, una sanguisuga dei poveri e in fondo non cercava che di strozzar me, pigliandomi per la gola nelle strette del bisogno.
«U barone» aveva bisogno di ripetere queste cose per inchiodarsele indosso.
— Tra me e lui si è combattuta la grande lotta per la vita. La vittoria, come sempre, fu del più forte, vedi Carlo Darwin.
SESTO CAPITOLO
La vincita al lotto di Filippo Mantica (Filippino il cappellaio)
SETTIMO CAPITOLO
Troppa fortuna. La sorte era sempre stata avara con il barone. Dopo il delitto, invece, le sue vincite al gioco gli permettono anche di cancellare l’ipoteca sulla vita che il barone doveva a un Marchese.
OTTAVO CAPITOLO
Il cappello
Il cane di Salvatore, Salvatore, povero custode della Villa dei Santafusca, che il barone aveva fatto allontanare il giorno del delitto con una scusa, muore improvvisamente per un colpo al cuore, lasciando il cappello nella sua stanza. Don Antonio, parroco di Santafusca, giunto a casa di Salvatore per il funerale, prende inavvertitamente il cappello da prete nuovissimo che era stato di don Cirillo, al posto del suo sgangherato. Accortosi poi dello scambio, tormentato dai sensi di colpa, Don Antonio cerca di restituirlo, e poiché nel cappello c’è scritto il nome del venditore, lo mostra appunto a Filippino Mantica, cappellaio del paese, che riconosce in quel cappello quello di don Cirillo e, pensando che gli possa essere accaduto qualcosa, lo consegna nelle mani della giustizia.
DAL NONO AL QUINDICESIMO CAPITOLO
Spaventi e paure
Il barone al momento del delitto non si era accorto che a don Cirillo era scivolato via un cappello. Quello che sembrava un delitto perfetto, adesso rivelava una falla, che si amplifica quando si rincorrono le voci sulla vincita di Filippino e soprattutto l’impossibilità di recuperare il cappello. In effetti il barone cercherà il cappello fra le povere cose che Salvatore aveva lasciato alla sua morte, ma si trattava di quel cappello di don Antonio, che lui aveva per sbaglio lasciato nella stanza di Salvatore, quando era giunto da lui per il funerale.
Il cacciatore
Per impossessarsi di quel cappello, che poi non era quello giusto, il barone si era perfino travestito da cacciatore, e così conciato era comparso davanti a Giorgio, nipote di Salvatore, che faceva l’oste lassù alla Falda, all’ Osteria del Vesuvio, che glielo dà gratis, dopo che il barone ha pagato la sua consumazione. Il barone, senza accorgersi che non è quello di don Cirillo, lo butta in mare, e si dà alla pazza gioia con Marinella, con la sua vita dissoluta, con il gioco, con il bere (l’assenzio).
Il barone addirittura cerca di convincere le forze dell’ordine che quel cacciatore poteva essere l’assassino, senza capire che in questo modo faceva sì che gli indizi conducessero sempre più gli investigatori verso di lui a Santafusca. In particolare uno di essi, il cavaliere Martellini, si comporta proprio come il tenente Colombo, cioè prima si presenta come un amico del barone, va con lui alle corse (il barone amava scommettere su tutto), e poi indurrà il barone a contraddirsi.
Infatti, alla fine, tormentato da sensi di colpa e in preda ad allucinazioni (vede il cappello e il prete nei suoi incubi), convocato dalla polizia, dapprima nega e poi, come guidato da un meccanismo interno, cioè indotto dalle sue stesse incoerenze, confessa di aver ucciso il prete nella sua villa, ma, come già detto, questa confessione non è una liberazione,. Come nel caso di Raskolnikov.
Egli parlava confusamente, ridendo, fischiando, urlando, di filosofia, del dottor Panterre, di corse di cavalli, di carte, di donne, di prete Cirillo; lo chiamava per nome, lo beffeggiava, lo avvertiva di non fidarsi del cacciatore che voleva ammazzarlo
Audio Lezioni sulla Letteratura italiana dell’ottocento del prof. Gaudio
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