Roberto Vecchioni e il potere dei sogni
27 Gennaio 2019Commedia da salotto
27 Gennaio 2019da “Vita dei campi” (1880)
Novelle di Giovanni Verga
Il signor Polidori e la signora Rinaldi si amavano – o credevano di amarsi – ciò che è precisamente la stessa cosa, alle volte; e in verità, se mai l’amore è di questa terra, essi erano fatti l’uno per l’altro: Polidori si godeva quarantamila lire di entrata, e una pessima riputazione di cattivo soggetto, la signora Rinaldi era una donnina vaporosa e leggiadra, e aveva un marito che lavorava per dieci, onde farla vivere come se possedesse quarantamila lire di rendita. Però sul conto di lei non era corsa la più innocente maldicenza, sebbene tutti gli amici di Polidori fossero passati in rivista, col fiore all’occhiello, dinanzi alla fiera beltà. Finalmente la fiera beltà era caduta – il caso, la fatalità, la volontà di Dio, o quella del diavolo, l’avevano tirata pel lembo della veste.
Quando si dice cadere intendesi che aveva lasciato cadere sul Polidori quel primo sguardo languido, molle, smarrito, che fa tremare le ginocchia al serpente messo in agguato sotto l’albero della seduzione. Le cadute a rotta di collo son rare, e alle volte fanno scappare il serpente. La signora Rinaldi, prima di scendere da un ramo all’altro, voleva vedere dove metteva i piedi, e faceva mille graziose moine col pretesto di voler fuggire verso le cime alte. Da circa un mese ella si era appollaiata sul ramoscello della corrispondenza epistolare, ramoscello flessibile e pericoloso, agitato da tutte le aurette profumate. – Avevano cominciato col pretesto di un libro da chiedere o da restituire, di una data da precisare, o che so io – la bella avrebbe voluto fermarvisi un pezzo, su quel ramo, a cinguettare graziosamente, perché le donne cinguettano sempre a meraviglia, così cullandosi fra il cielo e la terra; Polidori, il quale aveva vuotato il sacco, divenne presto arido, laconico, categorico che era una disperazione. La poveretta chiuse gli occhi e le ali, e si lasciò scivolare un altro po’.
– Non ho letto la vostra lettera; né voglio leggerla! – gli disse incontrandolo all’ultimo ballo della stagione, mentre seguivano la fila delle coppie. – Giacché non volete essere quello che vi avevo ideato, lasciatemi rimanere quale voglio essere io -.
Polidori la fissava serio serio, tormentandosi i baffi, ma colla fronte china. Gli altri ballerini che non avevano nessuna ragione per stare a chiacchierare nel vano dell’uscio, li spingevano verso il salone. La donna arrossì, quasi fosse stata sorpresa in un abboccamento segreto con lui.
Polidori – il serpente – notò quella vampa fugace. – Sapete che vi obbedirò ad ogni costo, – rispose semplicemente.
La croce di brillanti scintillò sul petto di lei, sollevandosi in trionfo. Tutta la sera la signora Rinaldi ballò come una pazza, passando da un ballerino all’altro, tirandosi dietro uno sciame di adoratori, cogli occhi ebbri di festa, luccicanti come le gemme che le formicolavano sul seno anelante. Però ad un tratto, trovandosi faccia a faccia colla sua immagine in un grande specchio, si fece seria e non volle ballar più. Rispondeva a tutti di sentirsi stanca, molto stanca; e macchinalmente cercava cogli occhi suo marito. Non c’era nemmen lui, quell’uomo! In quei dieci minuti che rimase accasciata sul canapè, senza curarsi che la sua veste si affagottava sgarbatamente, le passarono davanti agli occhi delle strane fantasie, insieme alle coppie che ballavano il valzer. Polidori solo non ballava, né si vedeva più. – Che uomo era mai costui? Finalmente lo scorse in fondo a una sala deserta, faccia a faccia con una testa pelata, che non doveva aver nulla da dire, sorridendo come un uomo per cui il sorriso sia indifferente anch’esso. – Ella avrebbe preferito sorprenderlo colla più bella signora della festa, in parola d’onore! – Polidori non se ne avvide. Si alzò, premuroso sempre, e le offrì il braccio.
In quel momento, proprio in quel momento doveva cacciarlesi fra i piedi anche suo marito, che cercava di lei. Allora, bruscamente, aggiustandosi sull’omero la scollatura della veste, con un leggiadro movimento della spalla, disse piano a Polidori, così piano che il fruscio della seta coprì quasi il suono della voce:
– Sia pure, domani alle nove, ai Giardini -.
Polidori s’inchinò profondamente e la lasciò passare, raggiante e commossa, al braccio del marito.
Giammai mattino di primavera non era sembrato così misteriosamente bello alla signora Rinaldi nella sua villa deliziosa della Brianza, e giammai ella non l’avea contemplato con occhio più distratto attraverso al cristallo scintillante del suo coupé, come quando il suo legnetto attraversava rapidamente la piazza Cavour. Il sole inondava i viali del giardino, caldo e dorato, sull’erba che incominciava a rinverdire; l’azzurro del cielo era profondo. Coteste impressioni, ad insaputa di lei, riverberavansi nei suoi grandi occhi neri, che guardavano lontano, non sapeva ella stessa dove, né che cosa, mentre appoggiava la mano e la fronte pallida alla manopola. Di tanto in tanto un brivido la faceva stringere nelle spalle, un brivido di stanchezza o di freddo.
Appena la carrozza si fermò al cancello, ella trasalì, e si tirò indietro vivamente, quasi suo marito si fosse affacciato all’improvviso allo sportello. Esitò alquanto prima di scendere, colla mano sulla maniglia pensando vagamente a quell’aspetto nuovo, sotto cui le si affacciava alla mente suo marito; poi mise il piede a terra e si calò il velo sul viso: un velo fitto, nero, tempestato di puntini, attraverso al quale gli occhi acquistavano alcunché di febbrile, e i lineamenti una rigidità di fantasma. La carrozza si allontanò di passo, senza far rumore, da carrozza discreta e ben educata.
Il giardino sembrava destato anche’esso prima dell’ora, e tutto sorpreso d’incominciar la sua giornata così presto. Degli uomini in manica di camicia lo lavavano, lo pettinavano, gli facevano la sua toeletta mattutina. Le poche persone che si incontravano avevano l’aspetto di trovarsi là a quell’ora per la prima volta, e per ordine del medico anche loro; osavano interrogare il velo della passeggiatrice mattiniera, e indovinare il profumo del fazzoletto nascosto nel manicotto che ella si premeva sul petto con forza. Un vecchio che si trascinava lentamente, cercando il sole di marzo, si fermò a guardarla, com’ella fu passata, appoggiandosi al bastone malfermo, e tentennò il capo tristamente.
La signora Rinaldi si arrestò dinanzi alla sponda del laghetto, saettando a dritta e a sinistra un’occhiata guardinga, cercando qualche cosa o qualcuno. Il mormorìo fresco dell’acqua, e lo stormire lieve lieve degli ippocastani la isolavano completamente; allora sollevò alquanto il velo, e cavò dal guanto un bigliettino meno grande di una carta da giuoco. Per due o tre minuti l’acqua seguitò a scorrere, e le foglie a stormire per conto loro. La donna aveva gli occhi assorti, avidi, umidi di sogni.
Tutt’a un tratto un passo frettoloso le fece rizzare il capo, e il sangue le avvampò sulle guance, come se gli occhi ardenti del nuovo arrivato le avessero sfiorato il viso con un bacio.
Polidori stava per portare la mano al cappello, quando ella gli arrestò il gesto con uno sguardo impercettibile, e gli passò vicino senza fissarlo.
Camminava a capo chino, ascoltando lo stridere della sabbia sotto i suoi stivalini, senza guardare dinanzi a sé. Di tanto in tanto si metteva il fazzoletto alla bocca; per riprender fiato, quasi il suo cuore divorasse avidamente tutta l’aria che la circondava.
L’onda lenta del ruscello l’accompagnava chetamente, borbottando sottovoce, addormentando le ultime sue paure; l’ombra dei cedri e il silenzio del viale deserto la penetravano vagamente, con sottile voluttà.
Quando si fermò dinanzi alla gabbia del leopardo il petto le scoppiava e i ginocchi le tremavano forte, ché accanto a lei si era fermato anche Polidori, guardando attentamente il superbo animale, con la curiosità che avrebbe mostrato un contadino sbandato per quelle parti, e le disse piano: – Grazie! –
Ella non rispose, si fece rossa, e strinse con forza i ferri della stia a cui appoggiava la fronte. Cotesta sensazione le faceva bene sulla epidermide della mano senza guanto. Chi avrebbe potuto immaginare che quella semplice parola, scambiata di furto, in fondo a quel deserto, dovesse vibrare tanto deliziosamente! No! davvero! C’era da perderci la testa! Ella si sentiva avvampare fin sulla nuca, che ei, ritto dietro le sue spalle, poteva vedere arrossire; un’onda di parole sconnesse e tumultuose le montavano alla testa, la ubbriacavano; parlava del ballo dove si era divertita assai; di suo marito il quale era partito all’alba, quand’ella non aveva ancora chiuso gli occhi.
– Però non sono stanca! quest’aria fresca fa bene, tanto bene! ci si sente rinascere, non é vero?
– Sì! è vero! – rispose Polidori guardandola fisso negli occhi; ma ella non osava levarli di terra.
– Quando sarò in Brianza voglio levarmi col sole tutti i giorni. In città facciamo una vita impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirla -.
Parlava in fretta, e con voce un po’ troppo alta e squillante, sorridendo spesso, a caso; gli era grata inconsciamente che ei non osasse interromperla, non osasse mischiare la sua voce a quella di lei. Finalmente Polidori le disse: – Ma perché non avete voluto ricevermi a casa vostra? –
Ella gli piantò gli occhi in viso per la prima volta dacché erano lì, sorpresa, dolorosamente sorpresa. – Finora in tutto quello che avevano fatto, in tutto quello che avevano detto, il male non c’era stato che vagamente, in nube, nella loro intenzione, con squisita delicatezza che i suoi sensi finissimi assaporavano deliziosamente, come il leopardo sdraiato ai loro piedi si godeva il raggio caldo del sole, ammiccando la larga pupilla dorata, con quel medesimo inconscio e voluttuoso stiramento di membra. Richiamata così bruscamente alla realtà, stringeva le mani e le labbra con un’espressione dolorosa; gli occhi le si velarono quasi, seguendo nello spazio l’incantesimo che si era rotto, e gli fissò in volto quegli occhi stral’unati. Tutta l’esperienza che possedeva Polidori non seppe fargli leggere quello che vi si scorgeva. – Ah! – disse poi con voce mutata, – sarebbe stato più prudente!…
– Siete crudele! – mormorò Polidori.
– No! – rispose ella sollevando il capo, un po’ rossa, ma con accento fermo. – Non sono come tutte le altre signore, non sono prudente!… quando mi romperò il collo, vorrò godermi l’orrore del precipizio sotto di me! Tanto peggio per voi se non capite -.
Allora ei le afferrò la mano per forza, divorando tutta la sua bellezza palpitante con uno sguardo assetato, e balbettò:
– Volete?… volete?…
Ella non rispose, e fece uno sforzo per ritirare la mano.
Polidori implorava la sua grazia con parole concitate, deliranti. Le ripeteva una domanda, una preghiera, sempre la stessa, con diverse inflessioni di voce che andavano a ricercare la donna nelle più intime fibre di tutto il suo essere; ella ne sentiva la vampa, le sembrava di esserne avviluppata e divorata, soverchiata da un languore mortale e delizioso; e cercava di svincolarsi, pallida, smarrita, colle labbra convulse, spiando il viale di qua e di là con occhi pazzi di terrore, contorcendosi sotto quella stretta possente, facendo forza con tutte e due le mani febbrili per strapparsi da quell’altra mano che sentiva ardere sotto il guanto.
Infine, vinta, fuori di sé, balbettò:
– Sì! sì! sì! – e fuggì dinanzi a qualcuno di cui si udiva avvicinarsi il calpestìo.
Uscendo dal giardino era così sconvolta che stette per buttarsi sotto i cavalli di una carrozza. Aveva avuto un appuntamento! Quello era stato un appuntamento! E ripeteva macchinalmente, balbettando: – E’ questo! è questo! – Si sentiva tutta piena ed ebbra di cotesta parola, e le sue labbra smorte agitavansi senza mandare alcun suono, vagamente assaporando la colpa.
Andò barcollante sino alla prima carrozza che incontrò; e si fece condurre dalla sua Erminia, quasi in cerca di aiuto. La sua amica, vedendosela comparire dinanzi con quel viso, le corse incontro fin sull’uscio del salotto. – Che hai?
– Nulla! nulla!
– Come sei bella! Cos’hai?
Ella, invece di rispondere, le saltò al collo e le fece due baci pazzi.
La signora Erminia era abituata alle sfuriate d’amicizia della sua Maria. Si misero a guardare insieme le fotografie che avevano viste cento volte, e i fiori che erano da un mese sul terrazzino.
In quel momento, per combinazione, passava Polidori nel phaeton del suo amico Guidetti, col sigaro in bocca, e salutò la signora Erminia allo stesso modo come avrebbe potuto salutare Maria, se l’avesse scorta rincantucciata fra gli arbusti, premendosi le mani sul petto che voleva scoppiarle. Era una cosa da nulla; ma uno di quei nonnulla che penetrano in tutto l’essere di una donna come la punta di un ago. Allora, tornando a casa, la signora Rinaldi scrisse a Polidori una lunga lettera, calma e dignitosa, onde pregarlo di rinunciare a quell’appuntamento, di cui le aveva strappata la promessa in un momento di aberrazione, un momento che rammentava ancora con confusione e rossore, per sua punizione. C’era tanta sincerità nella contraddizione dei suoi sentimenti, che quell’istante d’abbandono, dopo un’ora sembrava infinitamente lontano, e se qualche cosa di vivo vibrava tuttora fra le linee della lettera, era solo il rimpianto di sogni che si dileguavano così bruscamente. Ella faceva appello all’onore e alla delicatezza di lui per farle dimenticare il suo errore, e lasciarle la stima di se stessa.
Polidori si aspettava quasi quella lettera: la signora Rinaldi era troppo inesperta per non pentirsi dieci volte, prima di aver motivo di pentirsi davvero; ei fece una cosa che gli provò come quella donnina inesperta avesse ridestato in lui un sentimento schietto e forte con tutta la freschezza delle prime impressioni: le rimandò la lettera accompagnata da questa breve risposta:
«Vi amo con tutto il rispetto e la tenerezza che deve inspirare la vostra innocenza. Vi rimando la lettera che mi avete diretta, perché non sarei degno di conservarla, e non oserei distruggerla. Ma l’imprudenza che avete commesso scrivendo una tal lettera è la prova migliore della stima in cui deve avervi ogni uomo di cuore».
– Mio marito! – esclamava Maria con una strana intonazione di voce. – Ma mio marito è felicissimo! La rendita sale e scende per fargli piacere, i bachi sono andati bene, le commissioni piovono da ogni parte. C’è un cinquanta per cento di utili netti! –
Erminia la stava a guardare a bocca aperta.
– Senti, bambina, tu hai la febbre. Mesciamoci del the -.
Due giorni dopo, per guarire della febbre, che le aveva trovato la sua Erminia, le disse:
– Andrò in Brianza con Rinaldi. L’aria, l’ossigeno, la quiete, il canto degli usignoli, la famiglia… Che peccato non ci abbia dei bambini da cullare! –
Là, sotto gli alberi folti, di faccia ai larghi orizzonti, sentiva una strana irritazione contro quella pace che la invadeva lentamente, suo malgrado, dal di fuori. Andava spesso sulle balze pittoresche verso il tramonto, a sciuparsi gli stivalini, e a montarsi la testa di proposito con dei sentimenti presi a prestito nei romanzi. Polidori aveva avuto il buon gusto di eclissarsi con garbo, restando a Milano, senza far nulla di teatrale e di convenzionale, come uno che sa mettere della cortesia anche a farsi dimenticare. – Né ella avrebbe saputo dire se pensasse ancora a lui; ma provava delle aspirazioni indefinite, che nella solitudine le tenevano compagnia, l’avviluppavano mollemente e tenacemente in quell’inerzia pericolosa, e parlavano per lei nel silenzio solenne che la circondava, e l’uggiva. Ella sfogavasi a scrivere delle lunghe lettere alla sua amica, vantandole le delizie ignorate della campagna, la squilla dell’avemaria fra le valli, il sorger del sole sui monti; facendole il conto delle ova che raccoglieva la castalda, e del vino che si sarebbe imbottigliato quell’anno.
– Parlami un po’ più dei tuoi libri e delle tue corse a cavallo, – rispondeva la Erminia. – Di’ a tuo marito che non ti lasci andare al pollaio, o che ci venga anche lui -.
E un bel giorno, dopo un certo silenzio, si mise in viaggio, un po’ inquieta, e andò a trovare la sua Maria.
– T’ho fatto paura? – le disse costei. – M’hai creduto un’anima desolata in via di annientarsi?
– No. T’ho creduto una che si annoia. Qui e una vera Tebaide: non c’è che da darsi a Dio o al diavolo. Vieni con me, a Villa d’Este. Voi mi permettete che ve la rubi, non è vero, Rinaldi?
– Ma io desidero che ella si diverta e sia allegra -.
A Villa d’Este c’era davvero da stare allegri: musica, balli, regate, corse sui vaporini, escursioni nei dintorni, un mondo di gente, bellissime toelette, e Polidori, il quale era l’anima di tutti i divertimenti.
La signora Rinaldi non sapeva che ci fosse anche lui; e Polidori, se avesse potuto prevedere la sua venuta, le avrebbe reso il servigio di non farsi trovare a Villa d’Este. Ma oramai aveva accettato certo incarico nell’organizzare le regate, e non poteva muoversi senza dar nell’occhio prima che le regate avessero avuto luogo. Egli fece capire tutto ciò alla signora Rinaldi, brevemente e delicatamente, la prima volta che si incontrarono nel salone, facendole in certo modo delle scuse velate, e scivolando sul passato con disinvoltura. Maria, superato quel primo istante di turbamento, si era sentita rinfrancare non solo, ma, per una strana reazione, il contegno riservato di lui le metteva in corpo degli accessi matti d’ironia. Egli diceva che sarebbe partito subito dopo le regate, perché aveva promesso di trovarsi con alcuni amici in Piemonte, per una gran caccia, e veramente gli rincresceva lasciare tante belle signore a Villa d’Este.
– Davvero? – domandò la signora Rinaldi con un certo risolino. – Chi le piace dippiù?
– Ma… tutte, – rispose tranquillamente Polidori, – la sua amica Erminia per esempio -.
Proprio! Ella non ci aveva mai pensato: la sua amica Erminia doveva far girare la testa ai signori uomini a preferenza di ogni altra, col suo visino piccante, e il suo spirito di diavolessa; così noncurante degli omaggi a cui era avvezza naturalmente – e marchesa per sopramercato – di quelle marchese che portano la loro corona sì fieramente, che ogni mortale sarebbe lietissimo di farsi accoppare per coglierle un fiore.
Colla sua Erminia erano sempre insieme, sul lago, sul monte, nel salone, sotto gli alberi. Adesso ella la osservava come se la vedesse per la prima volta; la studiava, la imitava e qualche volta anche le invidiava dei nonnulla. Senza volerlo, aveva scoperto che la sua Erminia, con tutte le sue arie da regina, era un tantino civetta, di quella civetteria che non impegna a nulla, ma contro la quale nondimeno tutti gli uomini vanno a rompersi il naso. Era un affar serio! Non si poteva fare un passo senza trovarsi fra i piedi Polidori, il bel Polidori, corteggiato come un re da tutte quelle signore, il quale senza aver l’aria di avvedersene comprometteva orribilmente l’Erminia – il peggio era che non se ne avvedeva neppur lei, e che tutti non accettavano ad occhi chiusi le risate che ella ne faceva. La signora Rinaldi pensava che se non fosse stato un tasto tanto delicato, ella l’avrebbe fatto suonare all’orecchio della sua amica, e le avrebbe fatto osservare che suono falso rendeva.
Perciò si sforzava di non farle scorgere nemmeno la pena che tutto quell’armeggìo le arrecava, pel bene che voleva ad Erminia, ben inteso – di Polidori poco le importava – era un uomo e faceva il suo mestiere, oramai!… eppoi era di quelli che sanno consolarsi. Ma Erminia aveva tutto da perdere a quel giuoco, con un marito come il suo, che le voleva bene, ed era proprio un marito ideale. Che talismano possedeva dunque quel Polidori per eclissare un uomo come il marchese Gandolfi nel cuore di una donna bella, intelligente e corteggiata come l’Erminia? Certe cose non si sanno spiegare.
Per nulla al mondo avrebbe voluto che anima viva si fosse accorta di quel che succedeva, e avrebbe voluto chiudere gli occhi a tutti gli altri come li chiudeva lei; ma francamente, c’era da perdere la pazienza.
– Mia cara, io non mi raccapezzo più, – le diceva Erminia ridendo, tranquilla, come se non si trattasse di lei. – Cos’hai? Alle volte mi sembra che io debba averti fatto qualcosa di grosso a mia insaputa! –
Oibò! quella povera Erminia come s’ingannava!… non le aveva fatto altro che la pena di vederla impaniarsi spensieratamente in quei pasticcio; anzi di lasciarvisi impaniare, perché quel Polidori sembrava impastarlo e rimpastarlo a suo grado con un’abilità diabolica. Doveva averne fatte molte di grosse quell’uomo, per aver acquistato quella maestria; era proprio un pessimo soggetto!
– Cara Maria! – le disse Erminia un bel giorno, e con un bel bacione. – Mi sembra che quel Polidori ti trotti un po’ più del dovere per la testa. Guardati! è un individuo pericoloso, per una bambina come te!
– Io? – rispose ella stupefatta. – Io?… – e non sapeva trovare altre parole sotto quegli occhioni acuti di Erminia.
– Tanto meglio! tanto meglio! M’hai fatto una gran paura! tanto meglio!
– Per una bambina, – pensava Maria, – non mi usa molti riguardi, la mia Erminia! Certe cose cavano gli occhi! –
La signora Rinaldi era spietata per i corteggiatori eleganti, per gli innamorati ad ora fissa, nella passeggiata del parco o nelle serate di musica, pei conquistatori in guanti di Svezia. Una volta che Polidori si permise di fare qualche osservazione rispettosa in propria difesa, ella gli lanciò in faccia uno scoppio di risa squillanti.
– Oh! oh! –
Egli parve impallidire, colui, alfine! Siccome le altre signore gli ronzavano sempre attorno come api a Polidori – la colpa era di quelle signore che lo guastavano – ella soggiunse:
– Non vi fate scorgere, ne sarei desolata.
– Per chi?
– Per voi, per me… e per gli altri – per tutto il mondo -.
Questa volta ei non si lasciò sconcertare dal sarcasmo, e rispose con calma:
– Non mi preme che di voi -.
Ella avrebbe voluto colpirlo in viso con un altro getto di quella ilarità spietata e mordente, ma il riso le morì sulle labbra, dinanzi all’espressione che quelle due parole davano a tutta la fisonomia di lui.
– Potete insultarmi, – rispose egli, – ma non avete il diritto di dubitare del sentimento che avete messo nel mio cuore -.
Maria chinò il capo, vinta.
– Non ho rispettato ciecamente la vostra volontà, quale sia stata? Vi ho chiesto una spiegazione? Non ho prevenuto il vostro desiderio? e non son riescito a far le viste di aver dimenticato quello che nessun uomo al mondo potrebbe dimenticare… da voi?… E se ho sofferto, per questo, c’è alcuno al mondo che mi abbia visto soffrire? –
Egli parlava con voce calma, con l’atteggiamento tranquillo che davano a quelle parole pacate un’eloquenza irresistibile.
– Voi!… – balbettò Maria.
– Io! – ribatte Polidori, – che vi amo ancora, e che non ve lo avrei detto giammai -.
Ella che si era fermata per strappare le foglie degli arbusti, fece due o tre passi per allontanarsi da lui, povera bambina! Polidori non ne fece uno solo per seguirla.
La signora Rinaldi era divenuta a un tratto malinconica e fantastica. Stava delle lunghe ore col libro aperto alla medesima pagina, colle dita vaganti sulla tastiera del pianoforte, col ricamo abbandonato sui ginocchi, a contemplare l’acqua, i monti e le stelle. Lo specchio del lago riverberava tutte le sfumature dei suoi pensieri più indefiniti, e provava una squisita voluttà a sentirseli ripercuotere dentro di sé, intenta, assorta. Perciò sfuggiva alle allegre brigate e preferiva errare in barchetta sul lago, sola, quando i monti vi stendevano larghe ombre verdi, o quando i remi luccicavano fra le tenebre, come spade d’acciaio, o quando il tramonto vi spirava tristamente con vaghe strisce amaranti; frapponeva la tenda fra sé e i barcaiuoli, e coricata sui cuscini godeva a sentirsi cullata sull’abisso, ad immergervisi quasi, tuffando la mano nell’acqua, sentendosene guadagnare tutta la persona con un brivido misterioso; le piaceva sprofondare il suo sguardo nel buio interminato, al di là delle stelle, e a fantasticare su quel che doveva rischiarare qualche lumicino lontano che tremolava fra il buio, nella china dei monti. Cercava i viali erbosi, i misteriosi silenzi del boschetto, o lo spettacolo del lago in quelle ore in cui il sole vi splendeva come su di uno specchio, o tutte le finestre dell’albergo stavano ancora chiuse, e la rugiada luccicava sull’erba del prato, e le ombre erano folte sotto gli alberi giganteschi, e lo scricchiolare della sabbia sotto i suoi passi le sussurrava all’orecchio misteriose fantasticherie; spesso andava a leggere o a passeggiare sulla sponda del laghetto, nei viali remoti dei Campi Elisi, quando la luna si posava dolcemente sul lago e le accarezzava le mani bianche, o quando le finestre del salone stampavano nel buio del viale larghi quadrati di luce fredda, e la musica del salone faceva vagare arcane fantasie sotto le grandi ombre silenziose ed addormentate. Al di là di quelle ombre misteriose, dietro quei vetri scintillanti, il movimento della festa ammorzato, velato, acquistava una fusione di colori, di linee e di suoni, che lo rendeva affascinante, qualcosa fra il baccanale e la danza degli spiriti alati; allora respirando la vertigine, rimaneva lì, colla fronte sui vetri, con un formicolìo leggero alla radice dei capelli.
Una sera, tutt’a un tratto, la si vide comparire in mezzo al ballo come una visione affascinante, più pallida e più bella che mai, e con qualcosa che nessuno le aveva mai visto sulla bocca e negli occhi. La folla si apriva commossa dinanzi a lei; Erminia andò ad abbracciarla; uno sciame di eleganti giovinotti le fece ressa attorno per strapparle la promessa di un giro di valzer o di una contradanza; ella si fermò un istante con quel medesimo sorriso sulle labbra, e quegli occhi splendenti come le lucciole del viale, cercando intorno, e come scorse Polidori gli buttò il fazzoletto.
– Dio salvi la regina! – esclamò Polidori piegando un ginocchio.
– Ti rubo il tuo ballerino, sai, – disse Maria tutta festante alla sua Erminia. – Ho una voglia matta di fare un bel giro di valzer anche io -.
Polidori era uno di quei ballerini che le signore si disputano coi sorrisi e a colpi di ventaglio sulle dita – quando il sorriso ha fatto troppo effetto. Possedeva la forza e la grazia, lo slancio e la mollezza; nessuno sapeva rapirvi come lui verso le sfere spumanti d’ebbrezza color di rosa con un colpo di garetto, adagiandovi sul braccio destro come su di un cuscino di velluto. Dicevano che egli solo possedesse quell’intelligenza squisita dello Strauss, che vi fa perdere il fiato e la testa, e sapeva mettere nel braccio, nei muscoli, in tutta la persona, la foga, l’abbandono, l’estasi. – Non voglio che balliate più! – Non voglio che balliate con altre – gli disse Maria fermandosi anelante, colle guance rosse, cogli occhi un po’ velati – e fu tutto per quella sera.
Ah! come era trionfante, e come il cuore le ballava dentro il petto, mentre quel cavaliere invidiato l’accompagnava fra la folla ammiratrice! e mentre si ravvolgeva stretta nella sciarpetta nera in mezzo al viale, dove i rumori della festa si dileguavano, e le fantasticherie sorgevano, vaghe, senza forma, ma assetate ancora! Pareva di essere in preda a un sogno delizioso, quando al valzer successe un notturno di Mendelson, un notturno che le passava anch’esso fra i capelli e sulla fronte, e fra le spalle, come una mano di velluto fresca e odorosa. A un tratto una figura nera si frappose dinanzi alla luce delle finestre che cadeva sul viale; il suo sogno le sorgeva improvviso dinanzi come un’ombra. Ella si alzò di soprassalto, sbigottita, in tumulto, balbettando qualche parola sconnessa che voleva dir no! no! no! e andò a ricovrarsi nel salone, rifugiandosi in mezzo al rumore e alla luce – la luce che le faceva socchiudere gli occhi abbarbagliati, e il rumore che la stordiva gradevolmente, la lasciava intontita e sorridente, un po’ rigida e pensosa. Erminia l’accarezzava quasi fosse un ninnolo leggiadro; quelle signore dicevano ad una voce che era proprio carina, così accerchiata dai più eleganti cacciatori di avventure, colle spalle al muro, come una cerbiatta addossata alla roccia: si sarebbe detto che le tremolasse negli occhi la lagrima della sconfitta.
Polidori fu degli ultimi ad assalirla, da cacciatore che la sorte aveva destinato pel colpo di grazia; e sembrava mosso a pietà della vittima, giacché parlandole con un viso serissimo della pioggia e del bel tempo, si limitava a farle il suo briciolo di corte, domandandole con grande interesse di cose indifferentissime: se avesse fatto la sua gita in barca, se il giorno dopo sarebbe andata alla sua solita passeggiata mattutina verso i Campi Elisi. – Ella lo guardò negli occhi senza mai rispondere. Ei non insistette altro.
Erminia si era messa al piano, e tutti stavano intenti ad ascoltarla; Maria non aveva occhi che per lei, anche quando li fissava vagamente nelle fantasie dell’ignoto, perché era lei che le evocava quelle fantasie e l’affascinava con esse: la sala intera splendida e calda fremeva di armonia. Erano di quei fatali momenti in cui il cuore si dilata con violenza dentro il petto e soverchia la ragione.
Maria rabbrividiva dalla testa ai piedi, accasciata nella poltrona, colla fronte nella mano, e Polidori le sussurrava sul capo parole ardenti che le facevano fremere come cosa animata i ricci dei capelli sulla nuca bianca. La poveretta non vedeva più nulla, né la sala splendente, né la folla commossa, né gli occhi lucenti e penetranti di Erminia, e si abbandonò a quel che credeva il suo destino, senza forza, coll’occhio vitreo, come una morente.
– Sì! sì! – mormorò con un soffio.
Polidori si allontanò pian piano, per lasciarla rimettere, e andò a fumare la sua sigaretta nella sala del bigliardo.
La brezza del lago fece vacillare tutta notte le fiammelle dei candelabri posti sul caminetto di lei, che si guardava nello specchio per delle ore intere, senza vedersi, con occhi fissi, arsi dalla febbre.
Il signor Polidori passeggiava da un pezzo pel viale deserto in un’ora mattutina che gli ricordava un convegno di caccia; non si accorgeva del paesaggio incantevole per altra cosa che per sprofondarvi delle lunghe occhiate impazienti. Di tratto in tratto si fermava in ascolto, e rizzava il capo proprio come un levriere. Finalmente si udì un passo leggiero e timido di selvaggina elegante. Maria giungeva, e appena scorse Polidori, sebbene sapesse di trovarlo là, si arrestò all’improvviso, sgomenta, immobile come una statua. Il suo fine profilo arabo sembrava tagliare il velo fitto. Polidori, a capo scoperto, si inchinò profondamente, senza osare di toccarle la mano, né di rivolgerle una sola parola.
Ella, anelante, turbata, sentiva per istinto quanto fosse imbarazzante il silenzio: – Sono stanca! – mormorò con voce rotta. – L’emozione la soffocava.
Così dicendo seguitò ad inoltrarsi pel viale che saliva serpeggiando per la china del monte, ed ei le andava accanto, senza parlare, soggiogati entrambi da una forte commozione. Così giunsero ad una specie di monumento funerario. Maria si fermò ad un tratto appoggiando le spalle alla roccia e col viso fra le mani. Infine scoppiò in lagrime. Allora ei le prese le mani, e vi appoggiò lievemente le labbra, come uno schiavo. Allorché sentì finalmente che il tremito di quelle povere manine andava calmandosi, le disse piano, ma con un’intonazione ineffabile di tenerezza:
– Dunque vi faccio paura?
– Voi non mi disprezzate ora? – disse Maria. – Non è vero? –
Egli giunse le mani, in un’espressione ardente di passione ed esclamò:
– Io? Disprezzarvi io? –
Maria sollevò il viso disfatto e lo fissò con occhi sbarrati, e colle lagrime ancora sul viso mormorava confusamente parole insensate: – E’ la prima volta!… ve lo giuro! – Ve lo giuro, signore!…
– Oh! – esclamò Polidori con impeto. – Perché mi dite questo? a me che vi amo? che vi amo tanto! –
Quelle parole vibravano come cosa viva dentro di lei; un istante ella se le premé forte colle mani dentro il petto, chiudendo gli occhi; ma immediatamente le avvamparono in viso, come avessero compito in un lampo tutta la circolazione del suo sangue, e le avessero arso tutte le vene. – No! no! – ripeteva; – ho fatto male, ho fatto assai male! sono stata una stordita. Credetemi, signore! Non sono colpevole; sono stata una stordita; sono davvero una bimba, lo dicono tutti, lo dicono anche le mie amiche -. La poverina cercava di sorridere, guardando di qua e di là stral’unata. – Ho bisogno che non mi disprezziate!
– Maria! – esclamò Polidori.
Ella trasalì, e si tirò indietro bruscamente, spaventata dall’udire il suo nome. Polidori chino dinanzi a lei, umile, tenero, innamorato, le diceva:
– Come siete bella! e come è bella la vita che ha di questi momenti! –
Maria si passava le mani sugli occhi e pei capelli, confusa, smarrita, e s’accasciava su di sé stessa, e ripeteva quasi macchinalmente: – Se sapete che affare grosso è stato l’attraversare il viale, quel viale che ho fatto tutti i giorni. Non avrei mai creduto che potesse essere così! Davvero! non credevo! – E sorrideva per farsi coraggio, senza osare di guardar lui, abbandonata contro il sasso che le faceva da spalliera, tirandosi i guanti sulle braccia, ancora leggermente convulse, e seguitava a chiacchierare a modo del fanciullo che canta di notte per le strade onde farsi coraggio. – Sono stata disgraziata! sì, confesso che sono un cervellino strano! Ho delle pazze tendenze per quel mondo che forse non è altro se non un sogno, un sogno di gente inferma, sia pure! alle volte mi pare di soffocare fra tanta ragione in cui viviamo; sento il bisogno d’aria, di andarla a respirare in alto, dove è più pura ed azzurra. Non è mia colpa se non mi persuado di esser matta, se non mi rassegno alla vita com’è, se non capisco gli interessi che preoccupano gli altri. No! non ci ho colpa. Ho fatto il possibile. Sono in ritardo di parecchi secoli. Avrei dovuto venire al mondo al tempo dei cavalieri erranti -. Il suo leggiadro sorriso aveva una melanconica dolcezza e s’abbandonava senz’accorgersene all’incanto che contribuiva a crearsi ella stessa.
– Beato voi che potete vivere a modo vostro!
– Io vorrei vivere ai vostri piedi.
– Tutta la vita? – domandò ella ridendo.
– Tutta la vita.
– Badate che vi stanchereste, – gli rispose gaiamente. – Voi dovrete stancarvi spesso! – ripeté Maria con uno sguardo che cercava di rendere ardito e sicuro.
Polidori la trovava deliziosa nel suo imbarazzo – soltanto quell’imbarazzo si prolungava troppo.
Prima di venire a quell’appuntamento, nell’istante supremo di passar l’uscio, Maria aveva provato tutte le pungenti emozioni che danno la curiosità dell’ignoto, l’attrattiva del male, il fascino dello sgomento che le serpeggiava nelle vene con brividi arcani e irresistibili; con una confusione tale di sentimenti e di idee, di impulsi e di terrore, che l’avevano spinta a precipitarsi nell’ignoto suo malgrado, in una specie di sonnambulismo, senza sapere precisamente cosa andasse a fare. Se Polidori le avesse steso le braccia al primo vederla, probabilmente ella si sarebbe spaccata la testa contro la rupe alla quale adesso appoggiavasi mollemente, con abbandono. Ora, incoraggiata dal vedersi ai piedi quell’uomo contrastato e invidiato, sentiva una deliziosa sensazione al contatto di quel muschio vellutato che le accarezzava le spalle; come le parole che egli le diceva tenere e ferventi le accarezzavano dolcemente l’orecchio e se ne sentiva invadere mollemente, come da un delizioso languore. Egli era così gentile, così rispettoso e così buono! non osava toccarle la punta delle dita, e si contentava di sfiorarla dolcemente col soffio ardente di quella passione che lo teneva prostrato dinanzi a lei quasi dinanzi a un idolo. Tutto ciò era senza ombra di male, e carino, carino. A poco a poco Polidori le aveva preso la mano, ed ella senza accorgersene gliela aveva abbandonata. Anche lui era sinceramente e fortemente commosso in quel momento, e cercava gli occhi di lei con occhi assetati ed ebbri. Ella senza vederli ne sentiva la fiamma, non osava levare i suoi, e il riso le moriva sulle labbra; non aveva la forza di ritirare le mani ad ogni nuovo tentativo che faceva, quasi il suono di quelle parole le addormentasse vagamente in un sonno dolcissimo l’anima e la coscienza, la facesse entrare in un’estasi angosciosa; Polidori non poteva saziarsi di ammirarla in quell’atteggiamento, abbandonata su di se stessa, colle braccia inerti, la fronte china e il petto anelante, e infine esclamò con uno slancio di passione, stendendo le braccia convulse:
– Come siete bella, Maria, e come vi amo! –
Ella si rizzò di botto, seria e rigida, quasi sentisse dirselo per la prima volta.
– Voi lo sapete che vi amo tanto! da tanto tempo! – ripeteva lui.
Ella non rispondeva; curvando all’indietro tutta la persona, e a testa bassa, in atteggiamento sospettoso, colle sopracciglia aggrottate, agitando macchinalmente le mani, come se cercasse farsene schermo contro qualche cosa, colle labbra pallide e serrate. Ad un tratto, levando gli occhi sul viso sconvolto di lui, incontrando quegli occhi, mise un strido soffocato, e si arretrò sino all’ingresso di quella specie di monumento sepolcrale, bianca di terrore, difendendosi colle braccia stese da quella passione che l’atterriva ora che vedeva cosa fosse, guardandola in faccia per la prima volta, balbettando:
– Signore!… signore!… –
Egli ripeteva fuori di sé, supplichevole, in un’implorazione affascinante di delirio e d’amore:
– Maria! Maria!…
– No! – ripeteva costei smarrita, – no!…
Polidori si arrestò di botto, e si passò due o tre volte la mano sulla fronte e sugli occhi con un gesto disperato. Indi le disse con voce rauca:
– Voi non mi avete mai amato, Maria!
– No! no! lasciatemi andare! – ripeteva ella, quando Polidori s’era già allontanato. – Signore!… signore!…
Polidori subiva suo malgrado la forte commozione di quell’istante, ed era tutto tremante anch’esso come quella povera ingenua.
– Sentite, abbiamo fatto male! – ripeteva ella con voce convulsa. – Abbiamo fatto male… – e si sentiva venir meno.
In quel punto, all’improvviso, si udì rumore fra le piante e lo scalpiccìo di chi sopraveniva si arrestò poco lontano, come esitante.
– Maria! – esclamò una voce talmente alterata che nessuno di loro due la riconobbe: – Maria! –
Polidori, ridivenuto l’uomo di prima da un momento all’altro, prese vivamente Maria per un braccio e la spinse pel viale da dove era venuta la voce, e in un lampo scomparve fra gli andirivieni del sepolcreto. Maria arrivando nel viale, si trovò faccia a faccia con Erminia, pallida anch’essa, che cercava a fatica di dissimulare il suo turbamento, e voleva spiegarle qualche cosa, dandosi un’aria indifferente. Maria le piantò in viso certi occhi che avevano una strana espressione.
– Che vuoi? – le chiese soltanto, con voce sorda dopo alcuni istanti di un silenzio che sembrò eterno.
– Oh! Maria!… – rispose Erminia, buttandole le braccia al collo.
E fu tutto. Ritornarono indietro l’una al fianco dell’altra, senza aprire bocca e a capo chino. Come furono in vista dell’albergo, sentirono tutte e due a un tempo di dover assumere un contegno. – Lucia mi aveva detto ch’eri scesa in giardino, – disse Erminia, – e ciò mi ha fatto venire il desiderio di fare una passeggiata mattutina anch’io, col pretesto di venire in traccia di te.
– Grazie – rispose Maria semplicemente.
– Però comincia ad esser troppo tardi per passeggiare. Il sole è già caldo -.
Maria infatti aveva preso un colpo di sole che l’aveva abbacinata e stordita. Era rimasta come scossa e turbata in tutto il suo essere. Alle volte macchinalmente si stringeva le mani, come per riconoscersi, o per cercarvi qualche cosa, un’impronta del passato, e chiudeva gli occhi. Quando incontrava degli sguardi curiosi, e tutti le sembravano curiosi, oppure quelli della sua amica, avvampava in viso. Stava rincantucciata nel suo appartamento il più che poteva, e quindi molti credevano che fosse partita. La sola vista di Erminia le faceva corrugare la fronte, e dava un non so che di fosco a tutta la sua fisionomia. Però era abbastanza donna di mondo per sapere dissimulare sino a un certo punto i suoi sentimenti, quali essi fossero. Erminia, che non ne era illusa, provava un vero rammarico.
– Io son sempre la tua Erminia, sai! – le diceva ogni volta che poteva, scuotendole amorevolmente le mani. – Io son sempre la tua Erminia, quella di prima! quella di sempre! –
Maria sorrideva a fior di labbra, gentile e distratta.
– Hai torto, vedi! – ripeteva Erminia. – Ti inganni!… t’inganni, se credi che io non ti voglia più il bene di prima! –
Ella aveva infatti delle sollecitudini materne per la sua Maria, delle sollecitudini che sovente indispettivano costei, come se prendessero l’aspetto di una sorveglianza amorevole e discreta. Un giorno Erminia la sorprese mentre stava incominciando una lettera; e le domandò semplicemente se suo marito le avesse scritto; la domanda veniva così male a proposito, che Maria fu quasi per arrossire, come se fosse stata nel punto di dover rispondere una bugia.
– No! mio marito non mi guasta tanto. E’ troppo occupato.
– Sì, è troppo occupato! – affermò Erminia senza rilevare l’ironia della risposta, – è seriamente occupato. Affoga negli affari, poveretto!
– Che dici mai? se sono la sua passione, l’unica sua passione!
– Lo credi? – domandò Erminia, fissandole in faccia quei suoi occhioni acuti.
– Ma sì! – rispose Maria con un risolino che le contraeva gli angoli della bocca, e aggiunse ancora, come correttivo: – Non ho alcun motivo di esser gelosa però. Mio marito non giuoca, non va al caffè, non è cacciatore, non ama i cavalli, non legge che il listino della Borsa – nulla, ti dico!
– E’ vero; non ama che te! –
Maria inchinò il capo con un sorrisetto contraffatto; ma non aggiunse verbo per un pezzo, e poi, amaramente:
– Avete ragione, sono anche un’ingrata!
– No, non sei ingrata; sei una donnina viziata, una testolina guasta, che vede falso in molte cose e che non ci vede in certe altre. Il solo torto di tuo marito è di non averti aperto gli occhi sul gran bene che ti vuole.
– Fortunatamente che ha incaricato te di dirmelo.
– Sì, io che ti voglio bene, anch’io! bene davvero!… Vuoi che partiamo domattina?
– Oooh!
– Ti rincresce?
– No, mi sorprende soltanto la risoluzione improvvisa, così come si fa nelle commedie, per le ragazze che hanno abbozzato un romanzetto…
– Scusami; ti ho proposto di venire con me… Ma se vuoi restare…
– No, voglio venire anch’io. Solamente bisogna trovare un pretesto plausibile, per non far pensare al romanzo a tutti i curiosi che ci vedranno ordinare così in furia le nostre valige.
– Il motivo è bello e trovato, tanto più che è il motivo vero. Io vado ad incontrare mia suocera che arriva domani da Firenze, e tu naturalmente vieni con me, per non rimaner sola a Villa d’Este.
– Benissimo! E dacché dobbiamo partire, più presto sarà meglio sarà. Desidero andare col primo treno -.
Partirono infatti di buon mattino. A lei scoppiava il cuore passando dinanzi a quelle finestre chiuse, sulle quali l’ombra dei grandi alberi dormiva tuttora, uscendo da quel viale deserto, ove si era aggirata fantasticando tante volte.
Il lago, nella pace di quell’ora, aveva un incantesimo singolare, e ogni menomo particolare del paesaggio si animava, sembrava che fosse vissuto con lei, le si stampava nell’intimo del cuore profondamente. Appena fu nel vagone aprì il libro che aveva portato apposta, e vi nascose il viso e gli occhi pieni di lagrime. Erminia seppe non avvedersi di nulla, ed ebbe l’accortezza di lasciarle assaporare voluttuosamente il dolore del distacco.
Alla stazione trovarono la carrozza di Erminia, la quale volle accompagnare l’amica sino a casa.
– Rinaldi non è a Milano – le disse rispondendo al movimento di sorpresa che aveva fatto Maria non trovando nessuno ad aspettarla. – E’ andato a Roma.
– Senza scrivermelo! senza lasciarmi una parola! – mormorò Maria.
– Sì, ha scritto. La lettera deve averla mio marito -.
Ma subito s’interruppe, perché cominciava a spaventarsi dell’agitazione che si andava manifestando sul viso di Maria. – Infine, – le disse, – tosto o tardi devi saperlo. Rinaldi è corso a Roma per regolare degli affari… Sai.. quando si è lontani non vanno sempre come dovrebbero andare. Tuo marito era inquieto. Colla sua gita accomoderà tutto.
– Cos’è stato? – balbettava Maria, turbata maggiormente da quell’annunzio perché la sorprendeva in quel momento. – Cos’è avvenuto?
– Non ti spaventare; tuo marito sta bene. E’ accaduto che uno dei suoi debitori è fallito. Questione di denaro.
– Ah! – disse Maria respirando; e un’ombra d’ironia le tornò sul viso.
Suo marito sembrava che facesse apposta onde giustificare il sorrisetto amaro di lei. Era così preoccupato del suo affare che non aveva più testa per nessun’altra cosa al mondo. Passarono parecchi giorni senza che ei si facesse vivo altrimenti. Alla fine arrivò un telegramma che mise in grande costernazione il socio di lui, il quale partì subito per Roma.
– Oh! – esclamò allora Maria con quell’intonazione pungente che le era divenuta abituale da otto giorni. – Ma dev’essere proprio un affar serio! Del resto per mio marito sarà sempre un affar serio. Vuol dire che il mio posto in questa circostanza, sarebbe vicino a lui. Non me lo dice; ma si capisce che non me ne ha scritto nulla per delicatezza. E giacché il socio è andato a raggiungerlo, dovrei partire anch’io -.
Malgrado la leggerezza che ostentava, fu sorpresa, e rimase inquieta osservando che Erminia approvava il suo progetto. Per un istante un’idea nera le si affacciò alla mente e le scolorò il viso; ma subito dopo tornò a ridere nervosamente come prima.
– Se mio marito non mi avesse ben avvezzata a lasciarlo fare un po’ a suo modo, ci sarebbe davvero di che spaventarsi.
– Spaventarsi di che? di fare un viaggio sino a Roma? nella bella stagione, e nel paese più bello?…
– Hai ragione; sarà quasi come andare in villeggiatura. Tanto, Roma o la Brianza è lo stesso. E tu non torni a Villa d’Este?
– No.
– Oh!…
– Accompagno mia suocera a Firenze.
– Che peccato!… parlo di Villa d’Este, perché ci dev’essere una brillante compagnia in questo momento. Sei proprio una brava figliuola, dovrebbe dirti tua suocera -.
La sera stessa partì per Roma; ma era in uno stato febbrile che non sapeva spiegarsi, e la sua inquietudine aumentava avvicinandosi al termine del suo viaggio che le parve eterno. Trovò suo marito tanto mutato in così breve tempo, che al primo vederlo ne fu quasi spaventata. Rinaldi le strinse le mani con effusione; ma sembrò più che sorpreso del suo arrivo improvviso. Egli era così sconvolto che non faceva altro che ripeterle: – Perché sei venuta? Perché venire?… –
– Non avevo mai visto mio marito così! – diceva Maria ad Erminia alcuni mesi dopo, la prima volta che la rivedeva dopo che era tornata a Milano. – Non credevo che la fisonomia di quell’uomo potesse destare tale impressione, né che egli sapesse dire di quelle parole, né che la sua voce avesse di quei suoni che vi sconvolgono l’anima da cima a fondo -. Non l’aveva mai visto così!
Anch’essa era molto mutata, la povera Maria! aveva una ruga impercettibile fra le sopracciglia, che solcava finamente il candore purissimo della sua fronte, e alle volte stendeva come un’ombra su tutta la sua fisonomia.
– Sì: sono stati giorni terribili, mi par di sentirmeli ancora dentro il petto, come un gruppo nero, come una fitta dolorosa che mi è quasi cara, tanto è profonda e radicata. Ormai hanno stampato in me un’orma così indelebile che non potrei scancellarla senza farmi male. Che momento, quando sorpresi mio marito colla pistola in pugno! che momento! E come ebbi la forza di avviticchiarmi a lui per impedirgli di morire – giacché egli voleva morire, me lo ha detto dopo. Non aveva il coraggio di dirmi che non poteva più comperarmi né cavalli, né palco alla Scala, né gioielli, nulla! e piangeva, come piangono certi uomini che non hanno pianto mai, con quelle lagrime che vi scavano un solco dentro all’anima. Quante cose mi son passate in un lampo per la testa in quel momento in cui sentivo contro il mio quel cuore che batteva ancora per me, e per me sola! e contro il quale nascondeva il viso che ardeva!… Tu sei stata assai gentile a venirmi a trovare ora che sono salita a un quarto piano. Tu sei stata molto gentile!
– Ma tu non lo sei gran fatto, cara Maria, facendomi di questi ringraziamenti. Vuol dire che non avevi una bella opinione di me!
– No! ma che vuoi? quando si son viste tutte le cose che ho viste!… e poi la disgrazia ha questo di peggio, che ci rende ingiusti… Figurati che quando era corsa la voce che io fossi vedova!… mi ha fatto un certo senso il vedere che a nessuno fosse venuto in mente che ero rimasta senza appoggio, laggiù a Roma… nessuno di quelli che dicevano di avere per me tanta amicizia! Ma non mi lagno, sai! Avevo torto verso di te poi, ti voglio sempre bene! –
Esitò alquanto e infine le buttò le braccia al collo con impeto.
– Perdonami! perdonami! Sono stata ingiusta contro di te, contro di tutti! Ho avuto ragione tante volte! –
Erminia le ricambiava la stretta, assai commossa anche lei, ma senza risponder verbo.
– Ero folle! – mormorò dopo un’altra esitazione, col viso contro il petto di Erminia. – Ora non ci penso più.
– Ed io non ci ho mai pensato, – disse alfine Erminia ridendo al suo solito, ma con grande sincerità di viso e di accento.
Maria rizzò il capo vivamente e le piantò in faccia due occhioni fiammeggianti: – Mai pensato? mai?
– Mai.
– Ma allora… allora non l’ho amato nemmen io! No! davvero? Mai! –