Vita della mia vita
27 Gennaio 2019matematica
27 Gennaio 2019Alessandro Manzoni
ATTO SECONDO
SCENA I
Parte, del campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA
PERGOLA
Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
son le mie bande. A voi commise il Duca
l’arbitrio della guerra: io v’ho ubbidito,
ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
non diam battaglia.
MALATESTI
Anzian d’anni e di fama,
o Pergola, qui siete; io sento il peso
del vostro voto; ma cangiar non posso
il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola
ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:
e due partiti ci rimangon soli;
o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
che saria danno e scorno.
PERGOLA
A pochi è dato,
a pochi egregi il dubitar di novo,
quando han già detto: ell’è così. S’io parlo
è che tale vi tengo. Italia forse
mai da’ barbari in poi non vide a fronte
due sì possenti eserciti: ma il nostro
l’ultimo sforzo è di Filippo. In ogni
fatto di guerra entra fortuna, e sempre
vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
dargliene più ch’ella non chiede; e questo
esercito con cui tutto possiamo
salvar, ma che perduto in una volta
mai più rifar non si potria, non dèssi
come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
avventurarlo in un sì piccol campo,
e in un campo mal noto, e quel che è peggio
noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto
argin divide le due schiere: a destra
e a sinistra paludi, in esse sparsi
i suoi drappelli; e noi fuori de’ nostri
alloggiamenti non teniamo un palmo
pur di terren. Credete ad un che l’arti
conosce di costui, che ha combattuto
al fianco suo: qui c’è un’insidia. Forse
la miglior via di guerreggiar quest’uomo
saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
tanto che alcun dei duci ai quali è sopra
prendesse a noia il suo superbo impero;
e il fascio ch’egli or nella mano ha stretto
si rallentasse alfin. Pur, se a giornata
venir si deve, non è questo il loco:
usciam di qui, scegliamo un campo noi,
tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
senza svantaggio almanco, si decida.
MALATESTI
Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
fia la battaglia: d’una tale appunto
abbisogna Filippo. A questi estremi
a poco a poco ei venne, e coi consigli
che or proponete: a trarnelo, fia d’uopo
appigliarci agli opposti. Il rischio vero
sta nell’indugio; e nel mutare il campo
rovina certa. Chi sapria dir quanto
di numero e di cor scemato ei fia,
pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
bramar lo puote un capitan; con esso
tutto lice tentar.
SCENA II
SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.
MALATESTI
Ditelo, o Sforza,
e Fortebraccio; voi giungete in tempo:
ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?
SFORZA
Ogni gran cosa.
Quando gli ordini udir, quando lor parve
che una battaglia si prepari, io vidi
un feroce tripudio: alla chiamata
esultando venièno, e col sorriso
si fean cenno a vicenda. E quando io corsi
entro le file, ad ogni schiera un grido
s’alzava; ognuno in me fissando il guardo
parea dicesse: o condottier, v’intendo.
FORTEBRACCIO
E tai son tutti: allor ch’io venni a’ miei,
tutti mi furo intorno. Un mi dicea:
quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
stanchi d’esser beffati; e tutti ad una
la battaglia chiedean, come già certi
dell’ottenerla, e dubbi sol del quando.
Ebben, compagni, io rispondea, se il segno
presto s’udrà, mi date voi parola
di vincere con me? Gli elmi levati
sull’aste, un grido universal d’assenso
fu la risposta, ond’io gioisco ancora.
E a tai soldati ci venia proposto
d’intimar la ritratta? e che alle mani,
che già posate sulle spade aspettano
l’ordin di sguainarle e di ferire,
si comandasse di levar le tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi
con tal ordine ormai?
PERGOLA
Dal parlar vostro
un novo modo di milizia imparo;
che i soldati comandino, e che i duci
ubbidiscano.
FORTEBRACCIO
O Pergola, i soldati
a cui capo son io, fur da quel Braccio
disciplinati, che per tutto ancora
con maraviglia e con terror si noma;
e non son usi a sostener gli scherni
dell’inimico.
PERGOLA
Ed io conduco genti
da me, qual ch’io mi sia, disciplinate;
e sono avvezze ad aspettar la voce
del condottiero, ed a fidarsi in lui.
MALATESTI
Dimentichiamo or noi che numerati
sono i momenti, e non ne resta alcuno
per le gare private?
SCENA III
TORELLO, e detti.
SFORZA
Ebben, Torello,
siete mutato di parer? Vedeste
l’animo ardente de’ soldati?
TORELLO
Il vidi;
udii le grida del furor, le grida
della fiducia e del coraggio; e il viso
rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
vi leggesse il pensier che mal mio grado
vi si pingeva: era il pensier che false
son quelle gioie e brevi; era il pensiero
del valor che si perde. Io cavalcai
lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
quanto l’unge potei; rividi quelle
macchie che sorgon qua e là dal suolo
uliginoso che la via fiancheggia:
là son gli agguati, il giurerei. Rividi
quel doppio cinto di muniti carri,
onde assiepato è del nemico il campo.
Se l’urto primo ei sostener non puote,
ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne
preparato al secondo. Un novo è questo
trovato di costui, per torre ai suoi
il pensier primo che s’affaccia ai vinti,
il pensier della fuga. Ad atterrarlo
due colpi è d’uopo: ei con un sol ne atterra.
Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,
non son più quelle guerre, in cui pe’ figli
e per le donne e per la patria terra
e per le leggi che la fan sì cara,
combatteva il soldato; in cui pensava
il capitano a statuirgli un posto,
egli a morirvi. A mercenarie genti
noi comandiamo, in cui più di leggieri
trovi il furor che la costanza: e’ corrono
volonterosi alla vittoria incontro;
ma s’ella tarda, se son posti a lungo
tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo
la scelta di costoro. E questo evento
più che tutt’altro antiveder ci è forza.
Vil tempo in cui tanto al comando cresce
difficoltà, quanto la gloria scema!
Io lo ripeto, non è questo un campo
di battaglia per noi.
MALATESTI
Dunque?
TORELLO
Si muti.
Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
dove lo siam.
MALATESTI
Così Maclodio a lui
lascerem quasi in dono? I valorosi,
che vi son chiusi, non potran tenersi
più che due giorni.
TORELLO
Il so; ma non si tratta
né d’un presidio qui, né d’una terra;
trattasi dello Stato.
SFORZA
E di che mai
se non di terre si compon lo Stato?
E quelle che indugiando, ad una ad una
già lasciammo sfuggir, quante son elle?
Casal, Bina, Quinzano e… e se vi piace
noveratele voi, ché in tal pensiero
troppo caldo io mi sento. Il nobil manto,
che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano
soffriam così che in nostra man si scemi,
e che a lui messo omai da noi non giunga
che una ritratta non gli annunzi. Intanto
superbisce il nemico, e ai nostri indugi
sfacciato insulta.
TORELLO
E questo è segno, o Sforza,
ch’ei brama una battaglia.
SFORZA
Oh, che puot’egli
bramar di più, che innanzi a sé cacciarne
con la spada nel fodero?
PERGOLA
Che puote
bramar di più? Dirovvel io: che noi
tutto arrischiam l’esercito in un campo
ov’egli ha preso ogni vantaggio. Or questo
poniamo in salvo; ché le terre è lieve
riprender con gli eserciti.
FORTEBRACCIO
Con quali?
Non, per mia fé, con quelli a cui s’insegna
a dil’oggiar quando il nemico appare,
a non mirarlo in faccia, a lasciar soli
nelle angosce i compagni; ma con genti
quali or le abbiam d’ira e di scorno accese,
impazienti di pugnar, con queste
si riparan le perdite, e si vince.
Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
perché lasciarli irrugginir?
SFORZA
Torello,
voi temete d’agguati? Anch’io dirovvi:
non son più quelle guerre, in cui minuti
drappelletti movean, con l’occhio teso
ogni macchia guatando, ogni rivolta.
Un’oste intera sopra un’oste intera
oggi rovescerassi: un tanto stuolo
si vince sì, ma non s’accerchia; ei spazza
innanzi a sé gl’intoppi, e fin ch’è unito,
dovunque sia, sul suo terreno è sempre.
FORTEBRACCIO
(a Pergola e Torello)
Siete convinti?
TORELLO
Sofferite…
MALATESTI
Io il sono.
Omai vano è più dir. Certo io mi tengo
che tutti andrete in operar d’accordo
più che non foste in divisar disgiunti.
Poi che un partito e l’altro ha il suo periglio,
scegliamo almen quel che più gloria ha seco.
Noi darem la battaglia: alla frontiera
io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
e chiude la vanguardia; il mezzo tenga
della battaglia Fortebraccio: e il nostro
ufizio sia con impeto serrarci
addosso al campo del nemico, aprirlo,
e spingerci a Maclodio. Voi, Torello,
e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
questa giornata, io pongo in vostra mano
l’assicurarla: voi, discosti alquanto,
il retroguardo avrete. O la fortuna,
pur come suol, seconda i valorosi,
e rompiamo il nemico; e voi piombate
sopra i dispersi. Ma s’ei dura incontro
l’impeto nostro, e ci vedete entrati
donde uscir soli non possiam; venite
a noi, reggete i periglianti amici;
ché, per cosa che avvenga, io vi prometto,
retrocedere a voi non ci vedrete.
FORTEBRACCIO
Non ci vedrete, no.
SFORZA
Siatene certi.
FORTEBRACCIO
Sia lode al ciel, combatteremo alfine:
mai non accadde a capitan, ch’io sappia,
per fare il suo mestier contender tanto.
PERGOLA
O Carmagnola, tu pensasti che oggi
il giovenil corruccio alla prudenza
prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.
FORTEBRACCIO
Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
ella cresce con gli anni, e tanto cresce
che alfin diventa…
PERGOLA
Ebben, dite.
FORTEBRACCIO
Paura;
poi che volete ad ogni modo udirlo.
MALATESTI
Fortebraccio!
PERGOLA
L’hai detto. Ad un soldato
che già più volte avea pugnato e vinto
prima che tu vedessi una bandiera,
oggi tu il primo hai detto…
MALATESTI
Da quel lato,
presso Maclodio è posto il Carmagnola.
Quegli fra noi che avere oggi pensasse
altro nemico che costui, sarebbe
un traditor: pensatamente il dico.
PERGOLA
Ritratto il voto che dapprima io diedi;
e il do per la battaglia: ella fia quale
predissi allor; ma non importa. Allora
potea schifarsi; or la domando io primo:
io son per la battaglia.
MALATESTI
Accetto il voto
ma non l’augurio: lo distorni il cielo
sul capo del nemico.
PERGOLA
O Fortebraccio,
tu m’hai offeso.
MALATESTI
Or via…
FORTEBRACCIO
Se così credi,
sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale
altro pur sia, non crederai ch’io voglia
una parola ritirar che uscita
dalle labbra mi sia.
MALATESTI
(in atto di partire)
Chi resta fido
a Filippo, mi segua.
PERGOLA
Io vi prometto
che oggi darem battaglia, e che di noi
non mancheravvi alcuno. O Fortebraccio,
non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
tu m’hai offeso. Ascolta, io t’offro il modo
che tu mi renda l’onor mio, serbando
intatto il tuo.
FORTEBRACCIO
Che vuoi?
PERGOLA
Dammi il tuo posto.
Ovunque tu combatta, a tutti è noto
che tu volesti la battaglia, ed io,
io devo ad ogni modo essere in luogo
che l’amico e il nemico aperto veda
ch’io non ho… tu m’intendi.
FORTEBRACCIO
Io son contento.
Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo.
O forte, or m’odi: ora m’è dolce il dirti
ch’io non t’offesi, no: per la fortuna
del signor nostro tu soverchio temi:
questo dir volli. Ma il timor che nasce
in cor di quel che ama la vita, e l’ama
più dell’onor, ma che nel cor del prode
muore al primo periglio ch’egli affronta,
e mai più non risorge, o valoroso,
pensavi tu?…
PERGOLA
Nulla pensai: tu parli
da generoso qual tu sei.
(a Malatesti)
Signore,
voi consentite al cambio?…
MALATESTI
Io ci consento;
e son ben lieto di veder tant’ira
tutta cader sovra il nemico.
TORELLO
(allo Sforza)
Io stava
col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
non vi parrà…
SFORZA
V’intendo; e con lui state
alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
combatterem; poco m’importa il dove.
MALATESTI
Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi.
(partono)
SCENA IV
Campo veneziano. Tenda del Conte.
IL CONTE, un SOLDATO
SOLDATO
Signor, l’oste nemica è in movimento:
la vanguardia è sull’argine, e s’avanza.
IL CONTE
I condottieri dove son?
SOLDATO
Qui tutti
fuor della tenda i principali; e stanno
gli ordin vostri aspettando.
IL CONTE
Entrino tosto.
(parte il Soldato)
SCENA V
IL CONTE
Eccolo il dì ch’io bramai tanto. – Il giorno
ch’ei non mi volle udir, che invan pregai,
che ogni adito era chiuso, e che deriso,
solo, io partiva, e non sapea per dove,
oggi con gioia io lo rammento alfine.
Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
ma condottier de’ tuoi nemici, ingrato!
Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
un sogno della rabbia; ed ora è vero.
Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:
io sento il dì della battaglia… E s’io…
No: la vittoria è mia.
SCENA VI
IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO,
altri CONDOTTIERI
IL CONTE
Compagni, udiste
la lieta nova: l’inimico ha fatto
ciò ch’io volea; così voi pur farete.
E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,
il più bel dì di nostra vita apporta.
Non è tra voi chi una battaglia aspetti
per farsi un nome, il so; ma questa sera
l’avrem più glorioso; e la parola
che al nostro orecchio sonerà più grata,
omai fia quella di Maclodio. Orsini,
son pronti i tuoi?
ORSINI
Sì.
IL CONTE
Corri all’imboscate
sulla destra dell’argine; raggiungi
quei che vi stanno, e prendine il comando.
E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi
non vi movete, che non sia lo scontro
incominciato; quando ei fia, correte
alle spalle al nemico. Udite entrambi.
Se dell’insidie egli s’avvede, e tenta
ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,
siategli addosso uniti: io son con voi.
Provochi, o fugga, oggi dev’esser vinto.
ORSINI
E lo sarà.
(parte)
TOLENTINO
T’ubbidirem, vedrai.
(parte)
IL CONTE
(agli altri)
Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi
assegnerò sul campo. Andiam, compagni;
si resista al prim’urto: il resto è certo.
-
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