Il delitto Notarbartolo
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Il delitto Petrosino
Giuseppe Petrosino, detto Joe (Padula, 30 agosto 1860 – Palermo, 12 marzo 1909)
Emigrò con la famiglia a New York nel 1873 e crebbe nell’ambiente di Little Italy. Per vivere si era messo a vendere giornali, a lucidar scarpe e a studiare la lingua inglese. Nel 1877, Joe (come ormai si chiamava) prese la cittadinanza americana, facendosi assumere poi come spazzino dall’amministrazione newyorkese.
L’immigrazione aveva posto le autorità americane di fronte a gravissimi problemi, primo quello dell’ordine pubblico. I poliziotti, quasi tutti ebrei o irlandesi, non riuscivano a capire gli immigrati né a farsi capire da loro: questo generava un clima a favore delle organizzazioni criminose che giunsero in breve a controllare tutta la Little Italy, ghetto malsano, fetido, superaffollato, dove una povera umanità sradicata (e che s’era portata appresso la propria sfiducia nell’autorità costituita) doveva lottare ogni giorno per la vita. Little Italy era il terreno ideale per la pianta del crimine. Con gli emigranti ansiosi di lavoro erano sbarcati negli Stati Uniti avventurieri, evasi e latitanti.
Petrosino, nel 1883, non senza difficoltà, fu ammesso in polizia. Faceva un certo effetto vedere quell’uomo basso e tarchiato (non oltre il metro e sessanta), tra i giganteschi poliziotti irlandesi: in compenso, Petrosino aveva spalle larghe, bicipiti possenti e, ciò che più contò per il suo arruolamento, grinta e intelligenza: ciò gli permise di superare l’ostacolo di essere l’unico poliziotto italiano, e perciò deriso dai connazionali e guardato con un certo sospetto dai colleghi.
Determinante ai fini della sua carriera, oltre al suo impegno, era stata la stima riposta in lui da Theodore Roosevelt, assessore alla polizia (e poi presidente degli Stati Uniti): grazie al suo appoggio, Petrosino era stato promosso detective e destinato alla conduzione d’indagini. I criminali di Little Italy si trovarono subito di fronte ad un nemico che parlava la loro stessa lingua, che conosceva i loro metodi, che poteva entrare nei loro ambienti. Joe Petrosino nutriva una sorta di cupo, rovente rancore verso quei delinquenti che stavano dissipando il patrimonio di stima che gli immigrati italiani avevano costruito.
Risolti brillantemente numerosi casi, nel 1905 gli fu affidata l’organizzazione d’una squadra di poliziotti italiani, l’Italian Branch, e ciò rese più proficua ed efficace la sua lotta senza quartiere contro la Mano Nera, una tenebrosa organizzazione a carattere mafioso, con ramificazioni in Sicilia, tramite la quale si esprimeva il racket. E proprio seguendo una pista che avrebbe dovuto portarlo ad infliggere, forse, un decisivo colpo alla Mano Nera, Petrosino giunse in Italia.
Alle 20.45 di venerdì, 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione, e un quarto sparato subito dopo, suscitano il panico nella piccola folla che attende il tram a capolinea di piazza Marina a Palermo. C’è un generale fuggi fuggi: solo il giovane marinaio anconetano Alberto Cardella (Regia Nave Calabria) si lancia coraggiosamente verso il giardino Garibaldi, nel centro della piazza, da dove sono giunti gli spari: in tempo per vedere un uomo cadere lentamente a terra, ed altri due fuggire scomparendo nell’ombra. Non c’è soccorso possibile, l’uomo è stato raggiunto da tre pallottole: una al volto, una alle spalle, e una terza mortale alla gola. Poco dopo si scopre che si tratta del detective Giuseppe Petrosino, il nemico irriducibile della malavita italiana trapiantata negli Stati Uniti, celebre in America come in Italia quale protagonista della lotta al racket. Il console americano a Palermo telegrafa al suo governo: Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire.
Il governo mise subito a disposizione la somma di 10.000 lire, per chi avesse fornito elementi utili a scoprire i suoi assassini ma la paura della mafia sarà più forte dell’attrazione esercitata da quella pur elevata offerta di soldi. Le bocche rimarranno chiuse. Circa 250.000 persone parteciparono al suo funerale a New York, un numero fino ad allora mai raggiunto da alcun funerale in America.
Si ritiene che il responsabile della sua fine sia il boss Vito Cascio Ferro di Bisacquino, tenuto d’occhio da Petrosino sin da quando questi era a New York, ed il cui nome fu trovato in cima ad una “lista di criminali” redatta dal poliziotto italoamericano e trovata nella sua stanza d’albergo il giorno della morte. Probabilmente (e questo fu un sospetto anche della polizia palermitana dell’epoca) vi è un collegamento tra la morte di Petrosino e alcuni personaggi malavitosi appartenenti alla cosca newyorkese di Giuseppe “Piddu” Morello noti per il loro presunto legame al caso del “corpo nel barile” (un famoso omicidio avvenuto a New York nel 1903). Infatti due uomini di questa cosca erano ritornati in Sicilia nello stesso periodo del viaggio di Petrosino rimanendo in contatto con il boss newyorkese.
L’ipotesi più verosimile è che Morello e Giuseppe Fontana (emigrato in America dopo l’assoluzione per l’omicidio Emanuele Notarbartolo e aggregatosi alla banda di Giuseppe Morello) si siano rivolti a Vito Cascio Ferro affinché organizzasse l’omicidio del poliziotto per loro conto. Quando Cascio Ferro venne arrestato gli fu trovata addosso una fotografia di Petrosino. Il malavitoso aveva però un alibi grazie a un suo amico deputato. Quando, anni più tardi, Cascio Ferro fu arrestato e condannato all’ergastolo per un omicidio, il boss fu intervistato in prigione; dichiarò di aver ucciso un solo uomo in tutta la sua vita e disse di averlo fatto in modo disinteressato.
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