8 marzo
27 Gennaio 2019Sofia Giacomelli
27 Gennaio 2019Il film Anita B. di Roberto Faenza di Giovanni Ghiselli
Presentazione scritta in seguito a un colloquio con il regista, in attesa dell’anteprima (14 gennaio 2014).
Il 16 gennaio uscirà il nuovo film di Roberto Faenza: AnitaB. Andrò a vederlo perché la presentazione che ne ha fatto il regista fa capire che la storia narrata riguarda tante persone quante hanno dovuto costruire la loro identità attraversando prove molto difficili e anche assai dolorose.
Questo ultimo lavoro del regista di Sostiene Pereira, di Jona che visse nella balena, di L’amante perduto, di Prendimi l’anima[1] e di altri pregevoli film, prende spunto dalla lettura dal romanzo “Quanta stella c’è nel cielo”, di Edith Bruck, romanziera e poetessa di origine ungherese. Appena possibile farò una presentazione anche di questo libro.
Riferisco alcune parole del regista che ho avuto occasione di conoscere due anni fa, nella cineteca di Bologna, e ho incontrato di nuovo in questi giorni di ferie invernali per sentirlo parlare del suo film.
“E’ stato Furio Colombo a suggerirmi di leggere il libro. Il racconto di Edith Bruck, al quale il film è liberamente ispirato, descrive la quotidianità di Anita in un ambiente fortemente ostile, quasi fosse una colpa essere stata deportata. Non ho mai chiesto a Edith quanto ci sia di autobiografico in quelle pagine, ma ho voluto aggiungere B. ad Anita, in omaggio al suo cognome. Quando ho finito di leggere il libro durante un viaggio aereo dal Giappone dove ero stato a presentare un mio lavoro, ho avuto una crisi di pianto e ho dovuto nascondermi in bagno, sconvolto. Spesso mi chiedo come possiamo lamentarci delle nostre pene, quando ci sono persone che hanno davvero vissuto nell’inferno“.
Nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, lo Stariez Zossima insegna che l’inferno è “la sofferenza di non poter più amare” (VI, 3).
Per chi non ha perso questa facoltà, la terra è , viceversa, un paradiso
Il principe My?kin ritiene naturale e connaturata all’uomo la felicità: “Io non so come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io non so esprimere bene i miei sentimentima quante cose belle vediamo ad ogni pie’ sospinto, belle al punto che l’uomo più abbietto non può che vederle sempre belle? Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene”[2].-
La bellezza di tante persone, la loro levatura morale sta nel fatto che l’inferno non le ha rese cattive. E’ il tema del tw`/ pavqei mavqo~[3], attraverso la sofferenza arriva la comprensione, che ricorre in diversi film di Faenza. Anche il dolore serve, è utile alla crescita, se sofferto con intelligenza, coraggio e onestà.
In L’amante perduto è la morte di un figlio piccolo che getta una coppia nel disordine mentale e nella confusione sentimentale. Saranno due adolescenti, la ragazzina ebrea borghese, il ragazzino arabo proletario, a restaurare, con il loro amore, la chiarezza, la bellezza e la bontà dei sentimenti. Anche nello spettatore.
Alla fine del film, l’adulto ebreo che in un primo momento si è sdegnato per l’amore dei due adolescenti, deve chiedere aiuto al ragazzino arabo sorpreso a letto con la figlia. L’uomo non è in grado di riparare da solo l’automobile rotta e capisce che noi esseri umani, come dice Marco Aurelio “siamo nati per darci aiuto reciproco (“pro;” sunergivan”), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l’agire uno a danno dell’altro è cosa contro natura (“to; oun ajntipravssein ajllhvloi” para; fuvsin” Ricordi , II, 1).
In questi giorni della memoria dovremmo ricordarci anche dei nostri classici. Sono fondamentali per la conoscenza, il riconoscimento e la costruzione della nostra identità. Credo che se non avessi conosciuto e riconosciuti dentro di me gli auctores europei sarei un dimidiatus homo.
Ma vediamo in breve la trama del film Anita B.
Anita, un’adolescente di origini ungheresi[4] sopravvissuta ad Auschwitz, è accolta dall’unica parente rimasta viva: Monika, sorella di suo padre, che non vuole essere chiamata zia e vive l’arrivo della nipote come un peso.
A Zvikovez, tra le montagne della Cecoslovacchia non lontane da Praga, Monika vive con il marito Aron, il figlioletto Roby e il fratello di Aron, il giovane e attraente Eli, la cui filosofia è spiccia: “gli uomini tirano giù i calzoni, mentre le donne pensano all’amore”.
E’ questo pensiero delle donne che ha salvato la nostra specie dall’estinzione. Tutti noi dobbiamo il venire alla luce a entrambi i genitori, ma non pochi tra noi devono la sopravvivenza soprattutto, se non esclusivamente, alla madre.
In quel villaggio dei Sudeti, territori in precedenza occupati dai tedeschi, i nazisti vengono rimpatriati a forza e gli scampati trasferiti nelle loro abitazioni, in una situazione di crescente tensione con l’avvento del comunismo.
Attorno ad Anita, uomini e donne vogliono dare un calcio al passato, ballare, divertirsi, ascoltare di nascosto le canzoni americane trasmesse oltre cortina dalla Voice of America. Anita sogna come tutti, ma, a differenza degli altri, non nasconde l’anima. La ragazza è combattiva e piena di entusiasmo. La sua forza viene dal ricordo dei genitori persi nel lager. Ma nella nuova casa si trova ad affrontare una realtà inaspettata: nessuno, neppure Eli, con cui scoprirà l’amore, vuole ricordare il passato. E il più grande tabù è proprio l’esperienza del campo, quasi fosse qualcosa di cui vergognarsi.
Quando Anita tenta di smontare quella difesa collettiva, si trova davanti un muro di silenzi. Così, se vuole parlare di ciò che ha passato, può farlo solo con il piccolo Roby, che ha appena un anno e non può capire.
Nella mescolanza di popoli e lingue che confluiscono attorno a Praga, Anita si confronta con personaggi indimenticabili: il vulcanico zio Jacob, coscienza critica della comunità ebraica ed estroso musicista nella festa del Purim; Sarah, la dinamica “traghettatrice”armata di pistola, che organizza l’esodo verso la Palestina; il giovane David, rimasto orfano per la tragica scelta dei genitori, con cui inizia una toccante amicizia. Improvvisamente, Anita si trova catapultata in una situazione imprevista, che la pone di fronte a una decisione che richiede coraggio. E il film si chiude con un inatteso colpo di scena.
Non conosco il finale, siccome non ho ancora visto il film, ma già da questo sommario posso ricavare spunti per una riflessione critica.
Anita “non nasconde l’anima” e non condivide la voglia di oblio degli altri poiché è una persona che non si accontenta di una identità gregaria. Nascondere l’anima è nascondere la persona, la sua quintessenza, poiché l’uomo è prima di tutto la sua yuchv, mens cuiusque is est quisque[5].
La diversità di Anita dagli altri del suo ambiente fa pensare all’Antigone sofoclea che afferma la propria diversità alla sorella Ismene. Quando questa, che vorrebbe dimenticare i fratelli morti, le dice:”tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati” (v, 88), Antigone risponde:”ma so di essere gradita a quelli cui soprattutto bisogna che io piaccia” (Antigone, v. 89).
Questa ragazza indomita non vuole piacere a tutti, sa di dover obbedire alla propria coscienza che le impone di rendere gli onori funebri anche a Polinice, il fratello caduto combattendo contro Tebe, l’aggressore della polis che il tiranno Creonte vorrebbe lasciare insepolto come traditore della patria.
Quando vedrò il film, cercherò altre analogie tra queste due ragazze poiché Anita mi ha fatto venire in mente l’indomita figlia di Edipo, della quale Shelley scrisse a John Gisborne[6] “La tua opinione su Antigone è giusta. Che sublime ritratto di donna! e che cosa pensi dei cori e in particolare del lamento lirico della vittima simile a un dio? e delle minacce di Tiresia, e del loro immediato compimento? Alcuni fra noi, in una precedente esistenza, si sono innamorati di un’Antigone: ecco perché non troveranno mai completa soddisfazione in un legame mortale!”
Credo che ci potremo uscire da questa fangosa palude di indifferenza se cresceranno molti giovani come Anita e Antigone, aiutati magari, o per lo meno non ostacolati, da quanti tra i non giovani sono capaci ancora di pensare e di valutare con i criteri della bellezza e della giustizia. Per acquistare, e non perdere questi criteri, è necessaria la conoscenza del passato. Posporre comunque gli anziani ai giovani come si fa oggi è un modo subdolo per svalutare il passato e la memoria del passato conservata dai vecchi.
Ignorare la storia significa rimanere bambini infanti, e nel senso peggiore[7], per tutta la vita.
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Lo scrisse già Cicerone, non certo un eversivo, comunque un divulgatore tra l’altro di quell’umanesimo il cui vetitum non è ricordare, anzi: tabù è dimenticare. Già nell’Odissea di Omero la proibizione massima è quella di scordare: novstou laqevsqai, dimenticare il ritorno, significa dimenticare le pene sofferte senza elaborarle, attraversarle, e superarle, significa dimenticare le prove affrontate, scordare lo stesso poema.
“L’espressione che Omero usa in questi casi è ‘scordare il ritorno’. Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l’Odissea. Ma anche l’aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono “dire il ritorno”; per chi canta versi senza l’appoggio di un testo scritto “dimenticare” è il verbo più negativo che esista; e per loro “dimenticare il ritorno” vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di battaglia del loro repertorio”[8].
Dimenticare Auschwitz per Anita significherebbe non conoscere quella che è stata e non diventare quella che è[9].
Dimenticare per adeguarsi a quanti scordano per pigrizia, o per viltà, o per cattiva coscienza, è uno dei tanti conformismi che inficiano o tolgono identità.
Autorizzo questa mia riflessione attraverso Seneca:”nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur ” (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il “si dice”. Sentiamo ancora Seneca che traduce Epicuro: “si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, numquam eris dives” (ep. 16, 7), se vivrai secondo la natura, non sarai mai povero, se secondo i luoghi comuni, non sarai mai ricco.
Sentiamo anche O. Wilde: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità“[10].
Sulla necessità di non dimenticare sentiamo di nuovo Cicerone: “Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi e?, memori? rerum veterum, cum superiorum aetate contexitur?” [11] del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?
Restare bambini, dal punto di vista del pensiero, non è cosa buona. Lo fa notare Cesare Pavese:”C’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini”[12].
Riporto una serie di citazioni sui benefici della memoria storica
“Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istantesolo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo”[13].
La conoscenza della storia, la memoria del passato è ampliamento e potenziamento della fuvsi~.
“Il benessere dell’albero per le sue radici, la felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza- è questo ciò che oggi si designa di preferenza come il vero e proprio senso storico”[14].
E’ l’aspetto antiquario dell’amore per la storia.
“La storia è il nostro accaduto, è ciò che continuamente accade nel tempo. Ma tale è anche ciò che è stratificato, lo strato sotto il suolo su cui camminiamo e quanto più profondamente le radici del nostro essere arrivano allo strato insondabile di ciò che, sebbene posto sotto e fuori i confini fisici del nostro io, tuttavia lo plasma e alimenta (così che in ore di meno vigile coscienza possiamo parlarne in prima persona, come se appartenesse alla nostra carne), tanto più spiritualmente “carica” è la nostra vita, tanto più degna è l’anima della nostra carne”[15].
Noi gettiamo radici nei luoghi della terra dove facciamo esperienze: “poiché molti eventi egli vi aveva vissuto e le storie che noi viviamo in un luogo sono simili a radici che gettiamo nel suo sottosuolo”[16].
“Maturità della mente: a questa occorre la storia e la consapevolezza della storia”[17].
I revisionismi recenti corrispondono alla concezione orwelliana della storia come palinsesto:” All history was a palimpsest, scraped clean and re-inscribed exactly as often as was necessary“[18] la Storia era un palinsesto grattato fino a non recare nessuna traccia della scrittura antica e quindi riscritto di nuovo tante volte quante si sarebbe reso necessario
Ebbene, il film di Faenza mostra la Bildung della ragazzina Anita, la sua formazione di donna e di persona.
Sentiamo qualche altra parola del regista
“Anita è una ragazza tenera e sensibile. E’ appena adolescente quando esce da Auschwitz e ha conservato la voglia di lottare, nonostante l’esperienza dei campiE non vuole limitarsi a sopravvivere. Nella lotta per affermare la propria identità c’è la ricerca dell’amore, in cui darà tutta se stessa, affrontandone costi e rischiPer molti però vivere significa oblio: senza rendersi conto di seppellire se stessi insieme alla memoria. Ed è così che Anita si trova a poter parlare del suo passato solo con un bambino di un anno. Il piccolo Roby ascolta i suoi racconti, ma non può capirla. Tutti gli altri la invitano a “cambiare argomento”, oppure le dicono “è passato, dimenticaAnita B. è la storia di una crescita femminile, un romanzo di formazione ancora attuale. Nel dopoguerra si costruiva sulle macerie, oggi proviamo una sensazione simile: il mondo in cui viviamo sembra confuso, senza certezze”.
Io credo che la confusione, il disordine come ajkosmiva personale o politica o addirittura come cavo~ mondiale sia uno dei segni che caratterizzano il male, forse il più evidente.
Credo che si debbano prendere le distanze dai luoghi e dalle persone con le quali non “funzioniamo” bene.
Tenere insieme mondi che stanno bene separati è un’ u[bri~ simile a quella di Serse il quale ha cercato di unire quello che doveva restare distinto in due parti.
E’ come volere esportare la democrazia a suon di bombe.
Ora commento alcune parole chiave del film, parole che ho ricavato dal provino[19].
Anita dice: “l’unica cosa che mi addolora è non poter parlare con nessuno di quello che abbiamo passato”. Nell’Antigone di Sofocle, e pure in altre tragedie, chi impedisce di parlare è il tiranno cui la ragazza ribelle rinfaccia:”Del resto da dove avrei potuto ottenere una gloria/ più bella e famosa che componendo mio fratello/nella tomba? Si potrebbe dire che a tutti questi questo/piace, se la paura non serrasse la lingua” Antigone, vv. 502-505. Il despota ha messo a tacere tutti, tranne Antigone. Del resto il silenzio di Ottavia, la figlia di Claudio che Agrippina impose a Nerone quale sposa non gradita, non bastò a salvare la vita della disgraziata fanciulla:
“Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes adfectus abscondere didicerat” ( Annales, XIII, 16), anche Ottavia, sebbene non scaltrita dall’età[20], aveva imparato a nascondere la pena, l’amore e tutti i sentimenti.
Ora è il chiassoso conformismo imperante che copre le parole sommesse dei dissidenti, ed è l’ignoranza che non permette ai ragazzi, e a tanti adulti, di esprimere i loro affetti. E questa incapacità di parlare, questo ingorgo di sentimenti dovuto alla afasia, non poche volte sfocia nella violenza.
Per la ragazza di Sofocle l’ufficio pietoso nei confronti di Polinice, la ribellione al tiranno, il rifiuto del conformismo, sono atti dovuti non solo al fratello morto ma anche alla propria identità.
Faenza scrive che “Nella lotta per affermare la propria identità c’è la ricerca dell’amore, in cui Anita darà tutta se stessa, affrontandone costi e rischi”.
L’identità è il nostro bene più prezioso: l’abbiamo scelta nel luogo sovramondano dove si raccolgono le anime già passate sulla terra, secondo il mito di Er che conclude la Repubblica di Platone. Dimenticare quella scelta, perdere o smarrire la propria identità è il maximum scelus contro se stessi. Ed è il dolore più grande.
Tanto che Antigone preferisce morire, così Aiace, Polissena, Cleopatra e altri.
La ragazza di Sofocle definisce la propria quintessenza umana con queste parole: “Certamente non sono nata per condividere l’odio ma l’amore” (Antigone, v. 523).
Poi di nuovo Anita: “Ma a ben pensarci, cos’è l’amore?”, si chiede quando pensa a Eli, di cui si è innamorata. E si arrovella per trovare una definizione, salvo convincersi che è“una cosa tanto meravigliosa che se provi a definirla, si arrabbia e perde tutta la sua meraviglia”.
Provo a dire con Dostoevskij e con Petronio che l’amore è trasfusione di anime, oltre che fusione di corpi beninteso.
Dimitri Karamazov dice:”questo amore mi tortura, mi tortura!…Prima, mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo corpo infernale, ma adesso tutta la sua anima l’ho trasfusa nella mia, e grazie a lei anch’io sono diventato un uomo!”[21].
Esiste una versione latina di questa trasfusione di anime che, pur se prelude a un tradimento, e quindi, dentro il contesto, può far pensare a una cinica autoironia del narratore, rievoca in endecasillabi faleci una notte d’amore, omosessuale oltretutto, comunque con una delicatezza e una profondità degna della migliore poesia amorosa latina:”qualis nox fuit illa, di deaeque,/quam mollis torus. haesimus calentes/et transfudimus hinc et hinc labellis/errantes animas. valete, curae/mortales. ego sic perire coepi ” (Satyricon, 79), che notte fu quella, dei e dee, che morbido letto. ci stringemmo ardenti e ci trasfondemmo con le labbra a vicenda le anime deliranti. addio, affanni mortali. così io cominciai a morire.
La burrascosa passione in cui si trova coinvolta Anita sembra volgere al peggio, quando miracolosamente la ragazza riesce a imporre una sterzata e trasformare il salto nel buio in una occasione di ribellione e rinascita.
Credo che il film si concluda con l’acquisizione della coscienza della propria bella umanità da parte della fanciulla.
Il ragazzo dice: “la guerra ha cambiato tutto, oramai non sappiamo più chi siamo”. La guerra è uno dei fattori che tolgono identità.
Perfino gli dèi la perdono : Sofocle, che pure è poeta religioso, depreca Ares e lo chiama “il dio disonorato tra gli dèi” : “to;n ajpovtimon ejn qeoi'” qeovn” (Edipo re , v. 215)
Gli uomini vengono resi stupidi e pazzi dai massacri della guerra
I Greci che hanno distrutto Troia e hanno compiuto un genocidio senza risparmiare nemmeno i bambini, hanno perso la loro identità di popolo civile.
Cruciali sono i versi con i quali Andromaca accusa i Greci di essere loro i veri barbari: “w bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav-tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion; (764-765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di niente?
Si tratta di Astianatte, il figlio di Andromaca e di Ettore.
Ammazzare un bambino per paura di suo padre è la viltà e la barbarie più grande che ci sia.
La stessa degenerazione in barbari hanno mostrato i tedeschi che osannavano Hitler e hanno assecondato la sua orrenda, sanguinaria vicenda.
Anita vuole sapere ad ogni costo chi è, vuole raffigurare l’impossibile di cui è innamorata[22] . Riporto alcune sue parole: “Sai qual è il mio sogno se potessi raggiungere la Palestina? Quello di scrivere. Voglio inventarmi un mondo che non esiste”.
Una utopia o forse piuttosto una ucronia dove la gente si vuole bene e si ama, immagino.
Appena il film uscirà, andrò a vederlo e aggiungerò altre riflessioni sui contenuti e considerazioni sulla forma. Sono attirato da queste figura di ragazza che con il suo coraggio autorizza la speranza e con la sua bellezza incoraggia ad amare la vita.
Giovanni Ghiselli
NOTE:
[1] Il regista ha detto: “Mentre lavoravo tra le montagne dell’Alto Adige e Praga, ho pensato che questa fatica (due anni per trovare i finanziamenti necessari e uno per arrivare alla copia campione) per me rappresenta il seguito di Prendimi l’anima, convinto che Sabina Spielrein avrebbe potuto amarlo. Da qui lo spunto per una conclusione ideale, comune al tragitto di due donne coraggiose e indomite: “un viaggio verso il passato con un solo bagaglio: il futuro”. Che è la frase con cui si chiudono gli ultimi fotogrammi.
[2] F. Dostoevskij, L’idiota, IV, 7-
[3] Eschilo, Agamennone, 177.
[4] Come Edith Bruck. Per la sua giovane eroina il regista ha scelto Elin Powell, minuta, viso a triangolo, talento scoperto da Dustin Hoffman (l’ha voluta in Quartet). Eli è Robert Sheehan (protagonista della serie Misfits), nel cast ci sono Moni Ovadia, Andrea Osvart, Antonio Cupo, Nico Mirallegro, Jane Alexander.
[5] Cicerone su questa linea, scrive: “mens cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari potest ” (De repubblica, VI, 26), la mente di ciascuno è quel ciascuno, non quella figura che può essere indicata con un dito
[6] Nell’ottobre del 1821.
[7] Infante, come il latino infans, come il greco nhvpio~ è colui che non sa parlare.
[8]I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15-16.
[9] Cfr. la somma del pensiero educativo di Pindaro, tebano come Antigone: gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
[10] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[11]Orator, 120)
[12] Il mestiere di vivere , 24 dicembre 1937.
[13] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali II, p. 83 e p. 87.
[14] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali II, p. 99.
[15] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli. La storia di Giacobbe, p. 213.
[16] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli. La storia di Giacobbe, p. 385.
[17] T. S. Eliot, Che cos’è un classico? (del 1944) In T. S. Eliot, Opere, p. 965.
[18] G. Orwell, 1984, cap. IV
[19] Ai miei tempi si diceva così e nemmeno io voglio dimenticare i miei tempi, né voglio dimenticare la mia lingua madre con le altre che ne perfezionano la conoscenza.
[20] Tacito ha appena raccontato l’avvelenamento di Britannico da parte di Nerone. Siamo nel 55 d. C. e Ottavia ha solo quindici anni.
[21] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (del 1880), p. 709.
[22] Cfr. Antigone 90 dove Ismene dice alla sorella: ” ajll j ajmhcavnwn ejra’/” (v.90), ma sei innamorata dell’impossibile.