Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Vagabondaggio” (1887)
Novelle di Giovanni Verga
La mattina, prima delle sette, si vedeva passare il maestro dei ragazzi, mentre andava raccogliendo la scolaresca di casa in casa: con la mazzettina in una mano, un bimbo restìo appeso all’altra, e dietro una nidiata di marmocchi, che ad ogni fermata si buttava sul marciapiede, come pecore stracche. Donna Mena, la merciaia, gli faceva trovare il suo Aloardo, già bell’e ripulito, a furia di scapaccioni, e il maestro, amorevole e paziente, si trascinava via il monello, che strillava e tirava calci. Più tardi, prima del desinare, tornava rimorchiando Aloardino tutto inzaccherato, lo lasciava sull’uscio del negozio, e ripigliava per mano il bimbo con cui era venuto la mattina.
Così passava e ripassava quattro volte al giorno, prima e dopo il mezzodì, sempre con un ragazzetto svogliato per mano, gli altri sbandati dietro, d’ogni ceto, d’ogni colore, col vestitino attillato alla moda, oppure strascicando delle scarpacce sfondate; però tenendosi accosto invariabilmente le scolare che stava più vicino di casa, sicché ogni mamma poteva credere che il suo figliuolo fosse il preferito.
Le mamme lo conoscevano tutte; dacché erano al mondo l’avevano visto passare mattina e sera, col cappelluccio stinto sull’orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti come le scarpe, il sorriso paziente e inalterabile nel viso disfatto di libro vecchio; senza altro di stanco che il vestito mangiato dal sole e dalla spazzola, sulle spalle un po’ curve.
Sapevano pure che era un gran cacciatore di donne; da circa quarant’anni, dacché andava su e giù per le strade mattina e sera, al pari di una chioccia coi suoi pulcini, era sempre col naso in aria, agitando la mazzettina a guisa di uno zimbello, come un vero uccellatore, in cerca di un’innamorata – senza ombra di male – una che lo guardasse ogni volta che passava, e tirasse fuori il fazzoletto quando egli si soffiava il naso – niente di più; gli sarebbe bastato di sapere che in qualche luogo, vicina o lontana, aveva un’anima sorella. Talché lungo la perenne via crucis di tutti i giorni, egli aveva delle immaginarie stazioni consolatrici, delle invetriate che soleva sbirciare dacché svoltava la cantonata, e che avevano senso e parole soltanto per lui, alle quali aveva visto invecchiare dei visi amati – o scomparirne per andare a maritarsi – egli solo sempre lo stesso, portando una instancabile giovinezza dentro di sé, dedicando alle figliuole il sentimento che aveva provato per le madri, mulinando avventure da Don Giovanni nella sua vita da anacoreta.
Era come la conseguenza della sua professione, l’incarnazione degli estri poetici che gli occupavano le ore d’ozio, la sera, dinanzi al lume a petrolio, coi piedi indolenziti nelle ciabatte di cimosa, ben coperto dal pastrano, mentre sua sorella Carolina rattoppava le calze, dall’altro lato del tavol’inetto, anch’essa con un libro aperto dinanzi agli occhi. Faceva il maestro di scuola per vivere, ma il suo vero stato erano le lettere, sonetti, odi, anacreontiche, acrostici soprattutto, con tutte le sante del calendario a capoverso. Portava, sotto il paletò spelato, da un capo all’altro della città, strascinandosi dietro la scolaresca, la sacra fiamma dei versi, quella che fa cantare le giovinette al chiaro di l’una sul veroncello – e doveva farle pensare a lui. Sapeva già, come se gliela avessero confidata, tutta la curiosità che doveva suscitare la sua persona, i palpiti che destava una sua occhiata, le fantasie che si lasciava dietro il suo passaggio. Troppo scrupoloso però per abusarne!
Un giorno, lo rammentava sempre con una dolce confusione interna, una giovinetta alla quale andava a dare lezioni di bello scrivere a domicilio, volle regalargli per la sua festa un bel fiore ch’era in un vasetto della scrivania – rosa o garofano, non si rammentava pel turbamento che gli aveva fatto velo alla vista – glielo presentava con un atto gentile, e gli diceva, al vederlo timido e imbarazzato:
– L’ho tenuto lì per lei, signor maestro.
– No… la prego… Mi risparmi…
– Come? non lo vuole?
– Seguitiamo la lezione, di grazia!… Queste non son cose…
– Ma perché? Che c’è di male…
– Tradire la fiducia dei suoi parenti… sotto la veste di istitutore… –
Allora la ragazza era scoppiata in una risata così matta, così impertinente, che gli squillava ancora nelle orecchie al ripensarci, e ancora, dopo tanto tempo, gli metteva in capo un dubbio, uno di quei lampi di luce che fanno cacciare il capo sotto il guanciale, per non vederli, la notte.
Ah, quelle benedette ragazze, chi arrivava a capirle, per quanto gli anni passassero! Esse gli ridevano dietro le spalle. – Poi, dopo molto tempo, quand’egli passava a prendere i loro bimbi, tirando in su i baffetti ostinatamente neri, si sentivano intenerire da una certa commozione ripensando al passato, alle rosee fantasie della prima giovinezza, che evocava la figura melanconica di quell’eterno cercatore di amore.
– Entrate, don Peppino, il ragazzo sta vestendosi.
– No, grazie, non importa.
– Volete aspettare al sole?
– Ho qui i ragazzi. Non posso lasciarli.
– Quanti ne avete, santa pazienza! Ce ne vorrà, da mattina a sera, tanto tempo che fate quel mestiere!
– Sì, un pezzo che ci conosciamo, di vista almeno. Quando lei stava in via del Carmine, il terrazzino col basilico. Si rammenta?
– Si diventa vecchi, don Peppino! Ora abbiamo i capelli bianchi. Parlo per me, che ho già una figliuola da marito.
– Giusto, avevo portato qui una cosuccia per donna Lucietta. Oggi è la sua festa, mi pare.
– Cos’è? l’immagine di santa Lucia? No, una poesia! Lucia, Lucia, vien qui, guarda cosa t’ha portato il signor maestro.
– Piccolezze, donna Lucietta, scuserà l’ardire.
– Bello, bello, grazie tante. Guarda che bel foglio, mamma. Sembra un merletto.
– Son cose leggiere. Proprio un ricamino in versi, come ci vogliono per una bella ragazza qual è lei. Piccolezze, sa!
– Grazie, grazie. Ecco Bartolino. E’ mezz’ora che il signor maestro t’aspetta, maleducato!
– Guarda mamma; ritagliando il bordo della carta tutto in giro se ne può cavare un bel portamazzi, se oggi mi vengono dei fiori -.
La scuola era un grande stanzone imbiancato a calce, chiuso in fondo da un tramezzo che arrivava a metà dell’altezza, e al di sopra lasciava un gran vano semicircolare e misterioso, il quale dava lume a un bugigattolo che vi era dietro. Accanto all’uscio vedevasi il tavol’inetto del maestro, coperto da un tappetino ricamato a mano, e sopra tanti altri lavori fatti di ritagli: nettapenne, sottolume, e un mandarino di lana arancione, colle sue brave foglioline verdi, causa d’infinite distrazioni agli scolari. L’altro ornamento della scuola, sulla larga parete nuda dietro il tavolino, era una cornicetta di carta traforata, opera industre della stessa mano, che conteneva due piccole fotografie ingiallite, i ritratti del maestro e di sua sorella, somiglianti come due gocce d’acqua, malgrado i baffetti incerati dell’uno, e la pettinatura grottesca dell’altra: gli stessi pomelli scarni che sembravano sporgere fuori della cornice, la stessa linea sottile delle labbra smunte, gli stessi occhi appannati, quasi stanchi di guardare perennemente, dal fondo dell’orbita incavata, lo sbaraglio delle seggiole scompagnate per la scuola; e tutt’in giro la tristezza delle pareti bianche, macchiate in un canto dalla luce scialba della finestra polverosa che dava nel cortiletto.
Di buon mattino, appena il falegname accanto principiava a martellare, udivasi bispigliare due voci sonnolente nel bugigattolo oscuro, e poi s’illuminava il vano al di sopra del tramezzo. Il maestro andava a prendere una manata di trucioli, strascicando le ciabatte, tutto raggomitolato in un pastrano spelato, e accendeva il fuoco per fare il caffè. Allora, dietro la finestra appannata, vedevasi salire la fiamma del focolare annidato sotto quattro tegole sporgenti dal muro, e il fumo denso che stagnava nel cortiletto cieco. In fondo allo stanzino la sorella del maestro intanto cominciava a tossire, dall’alba.
Egli andava a prendere le scarpe appoggiate allo stipite dell’uscio, l’una accanto all’altra, coi tacchi in alto, e si metteva a lustrarle amorosamente, mentre faceva bollire il caffè, ritto innanzi al fuoco, col bavero del pastrano sino alle orecchie. In seguito toglieva dal fuoco la caffettiera, sempre colla mano sinistra, per pigliare colla destra la chicchera senza manico dall’asse inchiodata accanto al fornello, la risciacquava nel catino fesso incastrato fra due sassi accanto al pozzo, e portava finalmente il lume nel bugigattolo, diviso in due da una vecchia tenda da finestra appesa a una funicella. La sorella si alzava a sedere sul letto in fondo, stentatamente, tossendo, soffiandosi il naso, gemendo sempre, colle trecce arruffate, il viso consunto, gli occhi già stanchi, salutando il fratello con un sorriso triste d’incurabile.
– Come ti senti oggi, Carolina? – le chiedeva il fratello.
– Meglio, – rispondeva lei invariabilmente.
Intanto il sole sormontava il tetto di faccia alla finestra, come una polvere d’oro, in mezzo a cui balenava il volo dei passeri schiamazzanti. Dietro l’uscio passava lo scampanellare delle capre.
– Vado pel latte -, diceva don Peppino.
– Sì, – rispondeva lei collo stesso moto stracco del capo.
E cominciava a vestirsi lentamente, mentre il maestro, accoccolato col bicchiere in mano, leticava col capraio che gli misurava il latte come fosse oro colato.
Carolina andava a rifare il lettuccio piatto del fratello, dall’altra parte della cortina, rialzandola tutta sulla funicella per dare aria alla stanza, come era solita dire; e si dava a strascicare la scopa per la scuola, adagio adagio, movendo le seggiole una dopo l’altra, appoggiandosi al bastone della scopa per tossire, in mezzo al polverìo.
Il fratello tornava coi due soldi di latte in fondo al bicchiere, e due panetti nelle tasche del pastrano. Ripiegavano un lembo del tappetino, per non insudiciarlo, e sedevano a far colazione in silenzio, l’uno di qua e l’altra di là del tavolino, tagliando ad una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio, e come soprapensieri. Soltanto, ogni volta che lei tossiva, il fratello rizzava il capo a fissarla in aria inquieta, e tornava a chinare gli occhi sul piatto.
Alfine egli se ne andava colla mazzettina sotto l’ascella, il cappelluccio sull’orecchio, i baffetti incerati, tirando in su il colletto della camicia, infilandosi con precauzione i guanti neri che puzzavano d’inchiostro, seguito passo passo dalla sorella che si ostinava a passargli straccamente la spazzola addosso, covandolo con uno sguardo quasi materno, accompagnandolo dalla soglia con un sorriso rassegnato di zitellona, che credeva tutte le donne innamorate di suo fratello.
Anch’essa aveva avuto la sua primavera scolorita di ragazza senza dote e senza bellezza, quando rimodernava, ogni festa principale, lo stesso vestitino di lana e seta, e architettava pettinature fantastiche dinanzi allo specchietto incrinato. Oh, le rosee visioni che passarono su quella vesticciuola, mentre essa agucchiava le intere notti! e gli sconforti amari che la tormentarono dinanzi a quello specchio, al quale si affacciavano ogni volta inesorabilmente i pomelli ossuti ed il naso troppo lungo! In mezzo al crocchio allegro e civettuolo delle altre ragazze ella portava sempre come la visione dolorosa della sua figura grottesca, e se ne stava in disparte – per vergogna, dicevano le une, – per orgoglio, dicevano le altre. – Giacché passava anche lei per letterata. Nello squallore della loro miseria decente le lettere avevano messo un conforto, una lusinga, come un lusso delicato che li compensava della commiserazione mal dissimulata dei vicini. Essa teneva gelosamente custoditi, in belle copie tutte a svolazzi e maiuscole ornate, i versi del fratello; e quando egli si era lasciato vincere alfine dall’indifferenza generale, dalla stanchezza dell’umile e faticoso impiego che doveva fare delle lettere per guadagnarsi il pane, essa sola era rimasta una gran leggitrice di romanzi e di versi: avventure epiche di cappa e di spada, casi complicati e straordinari, amori eroici, delitti misteriosi, epistolari di quattrocento pagine tutte piene di una sola parola, nenie belate al chiaro di l’una, dolori di anime in lutto prima di nascere, che piangevano delusioni future. Tutta la sua giovinezza squallida s’era consunta in quelle fantasie ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di poeti tisici e biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali sognava di vivere anche mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro desinare, nel cortiletto cieco che serviva da cucina. E sotto l’influenza di tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa della sua disavvenenza e della sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con ricciolini artificiosi sulla fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai gomiti del vestito e gorgiere inamidate.
– Che è l’ultimo figurino quello? – avevale chiesto un giorno la più elegante e la più crudele delle sue compagne.
Lui solo – tanto tempo addietro! – adesso era impiegato alla Pretura Urbana – quanti palpiti! quanta dolcezza! quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo incontrava per caso, carico di moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con grandi occhi pensosi che stavano a guardare i «vortici delle danze» dal vano di un uscio, come dall’alto, da cento miglia lontano. Le ragazze lo canzonavano anche un po’ perché non ballava mai; lo chiamavano «il poeta». Egli da lontano inchiodava uno sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par di lui. Una domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase ingarbugliata che aveva ambito l’onore di far la sua conoscenza perché «nella festa» era l’unica persona con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva, gliel’avevano detto: sapeva anche che era una distinta cultrice delle lettere…
«Le danze» giravano giravano «vorticose» in un gran polverìo, sotto la lumiera a petrolio, ed essi sembrano cento miglia lontani, proprio come nei romanzi, mezzo nascosti dietro la tenda all’uncinetto, lui col cappello sull’anca, e l’arco della mente teso per ogni parola che gli usciva di bocca; lei irradiata da quella prima lusinga che le veniva da un uomo, con una nuova dolcezza negli occhi, attraverso i ricciolini.
– E’ un poema?
– No, un romanzo.
– Storico?
– Oibò signorina! Per chi mi piglia? Sa il detto di quel tale: «Chi ci libererà dai Greci e dai Romani?…»
– Genere Manzoni allora?
– No, più moderno; stavo per dire più fine; certo più nervoso… tutta la nervosità del secolo in cui viviamo…
– E il titolo? si può sapere almeno?
– Lei sì! – Amore e morte!
– Bello! bello! bello! Ci ha lavorato molto?
– Saran quattr’anni circa.
– Perché non lo fa stampare? –
Il giovanotto alzò le spalle con un sorriso sdegnoso.
– Peccato!
Egli ebbe un lampo negli occhi, per la risposta che gli balenava in mente pronta e azzeccata; un lampo che illuse la poveretta:
– Mi basta questa parola sua, guardi! –
La Carolina avvampò di gioia; e chinò il capo, col petto che le scoppiava.
– Che dice?… Io!… Che dice mai?… –
L’altro gonfiandosi nel soprabito anche lui a quella prima lusinga che gli veniva da una donna, le lasciava cadere sul capo chino, dall’alto del suo colletto inamidato, la confidenza che il trionfo più ambito per uno scrittore è quello di una parola… una parola sola… d’encomio… d’incoraggiamento… che venga da una persona…
– Pardon! – s’interruppe a un tratto tirandosi bruscamente indietro.
– Gli è arrivata? – chiese scusandosi il padrone di casa che girava coll’annaffiatoio. – Mi dispiace, sa… Facevo perché si soffoca dalla polvere. Non le pare? –
Il poeta continuava dicendo che era proprio una fortuna d’incontrarsi… in mezzo a tanta volgarità invadente…
– Lei non balla? – domandò infine.
– Io…
– Stia tranquilla. Non ballo neppur io. Sa il detto di quel tale: «Non capisco perché cotesto lavoro non lo facciano fare dai domestici!» Ed è vero infatti. Provi a tapparsi le orecchie, per vedere l’impressione grottesca…
– E’ vero, è vero.
– Sentisse poi che discorsi! – Il caldo, la folla, i lumi… Quando si arriva a parlar delle acconciature è già un gran progresso. A proposito, lei è messa divinamente… No, no, mi lasci dire, è diversa dalle altre; un buon gusto, un’originalità… –
Tese l’arco delle sopracciglia, e le scoccò l’ultima frecciata:
– Insomma l’abito non fa il monaco; ma il buon gusto dice la persona… –
Com’era bello il valzer che sonavano in quel punto! come l’era rimasto in cuore tutta la notte! e come lo canticchiava poi a mezzavoce, cogli occhi gonfi di lagrime deliziose, cucendo nel cortiletto oscuro! Sul pilastrino del pozzo i garofani, che allungavano dal vaso slabbrato gli steli tisici, s’agitavano lieve lieve al sole, e parevano rinascere. Che pace ora con se stessa, quando si guardava nello specchio! che dolcezza in certi toni della sua voce! che soavità nel raggio della luna che baciava, in alto, il muro dirimpetto! e nell’oro del tramonto che scappava dal comignolo del tetto, e scintillava sui vetri di quella finestra dove si vedeva alle volte un fanciulletto biondo in una scranna a bracciuoli, immobile per delle ore! Vivere, vivere, anche in quel cortiletto triste, fra quelle quattro mura che avevano una melanconia intima e quasi affettuosa, nelle umili occupazioni divenute care, con quell’altro mondo fantastico che le aprivano i libri, sotto la carezza di quella voce fraterna, amorevole e protettrice; e in fondo al cuore poi come un punto luminoso, come una fibra delicata che trasaliva al menomo tocco, come una gran gioia che aveva bisogno di nascondersi e le balzava alla gola ogni momento, come una fede, come una tenerezza nuova per ogni cosa e ogni persona nota – e l’attesa di quella domenica, di quel ballonzolo periodico in mezzo alla polvere e al puzzo di petrolio, dove sapeva di rivedere colui che da otto giorni aveva preso tanta parte nel suo cuore e nella sua vita!
Stavolta le venne incontro appena la vide, con una stretta di mano che riannodava a un tratto la loro intimità spirituale, e le si mise al fianco, dietro la tenda all’uncinetto, colla destra nello sparato della sottoveste, parlandole sempre di sé, delle sue inclinazioni, dei suoi gusti, delle sue ammirazioni, che erano poche e calde, della sua ambizione, che toccava il cielo. Di tratto in tratto, quando gli pareva che la ragazza chinasse il capo stanco sotto tutto quell’io implacabile, le accoccava un complimento, come un cocchiere fa schioccare la frusta nelle salite. La giovinetta però chinava il capo per la commozione, col cuore tutto aperto a quelle confidenze che cercavano avidamente la simpatia di lei. Egli pure, trascinato dalla sua foga, eccitato dalle sue frasi medesime, si abbandonava, cominciava a sbottonarsi, a scendere fino ai suoi piccoli guai: suo padre che lo contrariava nelle sue inclinazioni, nelle tendenze più spiccate del suo ingegno… Nei due anni d’Università non aveva imparato nulla. Aveva scritto soltanto dei versi sulle panche della cattedra di Diritto Civile.
– Un vero parricidio! – osservò Carolina sorridendo.
Egli per la prima volta la baciò con un’occhiata d’ineffabile tenerezza.
– Carolina! Carolina! – chiamava il fratello. E sottovoce le disse all’orecchio: – Bada che tutti ti guardano; sei sempre con colui. Chi è? –
Qua e là, dietro i ventagli, e nei crocchi delle ragazze, balenavano infatti dei sorrisi mal dissimulati. Ma Carolina, fiera, lo presentò al fratello:
– Il signor Angelo Monaco, distinto poeta, l’autore di Amore e morte!
– So che anche il signore è un chiaro cultore delle lettere! – disse il Monaco tendendogli la mano regalmente.
Il romanziere aveva «sollecitato l’onore» di leggere il manoscritto del suo romanzo in casa del maestro «per averne un giudizio illuminato e sincero». Una sera, dopo la scuola, lo installarono dinanzi al tavol’inetto dal tappetino ricamato, con due candele accese dinanzi, come un giocatore di bussolotti, don Peppino col capo fra le mani, tutto raccolto nel disegno di appioppargli alla sua volta la lettura dei propri versi, che si sentiva rifiorire in petto gelosi a quell’avvenimento; la sorella digià commossa dalla solennità dei preparativi, la porta chiusa, le seggiole dei ragazzi schierate in fila, come per una folla di ascoltatori invisibili.
Il manoscritto era voluminoso, circa mezza risma di carta a mano, raccolta in una custodia di marocchino col titolo in oro sul dorso, e legata con nastri tricolori. L’autore leggeva con convinzione, sottolineando ogni parola col gesto, colla voce, con certe occhiate che andavano a ricercare l’ammirazione in volto alla Carolina, pallidissima, e al fratello di lei, impenetrabile dietro il palmo delle mani; si animava alle sue frasi istesse come un bàrbero allo scrosciare delle vesciche che porta attaccate alla coda; senza un minuto di stanchezza, quasi senza bisogno di voltar pagina. Le pagine volavano, volavano, con un fruscìo quasi di foglie secche d’autunno, nel gran silenzio della notte. Tutti i rumori della via erano cessati uno dopo l’altro. La luna alta si affacciava al finestrino.
C’era un punto in cui il protagonista del romanzo, disperato, forzava la consegna di uno stuolo di domestici in gran livrea, schierati in anticamera, e andava a bere la morte nell’alcova della sua bella appena tornata dal ballo, ancora in una nuvola di merletti e di pizzi. Egli la bollava con parole di fuoco, voleva offrirle, dea implacabile, l’olocausto del suo sangue, dei suoi sensi, del suo amore immensurabile, lì ai piedi dell’altare istesso, su quel tappeto di Persia, dinanzi a quel letto immacolato. E all’occhiata trionfante che faceva punto, l’autore vide con gioia crudele la sua ascoltatrice che piangeva cheta cheta, colla mano dinanzi agli occhi.
Ei le prese quella mano, e se la tenne sulle labbra a lungo per godere del suo trionfo.
– Perdonatemi! – mormorò poscia.
Ella scosse il capo dolcemente, e rispose con un filo di voce:
– No. Sono tanto felice! –
La luna dal finestrino baciava la parete dirimpetto, tacita. Al silenzio improvviso il maestro si destò.
Angelo Monaco prese a frequentare la casa del maestro, attratto dalla simpatia che vi trovava, lusingato da quell’ammirazione fervida, da quell’amore timido e profondo di cui la sua vanità era riconoscente in modo da simulare alle volte un ricambio dello stesso sentimento.
Carolina aspettava, felice, tutta piena di una vita nuova in mezzo alle solite modeste occupazioni, sorpresa da batticuori improvvisi, da dolcezze inesplicabili, per un nulla, per taluni avvenimenti consueti che prima non le avevano detto cosa alcuna, beandosi di uno sguardo, di un sorriso, di una parola, di una stretta di mano di lui, trepidante all’ora in cui egli soleva venire, commossa da una tenerezza ineffabile quando vedeva il raggio della luna sul finestrino, ogni quintadecima, al sentire la campana dell’avemaria, l’organetto che passava, la voce del fratello che pronunziava il suo nome, turbata solo da un imbarazzo insolito e da una nuova tenerezza per lui. Anch’egli le sembrava cambiato. Da qualche tempo la trattava con una dolcezza affettuosa e quasi triste, con un riserbo discreto e pietoso. Un giorno finalmente, al momento di uscire insieme ai ragazzi, col cappelluccio in testa e la mazzettina in mano, la chiamò in disparte, dietro la cortina rossa:
– … Sai, Carolina… Sta per ammogliarsi… No! senti! Coraggio, coraggio!… Guarda che io ho lì i ragazzi… Perdonami se ti ho fatto dispiacere!… Toccava a me a dirtelo… Sono tuo fratello, il tuo Peppino!… –
Ella uscì nello stanzone, barcollante, come si sentisse soffocare, e balbettò dopo un momento:
– Come lo sai? Chi te l’ha detto?
– Masino, quel ragazzo, il figlio del caffettiere. Oggi, come l’incontrammo per caso, e vide che lo salutavo, mi ha detto che sposa sua sorella.
– Vai, vai, – disse la poveretta respingendolo colle mani tremanti. – I ragazzi aspettano -.
E fu tutto. Ella non aggiunse una parola, non gli mosse un lamento. L’ultima volta che la vide, Angelo la trovò così afflitta, così chiusa nel suo dolore, che ne indovinò il motivo. Sull’uscio del cortiletto, cogli occhi rivolti a quello spicchio di cielo e una lagrima vera negli occhi, egli le disse addio, commosso dall’accento suo stesso. Il giorno dopo le scrisse una lettera tutta fremente da un rigo all’altro d’amore e di disperazione, la prima in cui le parlasse d’amore, per dirle che il suo era fatale e doveva immolarlo sull’altare dell’obbedienza filiale. «Siate felice! siate felice! lontana o vicina, in vita e in morte!…» Fu la sola «missiva» d’amore che ella ricevesse, e la custodì gelosamente fra i fiori secchi ch’ei le aveva donati, e i nastri scolorati che portava il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.
Poi, stanca, aveva riversato sul fratello le sue illusioni giovanili, rifacendo per lui i castelli in aria in cui s’erano passati i sogni ardenti della sua vita claustrale, subendo, sotto altra forma, le stesse calde allucinazioni che le erano rimaste di tante bizzarre letture, nelle quali si era consunta la sua giovinezza, dietro il tramezzo della scuola, com’era morto il geranio che aveva agonizzato dieci anni nel cortiletto senza sole. Una volta era stata una rosa che essa aveva sorpreso nel portapenne della scrivania, e s’era sfogliata senza che lei osasse toccarla, lasciandole un grande sconforto a misura che le foglioline si sperdevano nella polvere. Un’altra volta un bigliettino profumato, visto alla sfuggita sul tappetino della scrivania, scomparso subito misteriosamente, che l’aveva fatta almanaccare un mese, turbandola anche, mentre stava chiuso nel cassetto, col suo odore sottile, finché le era caduto un’altra volta sotto gli occhi, fra le cartacce inutili da buttare via nel cortiletto – la stessa corona dorata in cima al foglio profumato, lo stesso carattere elegante con cui un ragazzo si faceva scusare dalla mamma non so quale mancanza.
Un giorno infine il romanzo sembrò disegnarsi, al giungere di una superba bionda che era venuta a prendere un ragazzetto pallido in una carrozza signorile, riempiendo tutta la scuola del fruscìo della sua veste, del profumo del suo fazzoletto, del suono armonioso della sua voce fresca e ridente come un raggio di sole che avesse abbarbagliato maestro e discepoli. La povera zitellona per molti giorni ancora, alla stessa ora, aveva aspettata la bella seduttrice, nascosta dietro la tenda del tramezzo, col cuore che le batteva forte, sconvolta sino alle viscere e come violentata da un delizioso segreto, da un turbamento strano, in cui si mescevano una tenerezza nuova pel fratello, un senso di vaga gelosia, e una contentezza, un orgoglio segreto.
Erano reticenze discrete, silenzi pudichi, imbarazzi scambievoli, per un cenno, per una parola, per un’allusione lontana che cadesse nel discorso, mentre sedevano a tavola, l’uno di qua e l’altra di là di un lembo del tappetino ripiegato, mentre rifacevano tutti i giorni la stessa conversazione vuota e insignificante del giorno innanzi, ripetendo le stesse frasi monotone che compendiavano la loro esistenza scolorita ed uniforme, a voce bassa, con una certa timidezza vergognosa.
Egli chinava il capo arrossendo, come sorpreso sul fatto; e giurava di no, facendo una scrollatina di spalle, gongolando dentro di sé, con un sorrisetto di vanagloria che gli tremolava sulle labbra.
Alle volte, in un’effusione improvvisa di tenerezza riconoscente, le posava la destra sul capo, con quello stesso sorrisetto discreto che pareva dicesse:
– Stai tranquilla, scioccherella! –
Però, nella rettitudine istintiva della sua coscienza, la zitellona sentiva nascere una ripugnanza, un’inquietudine dolorosa per tutto ciò che doveva esserci di losco e di pericoloso in quel romanzo clandestino. Allora correva a buttarsi ai piedi del confessore, nel nuovo fervore religioso in cui si era rifugiata quando aveva provato il più gran dolore della sua giovinezza, lo sconforto e l’abbandono d’ogni lusinga terrena, e domandava perdono per la dolce colpa che lei non aveva commesso, faceva la penitenza del peccato immaginario che era nella sua casa.
E calda ancora di quel fervore vi attingeva il coraggio per esortare il fratello a rientrare nel retto sentiero con delle allusioni velate, delle insinuazioni discrete, un’effusione di tenerezza timida e quasi materna.
– Peppino! – gli disse infine, – dovresti darmi una gran consolazione. Dovresti risolverti a prender moglie -.
Egli rizzò il capo, sorpreso prima, e poscia lusingato dalla proposta che gli toglieva vent’anni d’addosso, obbiettando col medesimo ingenuo entusiasmo della sua prima giovinezza che «il matrimonio è la tomba dell’amore» per farsi pregare ancora.
– Dammi retta, Peppino!… Poi quando non sarai più in tempo te ne pentirai!… –
Egli si ostinava a scrollare il capo, lusingato internamente di poter rifiutare per la prima volta; senza notare l’espressione dolorosa che c’era nell’accento della povera zitellona.
– No, non mi lascio pescare. Stai tranquilla. Amo troppo la mia libertà! –
Ella provava un senso strano di simpatia, di commiserazione, e di rancore per quel fanciulletto esile e pallido che la dama bionda era venuta a cercare, e che supponeva fosse il complice innocente della loro tresca. Lo covava cogli occhi da lontano, nascosta dietro la tenda, quasi egli portasse alla scuola, nei sereni lineamenti infantili, un riflesso delle seduzioni tentatrici della mamma, inquieta se lo scolaretto mancava qualche volta, almanaccando tutto un romanzo domestico dai menomi atti del ragazzo inconsapevole. Se lo chiamava vicino, quando poteva farlo da solo a solo, lo accarezzava, lo interrogava, gli faceva qualche regaluccio insignificante, attratta e ripugnante nello stesso tempo della sua grazia infantile. Un giorno il fanciulletto, tutto contento, le disse:
– Dopo le vacanze non vengo più a scuola -.
Ella gli chiese il perché, balbettando.
– La mamma dice che ora son grande. Andrò in collegio -.
Così terminò anche quel romanzo. Ella ne sentì prima un gran sollievo; ma nello stesso tempo un dubbio, uno sconforto amaro, vedendo dileguarsi anche le ultime illusioni, che aveva collocate sul fratello.
Il male che la rodeva da anni e anni la inchiodò infine nel letto. Il povero maestro non ebbe più un’ora di pace: sempre in faccende anche nei brevi istanti che la scuola gli lasciava liberi, scopando, accendendo il fuoco, rifacendo i letti, correndo dal medico e dallo speziale, coi baffi stinti, le scarpe infangate, il viso più incartapecorito ancora. Le vicine, mosse a compassione, venivano a dare una mano: ora l’una ed ora l’altra: donna Mena, la vedova del merciaio, con tutti gli ori addosso, come se andasse a nozze; e l’Agatina del falegname, lesta di mano e sempre allegra, che riempiva della sua gaia giovinezza la povera casa triste; talché il vecchio scapolo era tutto scombussolato da quelle gonnelle che gli si aggiravano per casa, tentato, anche in mezzo alle sue angustie, quasi da un ritorno di giovinezza, da sottili punture nel sangue e al cuore, che gli cocevano come un rimorso, nelle ore nere.
– Meglio, meglio. Ha riposato -.
Il poveraccio, al trovare quella buona notizia sulla soglia, le afferrò la mano tremante e la baciò.
– Oh, donna Mena. Che consolazione! –
Essa gli fece segno di tacere e lo condusse in punta di piedi a veder l’inferma, che riposava con una gran dolcezza sul viso, già l’ambito da ombre funebri. E come se la dolcezza di quell’istante di tregua gli si fosse comunicata, affranto dall’angoscia che aveva trascinato insieme ai suoi ragazzi da un capo all’altro della città, egli cadde a sedere sulla seggiola dietro la cortina, senza lasciare la mano di donna Mena, che la svincolò adagio adagio. La stanza era già oscura, con un senso di intimità misterioso e triste.
Ad un tratto la sorella svegliandosi lo chiamò, indovinando ch’era lì, e per la prima volta egli accendendo il lume si trovò imbarazzato dinanzi a lei insieme a un’altra donna.
Era stata una crisi terribile: la prima lotta colla morte che già abbrancava la preda. L’inferma, tornata in sé, guardava il lume, le pareti, il viso del fratello con certi occhi attoniti in cui durava ancora la visione di terrori arcani, e lo accarezzava col sorriso, col soffio della voce, colla mano tremante, in un ritorno di tenerezza ineffabile, che si attaccava a lui come alla vita.
E allorché furono soli, gli disse pure con quell’accento e quello sguardo singolari:
– No quella!… Quella no, Peppino! –
Verso l’agosto sembrò che cominciasse a stare alquanto meglio. Il sole giungeva fino al letto, dall’uscio del cortile, e la sera entravano a far compagnia tutti i rumori del vicinato, il chiacchierìo delle comari, lo stridere delle carrucole, nei pozzi tutto intorno, la canzone nuova che passava, l’accordo della chitarra con cui il barbiere dirimpetto ingannava l’attesa. La ragazza del falegname entrava con un fiore nei capelli, con un sorriso allegro che portava la gioventù e la salute.
– No, no, non ve ne andate ancora! Vedete il bene che fa a quella poveretta soltanto a vedervi!
– Si fa tardi, signor maestro. E’ un’ora che son qui.
– No, non è tardi. A casa vostra lo sanno che siete qui. Piuttosto dite che vi aspettano le compagne, lì sull’uscio.
– No, no.
– O l’innamorato, eh? Sarà l’ora in cui suole passare col sigaro in bocca…
– Oh… che dite mai, vossignoria!…
– Sì, sì, una bella ragazza come siete… è naturale. Chi non si innamorerebbe, al vedere quegli occhi… e quel sorriso… e quel visetto furbo.
– Ma cosa gli salta in mente adesso?… –
E un giorno s’arrischiò anche a dirle, nel vano dell’uscio tutto illuminato dalla luna:
– Ah! foss’io quel tale!
– Lei, signor maestro!… Che dice mai! –
L’emozione lo prendeva alla gola, mentre la ragazza, per rispetto, non osava ritirare la mano che le aveva afferrata. E traboccarono frasi sconnesse: L’amore che eguaglia: la poesia ch’è profumo dell’anima: i tesori d’affetto che si cristallizzano nelle anime timide: la divina voluttà di cercare il pensiero e il volto dell’amata nel raggio della luna, a un’ora data. – La ragazza lo guardava quasi impaurita, con grand’occhi spalancati, e tutta bianca nel raggio della luna.
– Non dimenticherò mai quest’ora che mi avete concesso, Agata! Né questo nome! mai! Divisi, lontani… ma ricorderemo… entrambi…
– Mi lasci andare, mi lasci andare. Buona sera -.
L’inferma, appoggiata a un mucchio di guanciali, chiacchierava sottovoce col fratello, seduto accanto al letto, ancora col cappello in testa e la mazzettina fra le gambe. Pareva che avesse a dirgli una cosa importante, dai silenzi improvvisi che le soffocavano la parola in gola, dalle occhiate lunghe che posava su lui, dai rossori fugaci che passavano sul pallore del viso disfatto. Infine, chinando il capo, gli disse:
– Perché non ci pensi ad accasarti?
– No, no! – rispose lui, scrollando il capo.
– Sì, ora che sei in tempo… Devi pensarci finché sei giovane… Poi, quando sarai vecchio… e solo… come farai? –
Il fratello, sentendosi vincere dalle lagrime, conchiuse, per tagliar corto:
– Non è tempo di parlarne adesso! –
Però essa ritornava spesso sullo stesso argomento.
– Se trovassi una bella giovinetta, ricca, istruita, di buona famiglia, che facesse per te… –
E una sera che si sentiva peggio torno a parlargliene ancora, coll’inquieto cicaleccio proprio del suo stato.
– No, lasciami dire, ora che ho un po’ di fiato. Non posso permettere che ti sacrifichi per tenermi compagnia… tutta la tua giovinezza… Una buona dote non può mancarti. E se lasci la scuola, tanto meglio. Vivremo tutti insieme; faremo una casa sola. Uno stanzino mi basterà, purché sia molto arioso. Vorrei che fosse verso il giardino. Della strada non so che farmene, oramai… Ho sempre desiderato di vedere il cielo, stando in letto… e del verde, degli alberi… come, per esempio, averci una finestra là dove c’è ora la cortina, una finestra che guardasse nei campi… –
Si udiva la pioggia che scrosciava nel cortiletto, una di quelle piogge che annunziano l’autunno, e la pentola di latta, lasciata fuori, che risonava sotto la grondaia. Un gatto, nella bufera, chiamava ai quattro venti, con voce umana.
Il maestro, che aveva seguìto il vaneggiare della sorella verso il verde ed il sole, coll’allucinazione perenne che era in lui, le chiese affettuosamente:
– Ora che viene l’autunno saresti contenta d’andare in campagna?
– E la scuola? – ribatté lei con un sorriso malinconico. – Se tu pigliassi una buona dote invece… con dei poderi…
– Benedette donne! quando si ficcano un chiodo in testa!… – rispose lui con un sorrisetto malizioso.
E pareva esitare a decidersi. Ma dopo averci pensato su, finì col dire:
– Non mi vendo, no! –
E abbottonò il soprabito con dignità.
– Se ho da fare una scelta… Se mai… E’ inutile! – conchiuse finalmente. – Amo troppo la mia libertà! -.
Ella insisteva a dire che queste cose si fanno finché uno è giovane, che se no si finisce in mano della serva o di qualche intrigante.
Poi, siccome il fratello non voleva arrendersi, la zitellona si lasciò scappare in un impeto di gelosia, alludendo alle vicine:
– Vedi che già ti si ficcano in casa, e cominciano a fare dei disegni su di te? –
E la poveretta morì col crepacuore di lasciare il fratello esposto alle insidie di quelle intriganti.
Com’ella aveva fatto un gran vuoto in quel bugigattolo, per quanto poco spazio vi avesse occupato in vita, e il fratello vi si sentiva come perduto in una gran solitudine, in una gran desolazione, nelle ore che i ragazzi gli lasciavano libere, prese ad andare dal falegname, tutte le sere, attratto da una gratitudine dolce e malinconica verso la ragazzona che aveva avuta tanta carità per la sua povera morta. Ma il falegname, che certe cose non le intendeva, gli fece capire che in bottega del maestro di scuola non sapeva che farsene, e gli facesse invece il piacere di levarsi di quei trucioli.
Anche donna Mena, qualche tempo dopo, quando vide che le visite del maestro si facevano troppo frequenti, col pretesto dell’Aloardino, e non finiva mai di ringraziarla dell’assistenza che aveva fatta alla sua povera sorella, per stringerle la mano e farle gli occhi di triglia, gli disse sul mostaccio:
– Orsù, signor maestro, facciamo a parlarci chiaro, ché il vicinato comincia a mormorare dei fatti nostri -.
Il poveraccio, colto alla sprovvista, si confuse. Ma infine prese il suo coraggio a due mani:
– Or bene, donna Mena! Anche quella poveretta l’aveva previsto. Non ho voluto decidermi mai a fare questo passo, perché amavo troppo la mia libertà… Ma ora che vi ho conosciuta meglio… se volete…
– Eh, non li avevate fatti male i vostri conti, caro mio, poiché siete stanco d’andare attorno coi ragazzi! Ma il fatto mio ce lo siamo lavorato io e la buon’anima di mio marito… E non per farcelo mangiare a tradimento -.
Ogni giorno, mattina e sera, tornava a passare il maestro dei ragazzi, con un fanciulletto restìo per mano, gli altri sbandati dietro, il cappelluccio stinto sull’orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti color caffè, la faccia rimminchionita di uno ch’è invecchiato insegnando il b-a-ba, e cercando sempre l’innamorata, col naso in aria.
Soltanto, tornando a casa serrava a chiave l’uscio, per scopare la scuola, rifare il letto, e tutte le altre piccole faccenduole per le quali non aveva più nessuno che l’aiutasse. La mattina, prima di giorno, accendeva il fuoco, si lustrava le scarpe, spazzolava il vestito, sempre quello, e andava a bere il caffè nel cortiletto, seduto sulla sponda del pozzo, tutto solo e malinconico, col bavero del pastrano sino alle orecchie. Ed ora che la povera morta non ne aveva più bisogno, risparmiava anche quei due soldi di latte.