Inno a Venere
27 Gennaio 2019Ad Angelo Mai
27 Gennaio 2019di Carlo Zacco
In primo luogo va chiarito quali sono i problemi aperti ancora in discussione. E ancora aperta una discussione sulla datazione, la destinazione e il riferimento alle fonti cui Machiavelli avrebbe attinto, o meglio di che cosa sia costituita e con quale profondità la cultura di Machiavelli.
Datazione e destinazione dell’opera
Lettera al Vettori. Per quello che riguarda la datazione del principe e il problema della destinazione sono tra loro collegati. Con problema della destinazione mi riferisco evidentemente a ciò che riguarda il dedicatario; per quello che riguarda il problema della datazione noi abbiano naturalmente due estremi essenziali: abbiamo la famosissima Lettera al Vettori, del 10 Dicembre del 1513 in cui Machiavelli comincia a spiegare al lettore come egli abbia composto un opuscolo De Principatibus (titolo originario), e gli aveva anche spiegato quali ne erano state le matrici e aveva spiegato che cosa cera in questo suo opuscolo.
L’oggetto dell’opuscolo. Ecco, qual era il soggetto di questo suo opuscolo? Allora: «disputando che cosa è principato, di quali spezie sono, come e si acquistano, come e si mantengono, perché e si perdono». Ecco, qui il lettore del Principe ha una prima sorpresa: che cosa è il Principato: nel principe non c’è nessuna disputazione e trattazione di che cosa sia il Principato. Invece il Principe comincia trattando di quali spezie sono.
Discrepanze. Quindi su questo punto c’è sicuramente una discrepanza. Inoltre la lettera ci tratta quella che è la materia che copre, nelle indicazioni date, i capitoli fino all’XI. Machiavelli però ci dice che stava andando avanti a scrivere, perché spiega che «tuttavolta» cioè continuamente «io l’ingrasso e ripulisco». Allora, se il ripulire ha a che vedere con una dimensione di carattere formale, l’ingrassare è evidentemente un ampliamento, un arricchimento.
La dedica a Giuliano. Era rimasto in sospeso per un certo tempo l’andare o il non andare a Roma, intendeva Machiavelli il presentarlo a Giuliano, darlo in dono a Giuliano. Presumibilmente questo ampliamento possiamo anche supporlo avvenuto in quei mesi.
Disgrazia politica. Vi ricordo che Machiavelli era uscito dal carcere nel Marzo del 1513 per l’amnistia seguita alla nomina a papa di Giovanni de Medici (che era figlio di Lorenzo il Magnifico) con il nome di Leone X. Machiavelli era rimasto per un certo tempo confinato nella sua tenuta all’Albergaccio, ma in ogni caso si trovava in una situazione di disgrazia politica. Questa sua azione di darla a Giuliano significava riprendere i rapporti con i Medici. Ricordiamoci che Giuliano, era figlio minore di Lorenzo de Medici, aveva avuto indubbiamente dei rapporti di carattere personale in anni precedenti a Firenze (ne abbiamo ampie tracce: sonetti indirizzati a Giuliano).
Il progetto per Giuliano. In questo senso il darlo a Giuliano avrebbe avuto il carattere di un rapporto personale ma d’altra parte anche si ancorava a quelle che erano le voci che circolavano circa il compito che Leone X avrebbe attribuito a Giuliano: si diceva che si stava preparando da parte del Papa, il progetto di formare uno stato che sarebbe stato affidato, come Principe, a Giuliano stesso. Questo progetto sembrò concretizzarsi maggiormente proprio nel 1515, dove appunto a Giuliano si sarebbe potuto dare uno stato formato da Parma, Piacenza, Modena e Reggio. E di questo ci parla Machiavelli in una lettera del 1515. Dato che come consigliere, vicino e amico ha Giuliano ci stava il fratello del Vettori, Paolo Vettori, di cui Machiavelli era più amico di quanto non fosse con Francesco (potremmo dire che a sua volta Paolo era più amico di Machiavelli di quanto lo fosse stato Francesco) allora: Machiavelli pensava in tutto ciò di averne qualche parte. Questa sono alcune delle tracce che noi abbiamo.
Noi non abbiamo però nessuna dedicatoria a Giuliano, nella tradizione manoscritta, dove non ci sono rimasti autografi Machiavelliani per altro, non abbiamo nessuna dedica a Giuliano. Ora, se Machiavelli veramente aveva progettato di andare a Roma a presentare l’opera a Giuliano la dedicatoria doveva averla fatta.
La dedica a Lorenzo. Non sappiamo però fino a quel punto quel progetto, fallito, nel 1514 fosse andato in porto. Noi abbiamo soltanto la dedicatoria a Lorenzo, che era nipote sia del Papa che di Giuliano. Lorenzo il giovane: figlio di Piero de medici. Allora, abbiamo soltanto la dedicatoria a Lorenzo il giovane, la quale ci pone di fronte ad una situazione particolare, perché: qual è la situazione di Lorenzo in relazione al potere medìceo? Se noi pensiamo, come per esempio suppone Giorgio Inglese che è l’editore critico, di un edizione critica importante del Principe, che il Principe sia stato composto entro i primi mesi del 1515, la destinazione a Lorenzo sarebbe una destinazione fiorentina, perché Lorenzo era la figura della famiglia medici che esercitava, per conto dello zio Leone X il potere medìceo in Firenze. Lo si può definire un Principe a pieno titolo? Non si sa.
D’altra parte il nostro Lorenzo diventa principe a pieno titolo nel momento in cui conquista (e poi perde) il ducato di Urbino: questa conquista avviene nel ottobre 1516. O meglio, nell’ottobre 1516 è investito da parte del Papa del ducato di Urbino.
Il titolo. Allora che cosa succede? Se fosse stato dedicato a lui, in occasione di questa investitura noi ci troveremmo di fronte ad una dedica abbastanza singolare: singolare perché non c’è il titolo del ducato di Urbino. Dunque non poteva essere già stato di Urbino perché è difficile pensare che Machiavelli potesse avere una distrazione così totale nel momento in cui dedicava un opera nel non mettere il titolo relativo al dedicatario.
Aggiungo qualche altro particolare. Allora, teniamo presente che Giuliano de Medici era morto a sua volta nel Marzo del ’16, allora certamente se l’idea di dedicare a lui il Principe era andata oltre al 15 e la scrittura anche, non oltre la data della morte di Giuliano nel ’16. E se teniamo anche presente come ultimo termine che Lorenzo morì a sua volta nel 1519.
Allora, ovviamente se noi dobbiamo guardare ai termini certi dobbiamo stare tra il 1513 e il 1519, perché sono i termini certi: 1513: lettera del Vettori; 1519: morte del dedicatario; e qui non ci sono dubbi. Se però guardiamo sia ai dati relativi al carteggio tra Machiavelli e Francesco Vettori, sia ai fatti storici evocati all’interno del Principe, sia a questi discorsi relativi ai titoli del dedicatario, allora diciamo che l’ipotesi che, anche secondo me, rimane la più persuasiva, è che l’opera sia stata compiuta e dedicata effettivamente entro il 1515. Questa è l’ipotesi che anche a me sembra la più probante, o quanto meno prima dell’investitura a Lorenzo. Ci sono anche alcuni altri argomenti interni su cui si potrebbe discutere ma che discuteremmo solo se analizzassimo partitamente l’opera stessa.
La dedica. Machiavelli ha cambiato solo il nome del dedicatario? Questa è un’altra delle ipotesi. Oppure è stata scritta apposta per Lorenzo? Questi sono altri problemi che si pongono in collegamento a questo.
Le fonti
Per quello che riguarda i materiali di cui è composta l’opera. Anche negli ultimi anni si è riaperta una polemica fra gli studiosi di Machiavelli in relazione a quella che è la cultura di Machiavelli. Allora, non stiamo a rievocare quelli che sono termini di questa discussione ma vi metto in evidenza quella che è la mia opinione in merito.
Formazione non umanistica. Allora, certamente Machiavelli non ebbe una formazione umanistica nel senso proprio del termine: Machiavelli non è cioè in nessun modo paragonabile sotto questo profilo, mettiamo, ad una figura eminente della Firenze quattrocentesca tipo Poliziano. Assolutamente non ci sono rapporti tra un Poliziano grande umanista, grande filologo, ben conoscitore del Greco, e scrittore a sua volta in greco, latino e volgare, e certamente la preparazione di Machiavelli che non è sotto questo profilo, un umanista per definizione.
Conoscenze classiche. Però Machiavelli mostra un interesse e una conoscenza per quello che riguarda gli studi dei classici, soprattutto per quello che riguarda gli storici, e non solo, molto chiara. Mi limito a far riferimento alla formazione di cui ci ha parlato il padre per cui Niccolò sarebbe stato avviato fin da piccolo agli studi del latino; al fatto che il padre fosse uomo di buona cultura in relazione con gli ambienti ficiniani; e tra l’altro proprio quel testo di Livio tanto caro a Machiavelli era nella casa paterna già fin dal 1475. Machiavelli, ci risulta perché abbiamo un autografo in questo senso, aver trascritto il de rerum natura di Lucrezio, e dunque un opera certamente non scontata, molto significativa dal punto di vista letterario filosofico, che indica un interesse specifico.
? Il teatro. Inoltre Machiavelli è un buon conoscitore del teatro latino: basta pensare che tradusse, anche se non è un’ottima traduzione ma è una traduzione che funziona dal punto di vista teatrale, l’Andria di Terenzio: e Machiavelli qui mostra di essersi molto ben impadronito dei meccanismi della commedia la cui struttura, nella nuova commedia in volgare è esemplata su quella della Mandragola: basta pensare alla Mandragola per non dover aggiungere altro.
? Le Vitae di Plutarco. Aggiungo anche che Machiavelli, secondo una lettera del Buonaccorsi, quando era nei primi del 500 impegnato in una delle sue missioni presso il Valentino, aveva fatto dannare Buonaccorsi perché voleva a tutti i costi avere le vitae di Plutarco. Aveva bisogno naturalmente di una traduzione in latino, perché non conosceva il greco: ma anche questo è molto indicativo: il fatto di voler avere tra le mani un testo di questo genere dà uno spunto a quanto Machiavelli dice.
? Orti Oricellari. Nei suoi stessi testi emergono aspetti che sottolineano una conoscenza da parte di Machiavelli di più testi. Senza esagerare naturalmente, perché qualcuno ha voluto vedere Machiavelli come conoscitore di troppe cose: molte cose Machiavelli può anche averle acquisite da discussioni e colloqui certamente, soprattutto negli orti Oricellari, quando cominciò a frequentare quegli ambienti attorno a 1516 in Firenze: gruppi di dotti che si riunivano nei giardini di casa Ruccellai, pure Machiavelli a mio avviso doveva avere delle conoscenze tutt’altro che disprezzabili, e significative.
? Le vesti curiali. Lo stesso Machiavelli nella famosa lettera al Vettori ci dice che deposte le vesti di fango e di loto indossa i panni curiali degli antichi uomini eccetera.. ecco questo non è una cosa casuale su cui si possa passare oltre.
Uso delle fonti. Detto questo certamente Machiavelli si serve delle fonti con una estrema libertà. Machiavelli non solo non è un filologo, ma diciamo che l’accertamento dei fatti nel senso dell’esattezza dello svolgimento di questi e nel senso della congruità del testo di riferimento, cioè se sia una buona fonte quella che ha in mano, di fatto interessa poco: a lui interessa trarre una lezione e seguire quelle che sono le ragioni interne del proprio pensiero. Per cui sotto questo profilo troviamo in Machiavelli, anche per quanto riguarda la storia contemporanea, la possibilità di usare le fonti, e lo fece, anche razionalizzando il corso degli eventi, modificandolo anche in alcuni particolari, interpretandolo secondo la logica interna del suo pensiero. Le citazioni che Machiavelli fa sono fatte in larga misura a memoria. E in larga misura noi troviamo, anche sotto questo profilo, una serie di imprecisioni, di non corrispondenze (nei discorsi ne sono state trovate molte) anche laddove cita il testo latino.
Il Principe
Ecco questi sono gli estremi del preliminare del discorso. Che cosa c’è di fortemente innovativo nel Principe? C’è innanzitutto il metodo di cui si avvale Machiavelli e la struttura del suo trattato. E quanto sia innovativa la sua opera risulta evidente fino dalla dedicatoria: il modo stesso in cui è scritta la dedicatoria, anche se ci sono certamente dei tratti che abbiamo trovato in altre dedicatorie, ce lo dice con chiarezza.
La dedicatoria
L’io dell’autore. Qui noi abbiamo la figura del Machiavelli scrittore che si accampa in primissimo piano con una ripetizione quasi martellante del pronome di prima persona e dell’aggettivo possessivo di prima persona.
Una lunga serie di strutture oppositive
? Gli altri / Machiavelli. Come è composta questa dedicatoria? E’ basata su una serie di strutture oppositive, struttura oppositiva che ha inizio fin dall’exordium tra coloro che sono soliti fare doni ai principi, che sono coloro che desiderano acquistare grazia presso i principi, e il Machiavelli come il donatore nei confronti del Principe.
? Machiavelli / Principe. A questa opposizione fa riscontro quella che è l’opposizione maggiore tra il Machiavelli e il dedicatario: la posizione gerarchicamente subordinata del Machiavelli che con il suo dono dimostra la servitù, cioè di fatto quella che è la devozione, la dedizione nei confronti del principe, la sua condizione di uomo non solo privato, ma in una condizione bassa, di fortuna avversa, socialmente in disgrazia, e quella alta del potere del principe.
? Gradi opere / piccolo volume. Entrando nel merito poi di quello che riguarda la sua stessa opera, c’è una struttura oppositiva tra i grandissimi esempi, tra i grandissimi uomini, la condizione appunto degli uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose moderne ed una continua lezione delle antiche, lungamente pensate, e d’altra parte ridotte in un piccolo volume: dunque, l’importanza della materia, il modo in cui questa materia è divenuta carne viva e opera e la brevità con cui Machiavelli ha ridotto il suo libro.
? Tempo di scrittura / lettura. Cui fa da pendant d’altra parte il lungo tempo e anche la fatica e il pericolo corsi da Machiavelli e il brevissimo tempo che ha il principe per dono di Machiavelli di venire ad intendere quello che lui ha inteso in lunghi anni.
? La retorica degli altri / quella di Machiavelli. Opposizione che si pone anche nei confronti degli scrittori: non vuole ornare la sua opera di clausole ampie e di parole ampollose e magnifiche, non vuole usare adescamenti o latri ornamenti estrinseci come molti sogliono fare nelle loro opere.
I luoghi delle dedicatorie. Fino a questo punto, ma le strutture oppositive non finiscono qui, che cosa abbiamo visto in sintesi di questa lettera dedicatoria? L’articolazione retorica che è mossa a partire dall’exordium, che è appunto il paragone iniziale, per condurre poi la trattazione della materia, e in questo contesto si è inserito di fatto nell’opposizione tra la propria figura e il principe, il consueto topos modestiae, perché ovviamente si pone il problema se questa opera possa essere conforme alla dignità di tanto dedicatario e si pone anche in questo ambito, una captatio benevolentiae: la consueta captatio che si fa nei confronti del dedicatario. Dopo aver appunto definito quale è il suo stile, viene ad essere introdotta una ampia excusatio, cioè il Machiavelli vuole mettere in evidenza la legittimità, vuole giustificare l’aver lui scritto nella condizione bassa e popolare in cui si trova, questa sua opera, trattando lui del principe che si trova sopra tutti e una posizione preminente.
Legittimazione del suo insegnamento. Nel far questo introduce anche una dichiarazione di orgoglio nella definizione di quello che fa: nel momento in cui dice che non vuole che gli venga imputata presunzione l’aver appunto come uomo di basso e infimo stato, l’aver avuto l’ardimento di discorrere, cioè di passare in rassegna trattando, e di regolare, cioè di dare le regole, i governi dei principi. E perché fa questo?
? La cartografia. E qui introduce un’altra comparazione pure fondata in termini oppositivi: la comparazione che riguarda i cartografi. I cartografi, coloro che disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura dei monti e dei luoghi alti; per considerare quella dei luoghi bassi si pongono alti sopra i monti. Da cui la conclusione è organizzata con un doppio chiasmo: similmente a conoscere bene la natura dei popoli bisogna essere principe, e a conoscere bene quella dei principi conviene essere popolare. Come volevasi dimostrare. Dunque Machiavelli ben legittimamente può trattare nel suo basso e infimo stato di quello che riguarda il principe.
Peroratio finale. A questo punto si introduce la conclusione del discorso che retoricamente altro non può essere, perché di fatto è organizzata tutta questa dedicatoria, come spesso è organizzata la dedicatoria secondi i canoni retorici, proprio come una forma di orazione: dall’exordium, all’exortatio, alla peroratio finale. Si rivolge dunque al dedicatario perché accolga la sua opera. E anche qui c’è una struttura oppositiva: perché il dedicatario è in una situazione in cui la fortuna di fatto è con lui, mentre il Machiavelli si trova in una situazione in cui la fortuna lo ha colpito duramente, in una estrema situazione di sfortuna. Leggiamo la conclusione: «piglia dunque Vostra magnificenza, questo piccolo dono con quello animo che io vi mando malignità di fortuna».
Questi sono gli estremi di questa dedicatoria che si qualifica fortemente sia per quello che riguarda da un lato l’orchestrazione retorica: Machiavelli mostra bene di sapersi avvalere dell’organizzazione retorica del discorso per scrivere una dedicatoria che anche da un punto di vista letterario ha un significato rilevante, e d’altra parte mostra anche molto bene come sappia avvalersi dell’orchestrazione retorica per una messa in rilievo e in evidenza di punti nodali del suo discorso: se voi riesaminate passo passo la dedicatoria vedrete anche quanta forza logica dimostrativa ci sia ed anche gli stessi nessi: per esempio i parallelismi nella scansione del periodo o altri elementi di questo, hanno questa duplice funzione: da un lato di nobilitare retoricamente il discorso, dall’altro di mettere in evidenza il modo logico e chiaro i passaggi.
Il contenuto. Due cose ancora significative a mio avviso vanno aggiunte: Innanzitutto per quello che riguarda i fulcri di quello che Machiavelli dice: che cosa ci dice in relazione al contenuto? Il contenuto è relativo alla cognizione delle azioni degli uomini grandi. E come è fondata questa conoscenza delle azioni degli uomini grandi? E’ fondata su due pilastri essenziali: a) esperienza delle cose moderne; b) lezione delle cose antiche.
? le cose moderne. Machiavelli dell’esperienza delle cose moderne sa valersi pienamente: bisogna pensare a quello che c’è alle spalle del principe, a tutto quello che Machiavelli visse ed operò dal 1498 al 1512 quando con il ritorno dei medici a Firenze perse l’ufficio. E questa esperienza delle cose moderne, come attraverso l’esperienza delle cose moderne Machiavelli cominciò ad elaborare, anche teoricamente, il suo pensiero, è affrontato via via in più punti delle sue opere minori scritte precedentemente al principe quando era ancora in ufficio.
? le cose antiche. D’altra parte la continua lezione delle antiche non è meno importante per il Machiavelli: e ricordiamo che fin da quando Machiavelli operava nella cancelleria l’esempio dei Romani in particolare aveva un significato particolare e fondante.
? Camillo e la val di Chiana. Se qualcuno ha letto del modo di trattare i popoli della Val di Chiana, ricorderà che l’esempio per trattare appunto coloro che si erano ribellati è quello dei romani, del modo come il console Camillo aveva ritenuto di fare in relazione ad una ribellione fatta dai popoli latini. E c’è anche parte dell’orazione del console Camillo che viene ad essere adattata da Machiavelli perché funga da esempio per ciò che i fiorentini avrebbero dovuto fare e non hanno fatto.
Concezione naturalistica dell’uomo. In quel trattato scritto nel tempo della cancelleria, si fonda anche il criterio dellimitazione, della possibilità dellimitazione: allora si era espresso in un modo diciamo sbrigativo ma presente e fondante in tutte le opere Machiavelliane e cioè si fonda su una concezione naturalistica dell’uomo. Come non è mutata la natura delle cose, come il sole non è mutato, così anche la natura dell’uomo non è mutata. Così gli uomini contemporanei non hanno possibilità inferiori rispetto a quelle dei romani. Questo per quello che riguarda il significato in relazione all’argomento.
Naturalmente Machiavelli che cosa sottolinea? Anche il tempo che ci ha messo, l’elaborazione che implica la riflessione che gli è servita.
Lo stile. Per quello che riguarda lo stile: il Machiavelli ha spiegato che cosa non vuol fare , che cosa siano quelle clausole ampullose e magnifiche lo vedremo successivamente: basta aprire gli Asolani del Bembo e si capisce cosa sono! Qual è allora il criterio dello stile di Machiavelli? Aveva detto di aver voluto o che veruna cosa la onori o che «solamente la varietà della materia e al gravità de subietto la facci grata». Dunque uno stile aderente a quello che la materia è, uno stile aderente alle cose stesse. Questa dedicatoria è ovviamente rappresentativa di uno stile più retoricamente ricercato, come sappiamo lo stile del principe è proprio uno stile che punta ad una densità, alla brevità, che punta a porre così come il principe, sotto il pungolo della necessità, anche il lettore, sotto il pungolo del discorso dell’autore debba giungere alle conclusioni cui intende portarlo.
Il modello di Isocrate. Un ultima cosa per quello che riguarda l’impianto iniziale di questa dedicatoria. L’impianto iniziale probabilmente riflette un attenzione da parte del Machiavelli proprio ad uno dei testi che facevano parte della trattazione degli specula principum antichi, perché c’è anche una precettistica antica che può rientrare, e cioè si tratta in questo caso della orazione di Isocrate a Nicocle: anche qui siamo in un contesto che riguarda il potere «signorile» antico. Che cosa c’è che richiama? Proprio l’inizio: il fatto dei doni che altri portano – che cosa sono questi doni? Sono cavalli, cose preziose – e invece Isocrate a Nicocle, che è già ricco di per sé non dona queste cose ma dona il suo opuscolo, dona la sua orazione.
? la traduzione erasmiana. Sembra per certi aspetti dall’inizio stringente: anche qui altro elemento da considerare: come sappiamo Machiavelli non conosceva il greco, viene pubblica l’orazione a Nicocle nel testo greco nel 1513 con una traduzione eccellente in latino da parte di Erasmo da Rotterdam nel 1515.
La lingua. Che cosa altro osservare fin dall’inizio per collocare la scrittura di Machiavelli? E’ una scrittura attenta dal punto di vista lessicale anche sul piano della tecnificazione, come è stato detto, immaginosa nei paragoni fatti, nelle metafore usate (una famosa quella del centauro). Dal punto di vista linguistico-morfologico Machiavelli adotta la variante linguistica del Fiorentino di Città. Quindi non ci sono cure morfologiche particolari per cui ci sono tratti di fatto usati in modo non da distinguere per esempio il participio passato del verbo essere può essere tanto stato quanto, nella sua forma più arcaica, suto. Per quello che riguarda questa dedicatoria troviamo l’articolo el, forme verbali come vegghino; troviamo al posto di pietre, prete preziose , come metàtesi ed altre espressioni del genere. Inoltre ci sono tratti propri del latinismo cancelleresco tipo tamen eccetera.
La struttura del trattato.
La fenomenologia dei principati. Ho scelto tre capitoli indicativi per intendere la novità di questi testi. In primo luogo il Primo, che mostra come Machiavelli non abbia intenzione di svolgere un discorso di carattere filosofico o di fondare da un punto di vista giuridico il principato. Queste sono le due linee principali. Perché attenzione, Machiavelli non ha intenzione di scrivere uno speculum principis, la prima parte del suo trattato riguarda la trattazione della fenomenologia dei principati, ed ha una dimensione che potremmo definire più teoretica nell’impostazione. Avevamo visto che dalla lettera del ’13 pareva che Machiavelli volesse partire dal tema generale di che cosa fosse il principato, questo però non c’è nel trattato.
Capitolo I
Comincia a porre il discorso in termini di carattere generale e perentori introducendo la classificazione dei principati e il modo in cui questi sono acquistati. Questo è dunque in capitolo dichiarativo ed enunciativo della materia; ancora di più qui si nota la funzione logica del parallelismo, e la volontà di un enunciazione di carattere generale di aspetti che hanno validità generale e costante nel tempo. «Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati» e qui comincia quell’andamento dilemmatico molto noto di Machiavelli: Machiavelli procede per alternative che si escludono: o o”. andamento che è stato definito dilemmatico propagginato, perché da una alternativa si prende un corno e si procede con ulteriori alternative. E qui di fatto attraverso ulteriori alternative abbiamo i passaggi successivi: «ereditari o nuovi» e che Machiavelli punti sul principato nuovo lo si intende subito. Perché nella distinzione dei nuovi viene occupato tutto il resto del capitolo: « E’ nuovi, o sono nuovi tutti» e abbiamo subito un esempio storico introdotto «come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna». La conclusione di questo capitolo riguarda la classificazione di principati nuovi e cioè la condizione in cui erano prima di essere stati acquistati e i modi in cui si acquistano: «Sono questi dominii cosí acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; et acquistonsi, o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.» allora un andamento stringente, logico, consequenziale che corrisponde alla logica interna del pensiero Machiavelliano.
Questo è un aspetto che va tenuto presente: il principe, anche nella sua scrittura è un trattato indubbiamente compatto, ma è compatto e organico se considerato da un punto di vista concettuale, cioè per quelle che sono le ragioni interne del pensiero Machiavelliano e la linea che le ragioni seguono. Non è detto che tutto torni da un altro punto di vista se noi consideriamo un ottica differente. Vediamo qui che cosa succede: noi troviamo due esempi, e il lettore che cosa si aspetta? Quando arriva a trattare dello stato nuovo il lettore si aspetta l’esempio di Francesco Sforza, quando arriva a parlare dello stato misto ( e in realtà i termini della questione sono invertiti) si aspetterebbe l’esempio del re di spagna: le cose non stanno così.
I capitoli I – XI. Com’è la struttura di questi primi 11 capitoli a grandi linee? II capitolo sui principati ereditari, dal III al V si tratta dei principati misti, che hanno una serie interna a loro volta di situazioni diverse, dal VI capitolo all’XI si tratta invece del discorso sul principato nuovo.
Apparenti incongruenze.
? Re di Spagna o di Francia? Allora, se noi vediamo il principale capitolo relativo ai principati misti che è il III noi ci aspetteremmo l’esempio del re di spagna; l’esempio invece è relativo alle conquista in Italia del re di Francia Luigi XII. E perché questo? evidentemente a Machiavelli interessa, in modo particolare, in relazione ai moderni, fare una discussione degli errori commessi. Così come interessa in relazione ai moderni enunciare quegli esempi che sono pertinenti al discorso che egli sta costruendo.
? Moderni o antichi? Questo ci spiega anche come mai a Francesco Sforza non viene data quella posizione preminente che ci potremmo aspettare, data l’affermazione come esempio per quello che riguarda il I capitolo. In realtà il capitolo VI che apre la trattazione del principato nuovo è tutto fondato sui grandi esempi antichi: cioè Machiavelli punta all’esempio più alto possibile. Francesco Sforza è si citato ma solo en passant quando nel capitolo VII introduce la figura portante del principe che è quella di Cesare Borgia, il Valentino, e allora solo in quel momento viene evocato Francesco Sforza come l’esempio di colui che acquistò con armi proprie il ducato di Milano, ma tutta l’attenzione è data (e il capitolo è relativo all’acquisto per fortuna ed armi altrui) alla figura del Valentino che è la figura esemplare su cui Machiavelli intende svolgere la sua trattazione sul principe moderno. Quindi ripeto, bisogna intendersi: parliamo di compattezza da un punto di vista concettuale. L’ordine del trattato può avere al suo interno certamente delle disuguaglianze. In qualche caso anche discrepanze.
Capitolo VI
Gli esempi. Adesso vediamo la novità con cui ci si presenta il capitolo VI che riguarda il modo di ragionare e l’uso degli esempi. Gli esempi storici sono un elemento fondante per quello che riguarda la trattatistica umanistica, in relazione a qualunque argomento la consideriamo. Gli esempi diventano per Machiavelli un asse portante del suo ragionamento e per le sue dimostrazioni. Degli esempi si avvale in forme e modi diversi, qui si avvale degli esempi dei grandi fondatori di stato. Tenendo conto del fatto che qui Machiavelli prende come storici esempi tra loro molto diversi, perché tra i grandi fondatori di stato che ci sono qui presentati sono tra loro appartenenti a mondi diversi: c’è Mosé (Bibbia), Téseo (Mito), Romolo (mito), Ciro re di Persia (storico). Per Machiavelli non c’è sotto questo profilo differenza. Si differenzia Mosé, ma vedremo come, per ragioni diverse.
L’imitazione. Come introduce Machiavelli il suo discorso nel capitolo VI? Comincia con una sorta di nuovo proemio, dicendo al lettore di non meravigliarsi se nel parlare che farà dei principati al tutto nuovi e di principe e di stato, che sono l’elemento clou potremmo dire, «io addurrò» dice «grandissimi esempi». La ragione la spiega subito dopo, facendo riferimento al fatto che gli uomini procedono nel loro agire attraverso limitazione: dà questo enunciato come un fatto noto e scontato. Guardiamo come procede logicamente:
a) abbiamo prima due gerundive: «perché, camminando li uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni»
b) si introducono poi altre due gerundive che limitano «né si potendo le vie d’altri al tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere» e quindi introduce la figura di un immaginario interlocutore.
c) e poi ecco la principale aperta da una connotazione di necessità; i verbi di necessità connotano fortemente la prosa del principe: «debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore» e qui introduce la comparazione famosa degli arcieri prudenti (prudente nella lingua cinquecentesca vuol dire accorti, savi) quindi gli arcieri competenti.
La similitudine degli arcieri. Allora che cosa fano gli arcieri prudenti? «a’ quali parendo el loco dove disegnono ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato» effettuano quello che oggi chiamiamo un tiro parabolico. «non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con lo aiuto di sí alta mira, pervenire al disegno loro».
La tensione alla grandezza. Allora che cosa ci introduce questo paragone? Ci introduce una tensione. Una tensione sia da un punto di vista conoscitivo dell’autore sia da un punto di vista attivo da parte di chi agisce sul piano pratico: i principi. Non si può pensare di essere eccellenti come i grandissimi, ma cercando di imitare gli eccellenti, Sforzandosi in questa imitazione, si riesce ad essere più grandi di quanto si potrebbe essere se in vece si puntasse ad una comune condizione. Ecco la ragione della conoscenza degli uomini grandi.
Questa similitudine dell’arciere, orchestrata in modi diversi, la troviamo in più testi del cinquecento, c’è anche nel Castiglione. Questa è una premessa.
Le formule della trattatistica scolastica in latino. Vi faccio notare: avevamo accennato quando parlavamo di Dante a proposito delle formule espressive di cui dante si avvale nei moduli iniziali del discorso (convivio), avevamo notato che ci sono alcuni moduli, per esempio il dico adunque che che Dante scrivendo in volgare esempla sui modi della trattatistica scolastica in Latino. Ora, una serie di questi tratti rimangono nella penna di Machiavelli, come questo dico adunque che. Ma anche quella espressione iniziale non si meravigli alcuno se c’è anche in apertura di frase in uno dei capitoli del Convivio. Questo per dire che cosa? Non che Machiavelli si ponga in un contesto analogo, ma che Machiavelli ha presente la scrittura della trattatistica, anche scolastica, perché rimangono alcune formule anche nei modi della scrittura. Sarebbe sorprendente questo se Machiavelli non avesse avuto una qualche consuetudine di lettura.
? L’efficacia dimostrativa delle formule. Questo non ci può indicare un ritardo, ma piuttosto una consuetudine nella lettura di alcuni testi, e la volontà di utilizzare formule enunciative che siano al tempo stesso efficaci sotto il profilo enunciativo e dimostrativo. Il dico adunque che è una delle formule ricorrenti, che corrispondeva a quel dico igitur quod.
Più virtù = meno difficoltà. Adesso come tratta e introduce il tema relativo al principato nuovo? Sulla misura della facilità/difficoltà che è insita nel principato nuovo: a mantenere il principato nuovo si trova più o meno difficoltà a seconda se è più o meno virtuoso quello che egli acquista. Se quello che acquista è più virtuoso, c’è meno difficoltà: un rapporto di proporzione inversa.
Virtù e fortuna. Passaggio successivo: questa difficoltà, che per altro sono più relative allacquistare, e che ci sono perché diventare principe da privato è una cosa molto difficile, possono essere mitigate in parte da virtù o fortuna. Virtù e Fortuna sono appunto quelle cose che consentono come presupposto di poter passare da privato cittadino a Principe.
? ma meglio la virtù. Con immediatamente enunciata l’avversativa introdotta da «nondimanco colui che è stato meno in su la fortuna si è mantenuto di più». Si aggiunge un corollario, si spiega perché prima Machiavelli aveva parlato dei principati misti. Tra i vantaggi del principato nuovo c’è quello che il principe deve venire personalmente ad abitarci. Ovviamente come poteva farlo con il principato misto? In questo caso il principe nuovo va ad abitare proprio la nel principato nuovo.
I quattro esempi. Fatte queste considerazioni iniziali introduce gli esempi di quelli che per propria virtù non per propria fortuna sono diventati principi nello stato, ed introduce i più eccellenti: «dico che i più eccellenti sono» e introduce quattro grandi fondatori di stato. Non gli unici, ma sono quattro esempi su cui fonda il suo discorso.
Il caso di Mosé. Nell’analisi che viene compiuta per punti fondamentali, perché non ci viene narrata la storia di questi quattro, si deve porre in primo luogo una distinzione per un obiezione che potrebbe essere fatta: Mosé e gli altri tre sono su posizioni diverse o meglio Mosé è su posizione diversa rispetto agli altri tre. Potrebbe essere escluso dal ragionamento, perché era stato un esecutore di Dio: cioè era Dio che aveva dato le sue disposizioni a Mosé. Tuttavia, tamen, deve essere ammirato solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio: l’eccellenza di Mosé. D’altra parte Mosé è di fatto distinto per questa ragione, ma non ottenne sul piano politico cose diverse rispetto agli altri tre, nonostante avesse così gran precettore: che debba essere inteso in chiave ironica come da alcuni è stato detto, o che debba essere inteso in un ottica di discorso questo è da vedere. E’ evidente in quello che dice subito dopo che una considerazione delle azioni di tutti mostrano che le azioni e gli ordini particolari non furono inferiori ad uno che ebbe così gran precettore.
L’occasione. Che cosa importa dunque in relazione all’esame delle azioni di questi quattro grandi fondatori di stato: che tipo di rapporto ebbero questi con la fortuna. Non basarono la loro azione sulla fortuna, ma seppero riconoscere l’occasione che la fortuna mandava. Qui viene introdotto quel concetto così importante da considerare nel Principe dell’occasione, che è potremmo dire un termine di mediazione tra la fortuna e la virtù. Machiavelli non definisce in termini univoci che cosa intenda per fortuna: in alcuni luoghi è personificata. In altri è apparentata agli influssi astrali, in altri il discorso sulla fortuna non è chiaramente determinato, ciò che risulta evidente è che è la fortuna è una forza con cui l’uomo deve fare i conti e che dipende dalla fortuna il creare l’occasione. Se non c’è un occasione in cui la virtù possa diventare operativa. La virtù si spegne. La virtù può dimostrare solo le sue potenzialità, non può tradursi in atto: la fortuna è ciò che, mandando l’occasione, dà la materia per introdurre la forma: «la forma che parse loro» perché sono questi come degli artefici di fatto che impongono la loro forma alla materia.
Allora le espressioni forma e materia hanno una pertinenza anche da un punto di vista filosofico aristotelico come sappiamo, ma c’è anche il rapporto con ciò che comportano forma e materia in relazione al lavoro dell’artefice. Quello che qui importa è che se la materia non c’è come atta e disponibile per cui venga imposta, la forma non può imporsi. Le potenzialità della virtù non possono tradursi in atto se non c’è l’occasione.
La virtus. Però se non c’è la virtù che cosa accade? L’occasione viene invano, perché non c’è chi la riconosca. Se non c’è l’occasione la virtù si spegne. Per virtù qui dobbiamo intendere, ma già nel primo capitolo risultava chiaro per la verità, quell’insieme di capacità, di qualità sia di riflessione che di azione, che è proprio dell’uomo avveduto, savio. E’ una virtus alla latina, non morale. Quello che conta qui è mettere in evidenza la similarità delle occasioni di questi quattro esempi.
Similarità delle quattro situazioni. C’è qualche forzatura a dire il vero: Machiavelli insiste su questa similarità che egli riconosce, e sono occasioni di condizioni negative tutte e quattro e sono scandite da espressioni di necessità: guardiamo al paragrafo 11: «Era dunque necessario a Moisé»; paragrafo 12: «Conveniva che Romulo»; paragrafo 13 «bisognava che ciro» paragrafo 14: «non poteva Tèseo se non». Ed erano le condizioni in cui in primo luogo si trovava il popolo. C’è la schiavitù dell Egitto per quello che riguarda gli ebrei; per quello che riguarda Romolo viene messa in evidenza prima ciò che viene dopo e cioè che Romolo con i suoi non ci stava in alba; per quello che riguarda Ciro è la condizione dei persiani di malcontento; per Tèseo era la dispersione degli ateniesi. Sono queste occasioni, e in questo modo arriva alla conclusione: «Queste occasioni, per tanto, feciono questi uomini felici, e la eccellente virtù loro fece quella occasione esser conosciuta; donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima».
Il resto del capitolo: posti questi esempi allora c’è una trattazione che a questi esempi si deve ricollegare. Che cosa deve dimostrare nella parte che segue? Che quelli che sono giunti per vie virtuose come queste al principato, hanno trovato molte difficoltà ad arrivare a conquistarlo, ma poi con facilità sono riusciti a mantenerlo. Le difficoltà sono tutte per via. In che cosa consistono queste difficoltà? Nel momento in cui viene a parlare delle difficoltà il discorso di Machiavelli si sposta: ci troviamo di fronte ad una situazione differente: non più la situazione di uno stato ex novo che non esisteva prima, ma la fondazione di uno stato nuovo del principe, di un potere nuovo che come nuovo capo fonda nuovi ordini dove ce ne erano di vecchi. E la difficoltà qual è? Si deve fare capo ad introdurre nuovi ordini ed alla resistenza di quelli che favoriscono gli ordini vecchi. Quindi c’è un gioco molto forte di forze. Ed è tutto ragionato sulle forze: quelli che si oppongono conoscono gli ordini vecchi e li difendono con forza, quelli che potrebbero seguirlo lo seguono tiepidamente perché non vedono il bene incarnato, ma devono guardare al futuro: in questo rapporto di forze, se il principe si deve fondare sui sostenitori, periclita, cioè lo Stato cade.
L’uso di armi proprie. Da qui si aggancia un ulteriore discorso: si discute se dipende da loro, o può forzare, o può operare la forza. Da questo deriva che bisogna avere le armi proprie: da questo deriva che tutti i profeti armati vinsero e i disarmati persero. Che cosa avevano i nostri fondatori di Stato? Avevano la forza.
? Savonarola. E qui abbiamo l’esempio di Mosé che non poteva essere tolto perché a funzionale a quello che Machiavelli vuole dire: profeti armati esemplati su Mosé; profeti disarmati, modellati sull’esempio negativo moderno del Savonarola. Savonarola non aveva a disposizione le armi, ma la forza di persuasione: quando il popolo non gli credè più, il Savonarola ruinò nei suoi ordini nuovi. Dunque l’uso delle armi è fondamentali. Dunque circolarmente il discorso è che le difficoltà sono nel momento della conquista, se la conquista avviene con mezzi virtuosi, la conquista è difficile, ma poi lo stato si mantiene facilmente e viceversa.
? Gerone Siracusano. L’ultima parte è un esempio minore, ma di un importante antico: Gerone siracusano. Tutti gli esempi positivi di questi capitoli sono esempi antichi: Gerone siracusano che viene introdotto come esempio funzionale divenne principe da capitano dell’esercito, condottiero che aveva sconfitto nemici, per cui aveva già dimostrato la sua virtù anche quando lo stato non lo aveva, e una volta conquistato il potere, fonda i suoi ordini nuovi, li fonda anche basandosi sull’intervento con violenza, anche verso la milizia.
Innanzitutto per quello che riguarda il Savonarola si è fatto presente a come sia l’unico esempio moderno presentato in questo sesto capitolo ed è esempio negativo di colui che ruinò nei suoi ordini nuovi perché non poteva usare la forza. Qui Machiavelli rende molto efficacemente il contrasto con i grandi fondatori di stato mettendo in evidenza appunto attraverso una ripetizione, un Polyptoton, cioè la continua ripetizione del verbo credere in diversi modi verbali. E poi con un gioco di parole che è anche una figura etimologica, una sorta di annominatio: «il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non crederli; e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto, né a far credere e’ discredenti.» quindi attraverso una serie di riprese mette ulteriormente in evidenza il concetto. C’è anche un ironia da parte di Machiavelli che non aveva mai creduto al profetismo del savonarola, c’è una lettera in cui lo definisce come colui che andava colorendo le sue bugie e trasformando i suoi giudizi. D’altro canto contrappone al fallimento del Savonarola quello che questi altri hanno fatto e ritorna a definire questo sul piano del gioco di forze e contrapposizioni e della difficoltà e facilità. «Però questi tali hanno nel condursi gran difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via, e conviene che con la virtù li superino; ma, superati che li hanno, e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti quelli che di sua qualità li avevano invidia, rimangono potenti, securi, onorati, felici». C’è dunque questa sequenza di aggettivi in cui l’uno di fatto crea le condizioni dell’altro e a climax efficacemente conclude il periodo.
L’esempio minore che viene introdotto, di Siracusano è svolto in modo diverso: Machiavelli ci dà cli elementi salienti della storia di Gerone Siracusano naturalmente concentrando l’attenzione sugli aspetti fondamentali, qui di fatto cita la sua fonte, perché pur non facendo il nome dello storico latino Giustino, cita la sua fonte e ricostruisce questi aspetti peculiari dell’agire di Gerone. «Costui, di privato diventò principe di Siracusa: né ancora lui conobbe altro dalla fortuna che la occasione; perché, sendo Siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano; donde meritò d’essere fatto loro principe». Da questa posizione fonda il suo stato nuovo, la condizione nuova del suo potere. «fu di tanta virtù, etiam in privata fortuna, che chi ne scrive, dice: quod nihil illi deerat ad regnandum praeter regnum»: non gli mancava niente a regnare se non il regno. Il concetto è indubbiamente ripreso da Giustino, ma non è una citazione esatta, perché sintatticamente era disposta diversamente. E che cosa fa questo che già quando era privato era per propria virtù tale da meritare il principato, una volta diventato condottiero e nominato dal suo popolo principe che cosa fa? «Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e, come ebbe amicizie e soldati che fussino sua, possé in su tale fondamento edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare, e poca in mantenere». Notiamo l’efficacia dell’asindeto iniziale. I mezzi usati da Gerone siracusano sono mezzi su cui ritorna per poi sottolineare l’aspetto militare in uno dei capitoli relativi alle milizie che sono i capitoli dal XII al XIV. E specifica bene anche l’uso della grande violenza di Gerone, là dice che «fece in pezzi» i soldati, la milizia vecchia, per fondare la milizia propria. Quindi dove Machiavelli dice «spense» è da intendere in linea di massima proprio come un’eliminazione fisica, può contemplare una grande violenza. Come avevo detto la figura di Francesco Sforza fa capolino soltanto nel capitolo successivo, paragrafo 5 capitolo VII: è introdotto in contrapposizione a Cesare Borgia in relazione agli esempi del Presente. Ma è solo accennato.
Capitolo XV
Concludo il discorso che riguarda il principe con l’altro capitolo famosissimo che è il XV. Il capitolo XV si trova nella terza parte del principe.
? La prima (dal II all’XI) tratta della fenomenologia del principato e del modo dell’acquisto;
? la seconda (XII – XIV) tratta delle milizie, in relazione a quello che il principe deve fare per quanto riguarda la guerra: non solo acquistare milizie proprie ma anche essere pronto per la guerra anche in tempo di pace. E in questo il principe deve essere preparato sia con la lettura di storie antiche e moderne, sia con gli esercizi. E qui si introduce il tema della caccia come esercizio propedeutico alla guerra, e quindi in larga misura la presenza di Senofonte.
La realtà effettuale. Veniamo adesso per l’appunto al capitolo XV. Apre quella parte che ha uno svolgimento più precettistico e si collega all’impostazione in chiave di presentazione della figura del principe e delle sue qualità, che soprattutto si ricollega per opporsi metodologicamente alla tradizione degli specula principum. In realtà quello che dice Machiavelli all’inizio di questo capitolo implica una posizione da parte di Machiavelli di novità tale da allontanarsi, in quello che ora scrive, da quello che hanno scritto di questo argomento. Questi ‘molti che Machiavelli dichiara di conoscere, non possiamo individuarli nominalmente, ma certamente un riferimento è anche alla grande tradizione classica e certamente in sottofondo non possiamo non vedere il nome di Platone. Platone la cui posizione, in modo particolare per la repubblica, è presente nella tradizione fiorentina anche in altre opere, e cioè il fatto che la repubblica di Platone delineasse uno stato utopico veniva ricondotto all’immaginazione, dunque un libro che trattava della politica dell’organizzazione dello stato in una dimensione diversa rispetto appunto a quella della realtà.
Una tradizione cittadina. Sotto questo profilo non è novità ciò che Machiavelli dice: avevo citato il Palmieri. Anche nel della vita civile del Palmieri si dice che quello che lo scrittore vuole trattare si allontana da coloro che come Platone hanno scritto di stati che si sono immaginati e non visti nella realtà. Una cosa analoga dirà successivamente, ma non per dipendenza da Machiavelli anche Guicciardini nel suo dialogo sul reggimento di Firenze. E nella tradizione fiorentina se noi andiamo a vedere, sia da un lato la tradizione cronachistica, sia dall’altro anche quello che c’è rimasto delle discussioni che si tenevano nei consigli fiorentini diciamo che non era di fatto ignota la posizione di chi sosteneva, per usare una espressione popolaresca e colorita, che per reggere gli stati non ci si poteva «basare sui paternostri». Quindi un discorso relativo all’utilità politica, relativo a una contrapposizione dei modi di agire nel contesto politico rispetto ad un ambito etico-morale e religioso è certamente presente ben prima di Machiavelli nella tradizione politica fiorentina.
Vera novità. La novità di Machiavelli però è di riportare questi spunti attraverso una rielaborazione propria, a quello che un organismo concettuale rigorosamente articolato e di farne il perno del suo pensiero politico e della sua trattazione. E’ vero che ci sono degli aspetti che lui riprende dalla tradizione precedente, ciononostante, così come è impostato il discorso di Machiavelli non si può non definire se non nuovo. E la dichiarazione di novità che qui fa l’autore (come in una sorta di ulteriore proemio) che si ritrova in genere nei proemi iniziali, qui è affermato con grande forza all’inizio di questa parte. La dichiarazione è notissima: «sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa».
Qui di nuovo Machiavelli opera per opposizione contrapponendo al dover essere l’essere, cioè la condizione in cui gli uomini operano. Se si segue il dover essere si impara «più presto la ruina che la preservazione»(questo per quanto riguarda i principi, per gli uomini privati Machiavelli dice che essi agiscono mediante ciò che riguarda le leggi, ma i principi agiscono in base alla forza, e al peso delle armi). «perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni». Machiavelli ha una visione negativa della natura umana, ha una concezione pessimistica della natura umana, se si vuole agire come buoni è inevitabile che il principe ruini in fra tanti che non sono buoni. E’ necessario dunque (notiamo come sono ricorrenti le dichiarazioni di necessità). E’ come se Machiavelli ponesse questa necessità sia sul piano della scrittura, per condurre ad una dimostrazione il lettore, una dimostrazione obbligata, così il principe nella sua azione. «Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, (possiamo dire che quello che è il principio categorico del principe, il principio normativo che il principe deve seguire è quello del mantenimento dello stato: il principe deve badare a mantenere lo stato: un fine politico, non etico. Il principe «imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità». Machiavelli non sta determinando l’autonomia della politica dalla morale, ma sta mettendo in opposizione la non possibile conciliazione quando i fini non coincidano più.
Qui Machiavelli ha in mente il modo in cui si è trattato delle qualità del principe, e qui vuole trattare delle qualità del principe «Lasciando adunque indrieto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere» facendo questo «dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude» quello che importa è l’opinione, la fama, l’immagine che il principe ha. Nella parte successiva, non casualmente, non si dice che il principe ‘è, ma ‘è tenuto, ritenuto, giudicato. Qui segue una serie di qualità che sono presentate per coppie, sono qualità in relazione alle quali si dispone, si giudica per biasimo o per lode. La disposizione di queste coppie non è uniforme: se noi guardiamo la prima liberale/misero; e così anche la seconda donatore/rapace noi vediamo che la prima è quella che è giudicata generalmente come qualità che dà lode; se noi vediamo la successiva crudele/pietoso, vediamo che la disposizione è inversa. La disposizione in questo senso è fatta per coppie, ma non nell’organizzazione come potrebbe sembrare, di biasimo o lode come nelle coppie.
Una precisazione linguistica. C’è qui una specificazione interessante per quello che riguarda la lingua che ci riporta a quello che avevamo visto in relazione ai libri della famiglia dell’Alberti, e cioè la differenza tra misero e avaro: cioè nell’Alberti avevamo visto la duplice accezione di avaro, qui per non lasciare dubbi allora Machiavelli introduce il termine toscano: misero. E dice «alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo)». Questo cosa ci dice: oltre che un attenzione da parte di Machiavelli per quello che riguarda la lingua, quindi anche una riflessione per quello che è l’accezione delle parole, ci indica anche il pubblico a cui Machiavelli intenderebbe rivolgersi, non è un pubblico solamente toscano. Perché altrimenti non sarebbe stato necessario porre il discorso in questi termini.
Evitare l’infamia. Dopo aver fatto tutta questa ampia introduzione il Machiavelli torna ad un discorso di carattere generale, dichiarando di essere ben consapevole di quello che afferma, dichiarando «io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone: ma, perché» ed ecco l’avversativa che introduce il cambiamento di prospettiva. Cambiamento relativo alle condizioni umane «ma, perché non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, li è necessario [verbo di necessità] essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia» ecco. Il discorso di Machiavelli è fatto ancora una volta per opposizioni: negli specula principum di che cosa si trattava? Del modo in cui il principe potesse avere le qualità morali tali per cui specchiandosi nel modello proposto, egli fosse un buon principe. Se noi ora vediamo il discorso relativo all’opinione, e prendiamo quello che dice il Pontano, lì è la buona fama che va considerata del principe; qui invece il discorso riguarda l’infamia, la cattiva fama: è sotto questa prospettiva che ci viene dato. «la infamia di quelle che li torrebbano lo stato, e da quelle che non gnene tolgano guardarsi, se elli è possibile» Machiavelli non vuole che il principe sia un vizioso, ma c’è una differenza: ci sono vizi che deve assolutamente evitare, perché potrebbero toglierli lo stato, ci sono vizi sotto il profilo morale, ma che non pregiudicano il possesso dello stato. Se possibile, deve evitarli, «ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare».
Ma l’affermazione più forte è quella che segue successivamente in relazione alla virtù «Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali possa difficilmente salvare lo stato» quindi incorrere nei vizi mediante deve salvare lo stato. «perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere suo». Posto che il principio normativo che dà al principe è quello della sicurtà e del benessere suo, la conseguenza di questo discorso è quanto Machiavelli ha voluto mostrare.
Sotto questo profilo sono svolti i capitoli successivi. Questa è la parte più discussa e scottante del principe, in massimo grado questo giunge al capitolo XVIII in relazione al mantenere la fede, la parola data, riguardo anche a quel principio già romano del mantenere i patti. Il discorso si articola in un modo che ha più obiettivi diversi. Noi non seguiamo il discorso, mi interessava mettere in luce un modo metodologico con cui Machiavelli modifica quelle che sono le prospettive precedenti da un punto di vista sia contenutistico, sia concettuale, sia anche metodologico, nonché stilistico e formale.
C’è anche un aspetto del principe su cui qui non mi sono soffermata e cioè il modo in cui il Machiavelli esercita la sua capacità non solo dimostrativa ma anche persuasiva: in diversi tratti emerge in quello che abbiamo letto, uno dei modi in cui esercita la sua capacità retorica e persuasiva, è la grande efficacia dell’uso delle metafore: la capacità di tradurre elementi di carattere concettuale in immagini, e questo ha a che fare con la capacità immaginativa di Machiavelli. Ho ricordato quella notissima del centauro, come le due bestie, la golpe e il l’ione. Ma soprattutto ricordiamo come è la parte di svolgimento del trattato. Ricordiamo come si conclude il trattato negli ultimi tre capitoli:
? capitolo XXIV. ricordiamo che nel XXIV il Machiavelli fa un bilancio sui motivi per cui i principi italiani persero lo stato;
? capitolo XXV. il XXV tratta il problema cruciale del rapporto tra virtù e fortuna e ridiscute il rapporto virtù/fortuna sul piano generale e sul piano del singolo principe, e anche qui c’è un immagine molto politicamente scorretta, della fortuna donna e immagine volontaristica conclusiva della fortuna che in quanto donna ama i giovani e per conquistarla bisogna batterla.
? capitolo XXVI. Il capitolo XXVI è l’exortatio perché si liberi l’Italia dai barbari: qui il tono cambia e ci troviamo di fronte ad una perorazione, esortazione tutta basata sull’eloquenza. Non casualmente conclusa coi versi famosi della canzone del Petrarca all’Italia.
Liberare l’Italia dagli stranieri. E questo ci permette di capire uno degli altri aspetti non secondari del principe, un aspetto che fa del principe una sorta di manifesto politico” nell’esortare la casa dei medici a mettersi a capo degli altri stati italiani e farsi bandiera e capo per contrapporsi ai barbari, cioè coloro che hanno invaso l’Italia in modo particolare pensa a Francia, Spagna e poi quello che in prospettiva si sarebbe manifestato il potere imperiale, ma nel 13 questo è di là da venire perché la corona di Spagna non è ancora fusa con quella dell’impero.
? i quattro (tre) esempi. Non casualmente nel capitolo XXVI tornano gli esempi dei grandi fondatori, ma non tornano tutti e quattro, tornano tre: quello di Romolo non sarebbe stato pertinente. E tornano nella definizione dell’occasione: e qui attraverso un modo di ragionare ricco tipico di Machiavelli, con paradossi creativi che danno una spinti al discorso: la grande occasione che i Medici hanno è che la situazione è la peggiore possibile, Machiavelli ha una concezione ciclica della storia, e dunque quando si arriva al punto più basso, più negativo di maggior corruzione di maggior danno allora la ruota riprende il suo giro e si risale: questa è la grande occasione, e solo il principe accorto può coglierla, proprio per le pessime condizioni. Peggiore di così non si può: una situazione peggiore non la trovarono nemmeno i tre grandi fondatori di stato (escluso Romolo) Mosé, Téseo, Ciro.
Il plagio “scolastico” di Nifo. La novità dell’impianto e del discorso del Principe rispetto all’ambito tradizionale del trattato ci viene data anche attraverso una controprova. Teniamo presente che il principe non fu pubblicato con Machiavelli in vita, viene pubblicato postumo, ma circola manoscritto in ambiente fiorentino, e poi c’è un emergere molto evidente attraverso un plagio. Un plagio noto: un accademico, aristotelico, insegnante in varie università, Agostino Nifo, con il suo de regnati peritia, in latino, del 1523. Probabilmente venne a conoscenza dell’opera di Machiavelli durante il suo insegnamento a Pisa.
? smembramento in questiones. Possiamo vedere che cosa diventa, smembrato nelle sue parti, modificato negli assetti, anche perché il nostro Nifo, da aristotelico averroistico in origine era poi passato ad un aristotelismo più ortodosso, cosa diventa nelle mani del Nifo il trattato di Machiavelli: totalmente snaturato e ricondotto a quello che è l’assetto del trattato. Un esempio soltanto: per quello che riguarda la parte precettistica di cui avviamo visto il capitolo XV, viene ad un certo punto trattata attraverso delle vere e proprie quaestiones, per cui per punti e per distinzioni si tratta il catalogo delle virtù. Nello stesso testo di Machiavelli era rimasta una traccia del modo di impostare il discorso attraverso quaestiones, e questo era rimasto nel capitolo XVII, nel titolo: in relazione alla crudeltà e la pietà , e si impostava la quaestio (che poi non è svolta nei termini della quaestio) se sia meglio essere amati che temuti oppure il contrario; Machiavelli naturalmente poi svolge il discorso diversamente. Ma il nifo pone tutte le questioni così e le tratta in partizioni successive.
I Discorsi. Questo per quello che riguarda il trattato Machiavelliano,. Non è certo il Principe l’unica opera importante di Machiavelli. Sotto il profilo della riflessione storico-politica, molto innovativo, anzi più importante per l’ampiezza e lo sviluppo del discorso, molto denso e conciso nel principe e in alcuni casi non pienamente risolto, sono i Discorsi. I discorsi sono un’ opera il cui genere non è facilissimo da definire: possono essere definiti un commento a Livio, ma hanno uno sviluppo al loro interno che non è più solo quello del commento, e indubbiamente assumono in una forma molto originale e particolare una dimensione e una forma del trattato. Naturalmente un trattato sui generis; c’è una grossa questione sulla datazione e composizione, ma questo lasciamo.
Il dialogo Sull’arte della guerra. Machiavelli è comunque anche autore di un Dialogo. L’unica di queste sue opere che pubblicò in vita, e sono i libri dell’arte della guerra. Ecco questo è un trattato in forma di dialogo dove però Machiavelli mostra con chiarezza che laddove egli svolge una parte in forma trattatistica il dialogo ci sta effettivamente a pigione: qui il portavoce di Machiavelli è Fabrizio Colonna, ed è colui che svolge tutta la parte trattatistica ed è la sola voce del Colonna che conta in questa parte. L’opera sancì il nome di Machiavelli letterato, ma al tempo stesso non si può certamente ascrivere ai migliori tra i dialoghi esistenti all’epoca.
Mentre Machiavelli mostra tutta la sua grandezza di scrittore nella gestione di ben altri dialoghi, cioè nelle sue commedie come sappiamo. Mandragola è un grande capolavoro del teatro, non solo cinquecentesco.
Nell’ambiente fiorentino non c’è solo Machiavelli che scrive trattati ricordo solo l’importanza del Guicciardini per quanto riguarda la sua opera dialogica i Dialoghi sul reggimento di Firenze , in due libri. Dal punto di vista dell’articolazione del dialogo il primo dei due libri è gestito come un vero e proprio dialogo; il secondo è più una trattazione più largamente data dalla voce del personaggio che si fa interprete di quella che potrebbe essere la migliore forma di governo a Firenze, e dunque assume più una dimensione che riporta ad un ambito monologico piuttosto che a una pertinenza dialogica vera e propria. Questo per quello che riguarda la trattatistica politica che on è ignorata per altro dal Castiglione, nel IV, dove tratta del rapporto tra il cortigiano e il principe, e fa una digressione sulle forme di governo , una trattazione, una ripresa di tematiche che hanno una storia sotto il profilo della trattatistica politica.