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28 Dicembre 2019Eugenio Montale, una delle voci più importanti della poesia italiana del Novecento, affronta il ruolo della poesia in modo problematico e spesso contraddittorio, esprimendo una visione critica e disincantata della capacità della poesia di dare un senso profondo all’esperienza umana e al mondo.
La poesia come non-salvezza
Montale è ben lontano dal concepire la poesia come una forma di salvezza o di verità assoluta, al contrario di molti poeti romantici o simbolisti che vedevano la poesia come mezzo per afferrare una realtà superiore. Per Montale, la poesia non ha il potere di cambiare il mondo o di rivelare verità definitive. In uno dei suoi testi più celebri, “Non chiederci la parola”, tratto dalla raccolta Ossi di seppia, Montale scrive:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari, e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Qui il poeta rifiuta l’idea che la poesia possa fornire una parola definitiva e risolutiva sulla condizione umana, una verità che dia senso all’esperienza. Montale descrive il mondo come frammentato, incerto e privo di ordine, e la poesia non può che rispecchiare questa mancanza di significato. È un rifiuto dell’illusione che la parola poetica possa essere uno strumento di redenzione o illuminazione.
La poesia come testimonianza del negativo
Se la poesia non può offrire una risposta definitiva alle domande esistenziali o svelare una verità nascosta, essa può tuttavia essere una testimonianza del negativo. Per Montale, la poesia è spesso un modo di registrare il non-senso, l’assenza di risposte, il vuoto che circonda l’esistenza umana. In questo senso, la poesia diventa una forma di resistenza all’illusione, uno strumento che permette al poeta di confrontarsi con l’angoscia e il mistero del mondo senza cercare di risolverli.
Un esempio significativo di questa posizione è la famosa poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, dove Montale scrive:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
In questi versi, Montale non cerca di spiegare o giustificare il male di vivere, ma semplicemente di registrarlo. La poesia diventa una forma di presa di coscienza di una realtà dolorosa e frammentata, senza la pretesa di offrire soluzioni o consolazioni.
Il valore della poesia sta nella sua limitazione
Per Montale, il valore della poesia risiede proprio nel riconoscimento dei suoi limiti. La poesia non è una chiave per comprendere il mondo, ma può essere uno strumento per esplorare l’incertezza e l’ambiguità dell’esistenza. In un certo senso, Montale accetta il fallimento della poesia nel risolvere i grandi problemi dell’uomo, ma è proprio in questo fallimento che la poesia acquista un valore unico: il valore di riconoscere la fragilità della condizione umana e il nostro essere “stranieri” nel mondo.
Nella poesia “I limoni”, Montale esprime questa idea:
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in povere case
si apre la poesia dei limoni.
Qui Montale rifiuta la poesia aulica e celebrativa, preferendo una poesia semplice, che nasce dai dettagli quotidiani e dalle esperienze marginali. I “limoni” diventano un simbolo di una poesia che non cerca la grandezza, ma che accetta la propria dimensione umile e parziale, lontana dalle pretese di assoluto.
La poesia come strumento conoscitivo limitato
Anche se Montale non crede che la poesia possa dare risposte definitive, essa rimane comunque un tentativo di conoscenza, un mezzo per esplorare il mistero dell’esistenza e per cercare, almeno momentaneamente, dei frammenti di senso. Non si tratta di una conoscenza razionale o ordinata, ma di una conoscenza che emerge dalle crepe del mondo e che è sempre provvisoria e parziale.
Questo atteggiamento si può collegare all’idea montaliana della “non verità”, cioè di una realtà che sfugge alla comprensione e alla rappresentazione completa. La poesia, dunque, è lo strumento migliore che l’uomo ha per confrontarsi con questo vuoto di senso, per “toccare” l’incomprensibile, pur sapendo che ogni tentativo è destinato a fallire.
Il valore civile e morale della poesia
Nonostante questa visione scettica e problematica, Montale riconosce comunque alla poesia un valore civile e morale. Nei suoi scritti critici e poetici, soprattutto nelle opere più tarde come La bufera e altro e Satura, Montale insiste sul fatto che la poesia possa essere un modo per resistere all’oppressione politica e culturale. Pur non credendo nella poesia come strumento di salvezza, Montale vede in essa un mezzo per conservare un barlume di libertà individuale e per opporsi alle dittature del Novecento, come il fascismo e il nazismo, che cercavano di soffocare la libertà di pensiero.
In particolare, nella sua opera Satura, Montale si confronta con la disillusione del secondo dopoguerra e con la banalizzazione del linguaggio nella società di massa. Anche in questo contesto, la poesia ha il compito di resistere, di mantenere una dignità morale in un mondo sempre più conformista e alienato.
Conclusione
Il valore relativo della poesia per Eugenio Montale è strettamente legato alla sua consapevolezza dei limiti del linguaggio e della conoscenza umana. Montale non crede che la poesia possa rivelare verità assolute o salvare l’uomo dal male di vivere, ma allo stesso tempo riconosce alla poesia il ruolo di testimonianza del negativo, di strumento per esplorare il vuoto e l’assenza di senso che caratterizzano l’esistenza umana. La poesia di Montale è un costante tentativo di fare i conti con questa assenza, accettando la fragilità del linguaggio e del significato, ma trovando in essa un valore che, seppur relativo, è prezioso per l’uomo moderno.