Canto trentatreesimo del Purgatorio
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27 Gennaio 2019Intorno ad Agostino
temi della riflessione del vescovo di Ippona ripresi in tempi recenti
di Roberto Persico
Il desiderio
Fecisti nos ad te, domine, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te.
Confessioni, libro I, cap. I
DON JAIME E puttanelle?
DON MIGUEL Ce ne fu una che mi amò di amore vero e che morì di disperazione non finta. (Breve silenzio) E che morì, signori, quasi contemporaneamente a suor Maddalena della Compassione, rapita a Gesù grazie alle mie cure.
TUTTI Gloria a Mañara, gloria a Mañara, nel più profondo degli inferni!
Tumulto di risate, grida, tintinnii di argenti e cristalli.
DON MIGUEL Vedo con piacere, signori, che mi volete tutti un gran bene, e sono molto commosso dall’augurio che mi fate così di cuore di vedere la mia carne e il mio spirito bruciare di una nuova fiamma altrove, ben lontano di qui. Vi giuro sul mio onore e sulla testa del vescovo di Roma che il vostro inferno non esiste, che non è mai arso se non nella testa di un Messia pazzo o di un cattivo monaco. Ma noi sappiamo che ci sono, nello spazio vuoto di Dio, dei mondi illuminati da una gioia più calda della nostra, delle terre inesplorate e bellissime, e lontane, lontanissime da questa in cui siamo. Scegliete dunque, vi prego, uno di questi lontani e incantevoli pianeti, e speditemi laggiù, questa notte stessa, attraverso la porta vorace della tomba. Perché il tempo è lento a passare, signori, terribilmente lento, e sono stranamente stanco di questa cagna di vita. Non raggiungere Dio è senz’altro un’inezia, ma perdere Satana è grande dolore e noia immensa, in fede mia. Ho trascinato l’Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte; fui traditore, bestemmiatore, carnefice; ho compiuto tutto quello che può fare un povero diavolo d’uomo, e vedete! Ho perduto Satana. Mangio l’erba amara dello scoglio della noia. Ho servito Venere con rabbia, poi con malizia e disgusto. Oggi le torcerei il collo sbadigliando. Certo, nella mia giovinezza, ho cercato anch’io, proprio come voi, la miserevole gioia, l’inquieta straniera che vi dona la sua vita e non vi dice il suo nome. Ma in me nacque presto il desiderio di inseguire ciò che voi non conoscerete mai: l’amore immenso, tenebroso e dolce. Più di una volta credetti di averlo afferrato: e non era che un fantasma di fiamma. L’abbracciavo, gli giuravo eterna tenerezza, esso mi bruciava le labbra e mi copriva il capo con la mia stessa cenere, e, quando riaprivo gli occhi, c’era il giorno orrendo della solitudine, il lungo, così lungo giorno della solitudine, con un povero cuore tra le mani, un povero, povero, dolce cuore leggero come il passerotto d’inverno. E una sera la lussuria dall’occhio vile, dalla fronte bassa, sedette sul mio giaciglio, e mi contemplò in silenzio, come si guardano i morti. Una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo, e nulla di più.
Ah! Come colmarlo, quest’abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai, come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale!
E’ un desiderio di abbracciare le infinite possibilità!
Oscar Vladislas Milosz, Miguel Mañara, quadro I
La felicità
E se voglio cercar Te, o Signore, come ti cercherò? Perché cercando Te che sei il mio Dio cerco la felicità. Ti cerco affinché la mia anima possa vivere. In qual modo dunque si cerca la felicità? Attraverso il ricordo, quasi che avendola dimenticata mi ricordi della dimenticanza; o per una naturale tendenza a conoscerla come una cosa ignota, non mai conosciuta? Non è proprio la felicità che tutti vogliono, che nessuno, nessuno non vuole? Come l’hanno conosciuta per desiderarla tanto? Dove l’hanno vista per amarla tanto? E non so come, ma in una qualche misura noi l’abbiamo. Se l’uomo non la conoscesse in un modo qualsiasi, non avrebbe il desiderio della felicità, ed è invece certissimo che la vuole. Essa è dunque conosciuta da tutti, e tutti, se si potessero interrogare con un termine comune se vogliono essere felici, tutti risponderebbero affermativamente senza ombra di esitazione. Ciò non potrebbe accadere se la cosa significata da quella parola non fosse conservata nella memoria.
Confessioni, libro X, cap.XX
Io domando a tutti quanti se preferiscano godere della verità o della menzogna: e tutti sono pronti a rispondere che preferiscono la verità, quanto sono pronti a dire che cercano la felicità: la felicità è appunto il godimento nella verità. Questa è la vita beata a cui tutti tendono, questa la vita, la sola vita felice, che tutti vogliono; tutti cercano la gioia nella verità.
Ibidem, cap.XXIII
Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo, e tutto sarà giusto
Francesco Guccini, Cyrano
Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa? E allora, perché speriamo?
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò: (parlano Mnemòsine e Esiodo):
Mnemòsine. In conclusione, tu non sei contento.
Esiodo. Ti dico che, se penso a una cosa passata, alle stagioni già concluse, mi pare di esserlo stato. Ma nei giorni è diverso. Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna. Ma ecco che a ripensarci mi par di nuovo di esser stato contento.
Mnemòsine. Così sarà sempre.(…) Dimmi perché quando mi parli ti credi contento?
Esiodo. Qui posso risponderti. Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva. O come il vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire «Chi è quest’uomo?»
Mnemòsine. Mio caro, ti è mai accaduto di vedere una pianta, un sasso, un gesto, e provare la stessa passione?
Esiodo. Mi è accaduto.
Mnemòsine. E hai trovato il perché?
Esiodo. E’ solo un attimo, Melete. Come posso fermarlo?
Mnemòsine. Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?
Esiodo. Tu stessa lo dici. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello.
Mnemòsine. Non puoi pensarla un’esistenza tutta fatta di questi attimi?
Esiodo. Posso pensarla sì.
Mnemòsine. Dunque sai come vivo. (..)
Esiodo. Che vuoi dire?
Mnemòsine. Voglio dire che tu sai cos’è vita immortale.
Esiodo. Quando parlo con te mi è difficile resisterti. Tu hai veduto le cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e la cosa è per sempre.
Mnemòsine. Esiodo, ogni giorno io ti trovo quassù. Altri prima di te ne trovai su quei monti, sui fiumi brulli della Tracia e della Piena. Tu mi piaci più di loro. Tu sai che le cose immortali le avete a due passi.
Esiodo. Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile. (…) La vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. un fastidio alla fine, Melete. C’è una burrasca che rinnova le campagne – né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate – quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete. (…)
Mnemòsine. Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? e che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
Il limite (ovvero il peccato e la grazia)
Come stimare chi pensa Agostino come disestimatore della ragione, fino a opporlo a Tommaso, e lo reclina sull’interiorità e sull’impotenza da peccato? Basta vederne il disegno architettonico annotando i titoli delle sue opere più note (Città, Confessioni, Trinità), per cogliere il pensatore delle tre massime realtà: politica, soggetto individuato umano, soggetto individuato divino. E anche pensatore della buona vera complessità: il soggetto divino è immediatamente individuato nella sua realtà triplice; la Città” è duplice (realmente, storicamente), senza concessioni al monismo, politico e filosofico, che nel nostro secolo ha fatto colare come mai prima sangue e anima; e la complessità realistica del trattare il soggetto umano come competenza. E qui Agostino spinge la (sua) ragione fino a un coraggio razionale, nell’esercizio della sua competenza, che la storia successiva della ragione ha reso vile: egli ha incluso, nell’esame da parte della ragione, tra i grandi fattori reali del disegno, anche un’offesa stabile detta ‘delitto o ‘peccato, con conseguenze di ferita e crisi per ogni ente, per la Città e per la ragione stessa. E’ dal suo essere costituzionalmente non ‘pura, astratta, dal non esserci ‘ragion pura, che Agostino propone che la ragione deve procedere razionalmente. Essa è dunque razionale nel postulare – da postulante – l’aiuto.
Quello di Agostino è un ragionamento laico: l’uomo è fatto per (sottolineo: 1°: fatto; 2°: per, cioè competenza) lavorare come Dio, cioè sovrano (‘a immagine e somiglianza), ma c’è una precisa ferita e crisi quanto al saper lavorare come Dio (‘peccato). Allora la ragione deve ripartire da qui. Anche difendendo la competenza ferita.
Giacomo Contri, Enciclopedia”, in Tracce, settembre ’96, p.63
Quando però sto per chiudere la mia borsa, accennando che mi si porga la pelliccia, e la famiglia s’è radunata, il padre aspirando l’odore di rum del bicchiere che ha in mano, la madre, probabilmente delusa – e che si aspetta da me la gente? -, che si morde le labbra colle lacrime agli occhi e la sorella che agita un pesante asciugamano intriso di sangue, mi sento in qualche modo pronto ad ammettere anche che il giovane è forse davvero malato. Mi avvicino a lui, egli mi attende sorridendo, come se gli portassi quasi un brodo ristretto – ed ora ho trovato: si, il ragazzo è malato. Sul fianco destro, verso l’anca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca d’una miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancor più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nell’interno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare. Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. La famiglia è felice, perché mi vede all’opera; la sorella lo dice alla madre, questa al padre, il padre ad alcuni ospiti che entrano, in punta di piedi, tenendosi in bilico colle braccia distese, dalla porta rischiarata dal lume di l’una.
« Mi salverai? » sussurra singhiozzando il giovane, abbagliato dalla vita che ferve nella sua ferita.
Franz Kafka, Un medico di campagna
Proprio le persone più oneste, o semplicemente le persone oneste, o insomma coloro che vengono denominati tali, che amano ritenersi tali, non hanno essi stessi difetti nell’armatura. Non sono feriti. La loro pelle morale sempre intatta dà loro un cuoio e una corazza senza difetti. Non presentano quella apertura prodotta da una spaventosa ferita, da un’indimenticabile miseria, da un invincibile rimpianto, da un punto di sutura eternamente mal legato, da una mortale inquietudine, da un’invisibile recondita ansietà, da una segreta amarezza, da un precipitare perpetuamente mascherato, da una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano quell’apertura alla grazia che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, essi non sono più vulnerabili. (…) Le persone oneste” non si lasciano bagnare dalla grazia. E’ una questione di fisica molecolare e globulare. Ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia. Da ciò deriva che la grazia agisce sui sui più grandi criminali e rialza i più miseri peccatori. Perché essa ha cominciato col penetrarli, col poterli penetrare. E da ciò deriva che gli esseri che sono a noi più cari, se sono sfortunatamente ricoperti di morale, sono inattaccabili dalla grazia, impenetrabili. Perché essa comincia col non poter penetrare in essi. (…) Perciò niente è contrario a ciò che si definisce (con un nome un po’ vergognoso) religione quanto ciò che si definisce morale. La morale ricopre l’uomo contro la grazia. E niente è tanto sciocco quanto mettere insieme la morale e la religione. Tutto ciò che è ricoperto dalla cosiddetta morale è perciò stesso ricoperto da quello strato che abbiamo detto impenetrabile per la grazia.
Charles Péguy, Saggio congiunto sul cartesianesimo e la filosofia di Monsieur Bergson
La memoria
E giungo nelle distese e negli ampi ricettacoli della memoria, dove si trovano i tesori di immagini senza numero accumulati da ogni genere di cose percepite. Ivi sta riposto anche il frutto del nostro pensiero, quando aumentiamo o diminuiamo o comunque variamo le nostre sensazioni, o qualunque altra cosa vi sia staia depositata in riserva e che la dimenticanza non abbia ancora assorbita e sepolta. (…)
Tutto ciò si svolge nel mio interno, nella sala immensa della mia memoria. E vi sono, pronti al mio cenno, il cielo, la terra, il mare e tutte le sensazioni che mi hanno dato, ad eccezione di quelle che ho dimenticato. E là anche mi faccio incontro a me stesso, ricordo me stesso, quello che ho fatto e quando e dove, quali emozioni abbia avuto nel farlo. E là sono tutti i ricordi delle esperienze o delle affermazioni credute. E ancora da quel deposito traggo confronti delle cose di propria esperienza o credute per esperienze altrui, queste e quelle collego a casi passati, e da esse deduco quello che farò, gli eventi, le speranze, tutto come se mi fosse davanti. (…)
Grande è questa virtù della memoria, o mio Dio, grande assai, ricettacolo di ampiezza illimitata: e chi potrebbe toccarne il fondo? E una forza del mio spirito, fa parte della mia natura, ma neppure io riesco a contenere tutto quello che sono. O che l’animo è troppo ristretto per contenere se stesso? E dove starà quello di sé che non vi è accolto? Fuori di lui, e non in lui? Come va allora che non vi sta? Una grande maraviglia sorge in me a queste considerazioni: sono invaso da stupore.
Confessioni, libro X, cap. VIII
Cos’è la memoria? Qual è il suo valore? Rispondere a queste due domande non è facile, così lo scrittore Claudio Magris ha cercato il senso della memoria a partire dall’esperienza personale e comune. Ne ha tracciato un percorso durante un incontro a Milano.
‘La memoria è un atto di sfida alla morte’ ha esordito lo scrittore ‘perché mira al recupero di ciò che altrimenti svanirebbe nel nulla. Mentre nulla può svanire, ciò che si presenta fa parte in qualche modo dell’eternità’. E’ esigenza umana, è ribellione a quello che sembra il corso naturale delle cose, a quel loro incamminarsi versi la fine, verso la dimenticanza. Si ricorda quindi a partire da quel sentimento, da quel presentimento che ‘in qualche modo’ un atto, un pensiero, una parola non può scomparire. Proprio perché la memoria salva dal nulla, esso è atto di giustizia e di carità. Giustizia, perché è garanzia contro il male e il dolore. Carità, perché si occupa di salvaguardare tutto quel che è accaduto. Anche ciò che apparentemente conta poco per il mondo. Usando una immagine biblica, si potrebbe dire che è come andare alla ricerca della ‘pietra scartata dai costruttori’.
La memoria è garanzia di libertà: ‘i totalitarismi, tutte le forme di violenza cercano di falsificarla’. Una persona, un popolo che sia consapevole del passato non è strumentalizzabile.
‘La memoria non è il recupero malinconico del passato, non è ricordo nostalgico, ma senso del presente’. Si ricorda perché possa cambiare ora; un ricordo che sia volto solo al passato è inutile. Non è più traghettatore di un’esperienza viva, ma solo di ciò che ormai è finito. ‘Questa memoria va invece intesa come amore che si rivolge al passato e al futuro’ e la prova per un uomo di questo è la storia della salvezza. Anche il tentativo più nobile dell’uomo per far sì che nulla vada dimenticato sarebbe futile, se non esistesse questa memoria, identificata con la promessa fatta da Dio all’uomo. Magris ha tratto una frase da Verde acqua, opera della moglie Marisa, scomparsa dopo una lunga malattia la scorsa estate: ‘Dio, la grande memoria, non poteva non esistere’. Perché in quella memoria è custodita ‘quella promessa di felicità che, pur contraddetta dalle difficoltà di ogni giorno, fa cercare nel presente e nel futuro il senso della vita, l’eterno’.
Tracce, maggio ’97, p. 59
Il male conta sulla certezza che l’erba coprirà le fosse piene di calce viva, che la terra ingoierà i bossoli, che le voci umane finiranno col diventare mute e che la memoria fallirà. L’entropia rende la memoria un obbligo. Ma… le fotografie si decompongono, i libri si disintegrano, le storie falsificano, abbelliscono e infine tradiscono quelli che vogliono salvare.
Nel rito funebre della Chiesa ortodossa russa, i credenti cantano la Vecnaja Pamjat: Eterna memoria, eterna memoria concedigli Signore”. La memoria in questione è quella di Dio. E’ una memoria perfetta: ciascun capello del nostro capo è contato, così come ciascuno dei nostri peccati. Se siamo dimenticati dagli uomini, saremo ancora ricordati da Dio. Questa è la consolazione dei fedeli. Ma qual è la consolazione di chi non ha fede? (…)
noi stessi siamo diventati una forza dell’entropia: abbiamo sguinzagliato il nostro nichilismo, la nostra pulsione verso il nulla. Il genocidio è la perfezione di questa pulsione all’oblio. I morti sono ammucchiati nelle fosse comuni: i cadaveri vengono accatastati l’uno sopra l’altro con una profanazione che toglie alla morte ogni singolarità. Ogni dignità e ogni significato.
Non possiamo più salvare ciascuna delle vittime dall’anonimato delle fosse comuni. Solo la memoria di Dio lo potrebbe, e questo solo se potessimo credere.
Michael Ignatieff, in Internazionale, 15-21 gennaio 1999
Il bene e il male
Diressi il mio sguardo alle cose sotto di Te, e vidi che né sono in modo assoluto né in modo assoluto non sono: per un verso sono, perché sono da Te, per un altro non sono, perché non sono ciò che Tu sei. Infatti è veramente solo ciò che immutabilmente permane. (…)
E mi fu chiaro che che le cose soggette a corruzione sono buone; in quanto non potrebbero corrompersi né se fossero il sommo bene, né se non avessero nulla di buono. Perché, se fossero il sommo bene, sarebbero incorruttibili; se non avessero nulla di buono, mancherebbe l’oggetto della corruzione.
La corruzione implica infatti danno, e se non diminuisce il bene, non c’è danno. Dunque, o la corruzione non reca alcun danno, il che non è possibile, o, il che è certissimo, tutto ciò che si corrompe subisce una diminuzione di bene. Se poi saranno private di ogni bene, assolutamente non saranno. Se infatti esistessero, e non potessero più subire alcuna corruzione, sarebbero migliori, perché permarrebbero incorruttibili. Ora, che cosa si potrebbe dire di più mostruoso, che private di ogni bene sarebbero migliori?
Dunque, se venissero private di ogni bene, non sarebbero nulla; dunque, finché sussistono, sono buone. Ma allora, tutto ciò che esiste è buono, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché se fosse una sostanza, sarebbe un bene: o una sostanza incorruttibile, e dunque un grande bene, o una sostanza corruttibile, che, non essendo buona, non può essere soggetta a corruzione.
Così vidi e mi fu chiaro che Tu hai fatto tutte le cose buone, e che inoltre non esistono sostanze che non siano state fatte da Te. Ma non le facesti tutte uguali; però, in quanto esistono sono tutte buone, e, nel loro complesso, ottime, perché il nostro Dio «ha creato tutto in perfezione». (…)
Del resto, per Te il male non esiste, e non solo per Te, ma anche per tutto ciò che hai creato, poiché nulla dal di fuori può irrompervi e turbare l’ordine che Tu hai stabilito. E’ vero che alcuni elementi, siccome non si armonizzano con certi altri, sono giudicati non buoni; ma quegli stessi invece s’accordano poi con altri e per questo sono buoni; anzi sono buoni in se stessi. E tutte le cose che non si armonizzano tra loro, sono però in accordo con la parte inferiore del mondo, quella che chiamiamo terra, a cui si confà un cielo velato di nubi e spazzato dai venti. Lungi da me ormai il pensiero: « O se tutte codeste cose non esistessero!». Se vedessi codeste sole, potrei certo desiderarne di migliori, ma pur di quelle dovrei darti lode. (…) Non potevo ormai desiderare cose migliori; passandole tutte in rassegna, certo trovavo che quelle che stanno in alto sono più perfette di quelle che stanno in basso; ma ad un giudizio più equilibrato vedevo che il tutto era anche più eccellente che non le parti superiori. (…)
Mi rivolsi poi a considerare le altre cose e vidi che da Te hanno il loro essere e in Te la loro limitazione, non come in un luogo, ma molto diversamente, poiché Tu le racchiudi tutte nella verità, come in una mano, e, in quanto esistono, sono tutte vere; né si ha falsità se non quando si crede che esista ciò che non esiste.
E vidi pure che le cose non solo s’accordano ciascuna con il proprio luogo, ma anche con il proprio tempo, e che Tu, il solo Eterno, non hai incominciato ad operare dopo incalcolabili periodi di tempo, perché i periodi di tutti i tempi, i passati ed i futuri, non andrebbero e non verrebbero, se Tu non operassi, eternamente stabile.
L’esperienza insegna che non c’è da meravigliarsi che il pane, così gradito ad un palato sano, riesca disgustoso ad un palato malato e che la luce sia penosa per gli occhi sofferenti, mentre è piacevole per gli occhi normali. Così anche la tua giustizia è odiosa ai malvagi; e non meno la vipera o il verme, che tu creasti come beni convenienti alle parti inferiori della tua creazione: alle quali sono convenienti i malvagi stessi, e tanto più quanto più sono dissimili da Te, mentre diventano tanto più armonizzanti con gli elementi superiori quanto più si fanno simili a Te. Mi domandai che cosa fosse la malvagità: e trovai non una sostanza, ma il traviamento della volontà dalla somma sostanza, da Te, o Dio, volontà ripiegantesi su ciò che vi è di più basso, gonfiata al di fuori sotto la spinta delle sue interiora.
Confessioni, libro VII, capp. XI-XVI
L’idea di partenza potrebbe essere intrigante, anche se l’espediente non è propriamente originale: un vecchio manoscritto ritrovato in una polverosa libreria. Il contenuto è nientemeno che una lettera scritta ad Agostino, ormai vescovo di Ippona, dalla donna che ne è stata per dodici anni la fedele compagna. Nella lunga confessione, lei gli rimprovera di aver rinnegato l’amore vero, insieme carnale e spirituale, che li legava, barattandolo con una gelida, vuota continenza che rifiuta ogni bellezza del mondo per chiudersi nell’adorazione di un Dio astratto e nemico della vita, della bellezza e del piacere. L’immagine del santo che ne emerge è stata sintetizzata dallo stesso Gaarder in un’intervista al Corriere”: Un monomaniaco, un uomo ossessionato dal sesso e che però vuole liberarsene perché ritiene che sia un male. Tutto il mondo sensibile, il cibo, i fiori, sono un male per lui, e per questo vuole annullare ogni piacere”.
Certo, ad Agostino le donne piacevano, come a tutti. L’idea di lasciar le donne fu fino all’ultimo la più seria obiezione alla conversione. La abbracciò solo quando, a Cassiciaco, conobbe dei cristiani che avevano fatto voto di castità continuando a vivere nel mondo: fu la vista della letizia di costoro a convincerlo. Si arrese, insomma, al cristianesimo, solo quando toccò con mano che la castità può essere, nella carne, un piacere più grande della concupiscenza.
Il giudizio sulla sessualità si innesta sulla persuasione, peraltro diffusa, che per Agostino tutto il mondo sensibile sia male. Gaarder cita a piene mani dalle Confessioni”; ma evita accuratamente il capitolo dodicesimo del settimo libro, dove il vescovo africano formula quella soluzione del problema del male da cui non si allontanerà mai più: Mi fu chiaro che le cose soggette a corruzione” (vale a dire, tutte le cose del mondo) sono buone, perché non potrebbero corrompersi se non fossero buone: la corruzione infatti implica un danno, e, se non ci fosse diminuzione di bene, non ci sarebbe danno: ergo quamdiu sunt, bona sunt; ergo, quaecumque sunt, bona sunt “. Tutto ciò che esiste è buono, è il grido di trionfo con cui Agostino risolve alla fine il travaglio di una vita; il male non è nulla di reale: è solo il limite, la finitezza del bene. Il suo ascetismo non nasce dal disprezzo delle cose: al contrario, dalla consapevolezza che sono buone. Quando Agostino dichiara di voler evitare il piacere del cibo, non lo fa perché il piacere è male, ma perché teme che lo sguardo si fermi sulla bontà del cibo, e non sappia sollevarsi all’origine della bontà. Tutto è buono, perché tutto esce dalle mani di Dio; l’ascesi consiste nel ricordare insieme il limite: il mondo è buono, ma non è il bene.
Per questo gli ultimi anni di Agostino furono impegnati nella lotta senza quartiere contro Pelagio, il virtuoso monaco irlandese che predicava l’inesistenza di ciò che la Chiesa chiama peccato originale; non diversamente, in fondo, da Gaarder: il mondo coincide con il bene, non c’è ferita nella condizione umana, ciascuno può con le sue forze essere buono, santo e giusto, se lo vuole. Morale, per dirla con Péguy. Il vescovo d’Ippona vide con chiarezza la minaccia mortale che l’eresia pelagiana rappresentava per il cristianesimo: se l’uomo non ha nulla da cui essere salvato, l’annuncio di un Salvatore è una noiosa assurdità. Nella lotta senza quartiere contro l’ottimismo pelagiano fu inevitabilmente portato a sottolineare gli aspetti negativi della condizione umana. L’immagine di Agostino pessimista nasce da alcuni temi della battaglia antipelagiana, letti al di fuori del loro contesto polemico, dimenticando il giudizio positivo sul mondo che sta al cuore della filosofia di Agostino così come della fede cristiana.
Recensione a Jostein Gaarder, Vita Brevis, su Il foglio, 5/11/98