Il treno ha fischiato di Luigi Pirandello
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28 Dicembre 2019“Il treno ha fischiato” è una delle novelle più emblematiche di Luigi Pirandello, inclusa nella raccolta “Novelle per un anno”.
La storia ruota attorno alla figura di Belluca, un umile impiegato che, dopo anni di sottomissione e monotonia, subisce una sorta di “risveglio” interiore. Questo cambiamento è innescato da un evento apparentemente banale: il fischio di un treno sentito di notte.
Trama e sviluppo
La novella inizia con i colleghi di Belluca che, scioccati dal comportamento inusuale dell’uomo, credono che sia impazzito. Il mite e sottomesso Belluca, dopo una vita di mansuetudine, si è ribellato al suo capo-ufficio, arrivando quasi ad attaccarlo fisicamente. I medici lo considerano vittima di una “febbre cerebrale”, mentre i colleghi si dilettano a ripetere termini scientifici come “frenesia” o “encefalite”. Nessuno, tuttavia, cerca di capire realmente cosa sia successo a Belluca o cosa possa aver causato questo cambiamento.
La svolta si verifica quando Belluca rivela la causa della sua ribellione: ha sentito fischiare un treno. Questo suono, che per gli altri appare insignificante o incomprensibile, è per Belluca un simbolo di evasione dalla sua vita grigia e opprimente. Prima di quel momento, la sua esistenza era stata una sorta di prigionia, una vita impossibile segnata dalla totale mancanza di speranza o distrazione.
Il significato del treno
Il fischio del treno diventa per Belluca il simbolo del mondo che esiste al di fuori della sua prigione personale. Per anni, egli era stato completamente assorbito dai suoi doveri familiari e dal suo lavoro, tanto da dimenticare che esistesse una realtà al di là del suo ufficio e della sua casa, dove viveva in condizioni insopportabili con tre donne cieche da accudire. La sua vita era una routine opprimente, fatta di lavoro incessante, rumore, fatica e nessuna possibilità di svago.
Il fischio del treno rappresenta per Belluca una finestra verso un mondo più ampio, fatto di libertà, avventure e possibilità. Con quel suono, Belluca si ricorda di Firenze, Torino, Venezia, luoghi che aveva conosciuto in gioventù, quando il mondo sembrava pieno di promesse. Ora, grazie a quel fischio, Belluca si rende conto che il mondo è ancora là fuori, vivo e pulsante, e che egli, almeno con l’immaginazione, può evadere da quella sua vita soffocante.
Il risveglio di Belluca
La ribellione di Belluca non è quindi il segno di una malattia mentale, come pensano i suoi colleghi, ma un atto di resurrezione interiore. Dopo anni di “cecità”, Belluca si risveglia e si ribella alla sua condizione. Non è impazzito, ma ha finalmente riconosciuto l’assurdità della sua esistenza, e il fischio del treno gli ha offerto una via di fuga, seppur soltanto mentale.
Belluca non desidera rivoluzionare la sua vita in modo concreto; non chiede di fuggire fisicamente. Gli basta, di tanto in tanto, “fare una capatina in Siberia o nelle foreste del Congo” con l’immaginazione. Questo gli dà la forza di continuare a vivere la sua vita impossibile. La fuga nell’immaginazione è sufficiente per dargli sollievo e permettergli di sopravvivere.
Temi principali
- L’alienazione e l’inettitudine: La novella esplora il tema dell’alienazione nella vita moderna. Belluca è l’archetipo dell’inetto pirandelliano, un uomo intrappolato in una vita di routine e oppressione, incapace di trovare una via d’uscita fino al suo risveglio simbolico. La sua ribellione non è tanto contro il lavoro o contro il capo, ma contro la vita priva di libertà e immaginazione che ha condotto fino a quel momento.
- La fuga dalla realtà: Il fischio del treno simboleggia la possibilità di evasione dalla realtà. In una vita grigia e senza speranza, l’immaginazione diventa l’unico mezzo per sopravvivere. Questo tema dell’evasione mentale è ricorrente nell’opera di Pirandello, dove i personaggi spesso si rifugiano in una dimensione parallela per sfuggire alla soffocante realtà quotidiana.
- L’umorismo tragico: La storia di Belluca, pur contenendo elementi comici e paradossali, è profondamente tragica. L’umorismo pirandelliano emerge dal contrasto tra la comicità della situazione e la triste realtà che si cela dietro di essa. Belluca non è pazzo, ma ha semplicemente riscoperto la bellezza del mondo dopo anni di alienazione.
Conclusione
“Il treno ha fischiato” è una novella che sintetizza perfettamente la poetica di Luigi Pirandello, incentrata sulla crisi dell’identità e la frattura tra l’individuo e la società. Attraverso la figura di Belluca, Pirandello riflette sulla condizione dell’uomo moderno, imprigionato in una vita che non gli appartiene e costretto a trovare vie di fuga immaginarie per sopravvivere. L’apparente follia di Belluca non è altro che un atto di resistenza e di risveglio: il fischio del treno è il segnale che gli ricorda che il mondo esiste ancora e che, anche se per pochi istanti, è possibile evadere e respirare un’aria diversa.
Testo della novella “Il treno ha fischiato”
Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
— Frenesia, frenesia.
— Encefalite.
— Infiammazione della membrana.
— Febbre cerebrale.
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo cosí contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
— Morrà? Impazzirà?
— Mah!
— Morire, pare di no…
— Ma che dice? che dice?
— Sempre la stessa cosa. Farnetica…
— Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione piú semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo piú mansueto e sottomesso, piú metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto… sí, chi l’aveva definito cosí? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, librimastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosí per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse piú, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale.
Tanto piú che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con piú di mezz’ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Cosí ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
— E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.
— Che significa? — aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. — Ohé, Belluca!
— Niente, — aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. — Il treno, signor Cavaliere.
— Il treno? Che treno?
— Ha fischiato.
— Ma che diavolo dici?
— Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…
— Il treno?
— Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare cosí Belluca, giú risate da pazzi.
Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non piú, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva piú, non voleva piú esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
— Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano piú i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto piú stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giú, amaramente, e dissi:
— Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.
Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa piú ovvia, l’incidente piú comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà piú tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro.
«Una coda naturalissima.»
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, piú intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sí, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
— Magari! — diceva. — Magari!
Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.
S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato piú! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sí, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosí… c’erano gli oceani… le foreste…
E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sí, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:
— Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…