Tedesco
27 Gennaio 2019Simone Feneri
27 Gennaio 2019
Da quando, il 29 settembre 2000, la polizia israeliana ha sparato contro i manifestanti sulla Spianata delle Moschee, per i palestinesi è cominciata l’intifada di Al-Aqsa. Finora sono stati uccisi almeno 105 palestinesi (fra cui 13 arabi-israeliani) e 9 israeliani. Oltre 3000 palestinesi sono stati feriti. Ma la provocazione del leader della destra israeliana Ariel Sharon che il 28 settembre era andato sullo Haram al-Sharif (nome arabo della Spianata delle Moschee), non basta a spiegare questa violenza. Come si è arrivati a questo punto?
DIETRO LA GUERRA
«L’accordo di Oslo (13 settembre 1993) sancisce che Israele e lOlp riconoscono i loro reciproci diritti legittimi e politici, operano allo scopo di vivere in un clima di coesistenza pacifica, di rispetto e di sicurezza reciproca e intendono instaurare una pace giusta, durevole e globale, nonché una riconciliazione storica”.
I diritti? Per gli israeliani, la parola chiave è legittimo”: il popolo ebraico è a casa sua in Erez Israel. Per i palestinesi, questi diritti sono prima di tutto politici” (ritiro israeliano dai territori occupati e indipendenza). Entrambi i popoli vogliono coesistenza e pace: due principi reciprocamente riconosciuti. Il primo riassume la filosofia dei negoziati nella formula la terra in cambio della pace”. Il secondo consiste nel risolvere i problemi allo scopo di instaurare un clima di fiducia. Infine, il periodo transitorio che dovrebbe portare allo status finale” non deve superare i 5 anni. Le scadenze, elemento chiave di questa fiducia, non sono state rispettate fin dall’inizio e gli accordi temporanei sono stati applicati sempre più tardi del previsto e sono stati molto più restrittivi di quanto sperassero i palestinesi. All’origine di queste lungaggini ci sono l’incapacità palestinese di rispondere alle garanzie di sicurezza richieste dagli israeliani e la crescente convinzione israeliana che si debba mollare il meno possibile prima di affrontare le questioni di fondo. All’apertura della conferenza di Camp David, l’11 luglio 2000, l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) è di fatto internazionalmente riconosciuta sotto il nome di Palestina. Il suo stato è in generazione, con un governo, un parlamento e una polizia. LAnp ha ottenuto un aeroporto a Gaza e una strada che collega le due parti della sua entità” (striscia di Gaza e Cisgiordania).»
(Sylvain Cypel – Internazionale” – 20/10/2000)
LA GUERRA DELLE MAPPE
« La deformazione dei giornali sulla situazione in Medio Oriente hanno reso quasi impossibile capire la base geografica degli avvenimenti di questo che è il più geografico di tutti i conflitti. Il punto centrale è che le importanti soluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu -la 242 e la 338 – sono ormai dimenticate, perché Israele e Stati Uniti le hanno archiviate. Entrambe le risoluzioni stabiliscono chiaramente che la terra ottenuta da Israele con la guerra del 1967 deve essere restituita in cambio della pace. I negoziati di Oslo sono cominciati gettando di fatto queste risoluzioni nella spazzatura. La stampa statunitense ha parlato più volte della generosa” offerta di Israele e della disponibilità di Barak a concedere ai palestinesi una parte di Gerusalemme Est, più una zona tra il 90 e il 94 per cento della Cisgiordania. Eppure nessun giornalista statunitense o europeo ha indicato esattamente che cosa il premier israeliano era disposto a concedere” e di quale territorio in Cisgiordania stava offrendo” il 90 per cento. L’intera faccenda era una plateale assurdità. Israele, infatti, vuole annettersi il 10 per cento della Cisgiordania, si rifiuta di smantellare o di sospendere la costruzione degli insediamenti e non accetta di ritornare ai confini del 1967 e di restituire Gerusalemme Est. Da tutto questo emerge chiaramente come il famoso 90 per cento” si riduce rapidamente a qualcosa come il 50-60 per cento. Vale la pena di ripetere, naturalmente, che Israele è a tutt’oggi l’unico Stato del mondo senza frontiere sancite ufficialmente. E se guardiamo a quel 50-60 per cento nell’ottica dell’ex-Palestina, ci accorgiamo che rappresenta circa il 12 per cento del territorio da cui i palestinesi furono scacciati nel 1948. Gli Israeliani parlano di concedere” questi territori. Ma essi furono conquistati e , in senso stretto, l’offerta di Barak significa soltanto che ora verrebbero restituiti, e non certo nella loro interezza. Nel 1948 Israele si impossessò di gran parte di quella che era la Palestina storica o sotto il mandato britannico. La Cisgiordania e Gaza, tuttavia, andarono rispettivamente alla Giordania e all’Egitto. Entrambe vennero successivamente occupate da Israele nel 1967 e rimangono sotto il suo controllo ancora oggi. Le dimensioni e i contorni di queste zone sono stati decisi unilateralmente da Israele. Ben pochi sanno che in base alle condizioni di Oslo le zone palestinesi con questa forma di autonomia o autogoverno non godono della sovranità. In altri termini, Israele si è preso il 78 per cento della Palestina nel 1948 e il restante 22 per cento nel 1967. Oggi è in discussione solo questo 22 per cento, con l’esclusione del settore occidentale di Gerusalemme perché Arafat lo ha concesso in anticipo a Israele a Camp David.»
(Edward W. Said – Internazionale” – 26/01/2001)
BARAK-ARAFAT, TENTATIVI DI VERTICE
«GERUSALEMME – Israeliani e palestinesi non solo erano a un passo dall’intesa, ma avevano già fissato la data per firmarla: il 15 marzo. Questo è quanto emerge da un articolo comparso sul quotidiano Maariv. Secondo le due parti Arafat e Barak avrebbero dovuto incontrarsi a Stoccolma per colmare le ultime differenze e annunciare il successo al mondo intero. Ma lo schiaffo di Davos, con le accuse del presidente palestinese al fascismo israeliano”, ha rimesso tutto in discussione. Per sole 24 ore. Barak, dopo aver escluso futuri contatti, ha dato carta bianca ai suoi collaboratori per organizzare un ultimo summit. Che potrebbe tenersi in Egitto domenica 4 Febbraio con la partecipazione del presidente egiziano Mubarak e del re giordano Abdallah. Obiettivo dell’incontro non è certo quello di firmare un accordo. Ma piuttosto consentire a Barak e Arafat di fare una dichiarazione per sottolineare i progressi. Il testo potrebbe convincere gli israeliani che la storia dell’intesa non è solo un bluff elettorale. Potrebbe indurre gli arabo-israeliani a votare per Barak. Un aiuto in extremis per il premier sull’orlo della sconfitta. I sondaggi concedono infatti al rivale Sharon un vantaggio che oscilla tra il 16 e il 22 per cento. Quattro i punti chiave del piano di pace.
TERRITORI: stato palestinese nel 94-96 per cento della Cisgiordania. Il restante 5 per cento a Israele con l’80 per cento delle colonie (inclusi i sobborghi di Gerusalemme).
GERUSALEMME: quello che è ebraico andrà agli ebrei quello che è musulmano ai palestinesi. I luoghi santi verranno gestiti da un’amministrazione congiunta per cinque anni con la sovranità sospesa o trasferita a terzi. Israele amministrerà il Muro del pianto, la Palestina, le moschee. Dopo 5 anni si dovrà discutere la sistemazione definitiva.
SICUREZZA: i palestinesi accettano gran parte delle richieste israeliane, con presenza militare in caso di emergenza nei luoghi santi e stazioni d’osservazione per un periodo di 6 anni nella valle del Giordano.
RIFUGIATI: Israele accetta il rientro dei profughi palestinesi solo nello Stato palestinese in un’area israeliana che verrà assegnata ad Arafat. Tra le dune sabbiose di Halutza (nel Negev) dovrebbero sorgere alcuni centri abitati. Israele contribuirà alla costruzione. Sempre lo stato ebraico parteciperà alla compensazione dei rifugiati e permetterà, su scala limitata, il ricongiungimento delle famiglie.
Detto così sembra tutto facile. Ma la realtà è ben più dura. L’esercito israeliano ha annunciato di aspettarsi un aggravamento della situazione dopo le elezioni, con attacchi, violenze e rischi di scontri generalizzati con i palestinesi. Al confine col Libano sono possibili incursioni dei guerriglieri palestinesi. I fedain del gruppo di Jibril sono pronti ad agire.»
(Guido Olimpio – Corriere della Sera” – 01/02/2001)
PALESTINA, LA PACE DOPO SHARON
«Ci sono, nella situazione palestinese-israeliana, una semplicità e una complessità che non devono nascondersi reciprocamente. Da una parte gli occupati; dall’altra gli occupanti. Da una parte, bambini e adolescenti che lanciano pietre, poliziotti dotati soltanto di armi leggere; dall’altra, soldati che sparano pallottole vere sui civili, carri armati, missili, elicotteri da combattimento, la repressione che ghettizza le popolazioni, trasforma i loro territori in campi di concentramento temporanei, soffoca l’economia, distrugge abitazioni e colture. Da una parte, oltre 400 morti e più di 12000 feriti, dei quali più di 4000 sono fanciulli e adolescenti; dall’altra, 43 morti e un centinaio di feriti. La rivolta non è nata per un caso assurdo, giacché per l’intero corso dei negoziati si è continuato a insediare colonie in Cisgiordania, a non rispettare gli impegni e a offrire una pace spilorcia, contrabbandata per generosa. Sicuramente, una pace onorevole per le due parti ridurrebbe la reale insicurezza di Israele, accrescerebbe le sue possibilità d’inserimento pacifico ne Medio Oriente. Però questa pace sarebbe una scommessa, la sola in grado di aumentare le sue chance future, ma non di garantirne la sicurezza. All’insicurezza del futuro si collega quella del passato recente. Un sentimento di insicurezza derivante dall’esperienza secolare per la quale gli ebrei non hanno mai potuto raggiungere la certezza di un inserimento tranquillo nel mondo dei gentili. Le insicurezze del passato e quelle del futuro si collegano, risvegliandosi bruscamente a ogni attentato. In questo contesto la politica della forza sembrerebbe la giusta risposta alla minaccia. Da qui il primo paradosso: il problema fondamentalmente semplice delle relazioni Israele – Palestina è al tempo stesso un problema fondamentalmente complesso. Secondo paradosso: quanto più Israele cerca di garantire la sua attuale sicurezza ricorrendo alla forza, tanto più accresce la sua insicurezza futura. Terzo paradosso. Rassicurare Israele significa per i palestinesi abbandonare le rivendicazioni legittime, accettare uno status di vassallaggio, subire il controllo terrestre permanente delle colonie, delle frontiere esterne e dello spazio aereo. Quarto paradosso: allorché i palestinesi si sono limitati a negoziare senza mezzi di pressione, gli israeliani hanno continuato a insediare colonie e a proclamare il carattere eterno della loro presenza a Gerusalemme. Quando i palestinesi hanno fatto ricorso alle pressioni tramite l’Intifada, hanno ottenuto che alcune delle loro rivendicazioni fossero prese in considerazione, ma hanno anche provocato un aggravamento del sentimento di inquietudine negli israeliani e lo sviluppo dello sharonismo”. Ecco dunque la fondamentale complessità della situazione che ne provoca allo stesso tempo lo sviluppo e la regressione: quando i negoziatori procedono verso un accordo, la situazione regredisce in Israele e Palestina. Il rischio di catastrofe e le chance di pace crescono simultaneamente. Nell’ipotesi di un accordo, il conflitto tra le due parti si sposterà all’interno di ciascuna di esse. C’è, in Israele, una minoranza lucida che demistifica il mito della terra senza popolo”, rivela gli aspetti occulti della guerra del 1948, mostra che la memoria vittimista del passato non deve far dimenticare le vittime palestinesi di oggi, attacca il culto della Shoah” perché separa per sempre gli ebrei dal mondo dei gentili. Ripensare l’esperienza ebraica dovrebbe rendere capaci di comprendere le sofferenze dei palestinesi mostrando a Israele che da mezzo secolo infligge loro ciò che ha subito dagli europei per più di un millennio. Ma questo cambiamento di psicologia, che può avvenire soltanto in condizioni nuove, ci riporta al problema politico di una strategia di pace per la quale occorre il riconoscimento del dovere morale israeliano nei riguardi della Palestina e di quello palestinese rispetto al problema dell’insicurezza israeliana. Qui la politica richiede un grande atto etico: il perdono reciproco per tutti i crimini perpetrati da una parte e dall’altra. Non si può dimenticare né dissimulare, ma occorre rompere con la legge del taglione. Per quanto riguarda il diritto al ritorno dei palestinesi cacciati, non dovrebbe essere respinto con il pretesto che permettere il rientro in massa di 4 milioni di persone sarebbe un suicidio per Israele. Si tratta di riconoscere il diritto morale alla riparazione e di conseguenza all’integrazione in Israele e nel Medio Oriente di tutti quelli che non hanno potuto essere integrati altrove. Nella situazione attuale, tuttavia, i due protagonisti isolati non sono in grado di arrivare alla pace. Non si può lasciare alle sole pressioni dei fomentatori di discordie e al solo controllo degli Usa il destino di questa tragedia storica. Il peso delle nazioni arabe, quello dell’Europa che finge ancora di dormire, sono ormai divenuti necessari.»
(Edgar Morin – La Stampa” – 06/02/2001)
L’ALLARME UNICEF: DELLE VITTIME, UN QUARTO SONO BAMBINI
«ROMA, 19 OTTOBRE – Nel conflitto in corso tra israeliani e palestinesi sono state uccise oltre 100 persone; di queste più di un quarto sono bambini o adolescenti sotto i 18 anni”. La denuncia arriva dal direttore dell’Unicef Carol Bellamy, che, intervenendo alla quinta sessione Speciale della Commissione sui Diritti Umani, ha lanciato un appello a entrambe le parti in conflitto a salvaguardare i bambini dalla violenza”. In particolare, Bellamy ha chiesto alle autorità israeliane di assicurare subito che i ragazzi sotto i 18 anni non siano bersaglio nel conflitto e all’Autorità Palestinese di usare forti misure atte a scoraggiare chi, sotto i 18 anni, vuole prendere parte a qualsiasi azione violenta. Il direttore dell’Unicef rileva infine che il conflitto in atto in Medio Oriente sta minacciando i diritti di base dei bambini, in particolare il diritto a vivere in pace”.»
(Il Giorno” – 20/10/2000)
-LE OPINIONI DEI PROTAGONISTI
ARAFAT MI RISPETTA, LO SAPRÒ CONVINCERE”
«GERUSALEMME – Martedì, Sharon potrebbe diventare primo ministro senza avere mai affrontato Barak in un dibattito, senza aver concesso interviste televisive, senza averne date neppure ai maggiori giornalisti israeliani o stranieri. Così, al cronista non resta che seguire Sharon nei bagni di folla” dalla rigida coreografia, nei comizi per un pubblico ben selezionato . Ecco dunque un campione dello Sharon-pensiero.
Barak afferma che non c’è alternativa al negoziato di pace con i palestinesi. Lei è d’accordo?
No. Così dicendo, Barak ammette implicitamente che Israele accetterà qualunque richiesta da parte palestinese, visto che non esistono alternative al negoziato. E’ un invito ai palestinesi a presentare richieste sempre maggiori. Per cui, anche ammesso che sia vero, e secondo me non lo è, è un errore dire cose del genere”.
Se non è vero, quale sarebbe secondo lei l’alternativa al processo di pace iniziato a Oslo sette anni fa?
Il processo di pace nato a Oslo non esiste più. E’ morto e sepolto, ucciso dai palestinesi. La base del negoziato era che da quel momento tutte le dispute dovevano essere risolte al tavolo della trattativa, non con la violenza. Ma dopo quattro mesi di violenza, durante i quali Barak ha continuato a trattare come niente fosse con Arafat, è chiaro che gli accordi di Oslo non sono più validi”.
Quindi, se sarà eletto primo ministro, lei non avvierà un negoziato di pace con Arafat?
Io faccio solo quello che dico e dico solo quello che intendo fare. Ho già avuto contatti con i palestinesi, anzi in verità non li ho mai interrotti. Ad Arafat ho fatto sapere che per prima cosa deve finire ogni violenza e lui deve riprendere attivamente la lotta al terrorismo. Poi il negoziato potrà partire”.
Lei però rifiuta persino di stringere la mano al capo dell’ Olp.
In Medio Oriente, stringere la mano ha un significato particolare. Tra due nemici, è meglio farlo alla fine che all inizio di un negoziato. Aggiungo che, anche senza stringergliela, nel 98 ho negoziato per dieci giorni seduto di fronte ad Arafat, quando ero ministro degli Esteri del governo diretto da Netanyahu”.
Qualcuno dice che lei odia gli arabi.
Vogliono farmi passare per uno che mangia arabi a colazione. Niente di più falso. Io mi sono trovato di fronte gli arabi in battaglia, li ho visti combattere fino alla morte, e li rispetto. In guerra ci si uccide, ma non ho mai maltrattato un prigioniero arabo, non ne ho mai umiliato uno. Provo rispetto persino per le loro posizioni”.
Barak sostiene che non rinuncerà mai al monte del Tempio. Ma insiste che tra i due popoli è necessaria una separazione fisica, anche a Gerusalemme.
Parole. Nella pratica non ci ha mai spiegato dove passerebbe questa linea di demarcazione, come separerebbe la Città Santa. E non ce lo spiega perché Gerusalemme è indivisibile”.
Lei una volta si è detto pronto a fare dolorose concessioni per la pace. Cosa intende?
Intendo che non rioccuperemo Nablus e Gerico. Per me, questa è una concessione molto dolorosa, perché tutti quei luoghi sono la culla dell Ebraismo.
Nel 1983 una commissione dinchiesta israeliana la riconobbe responsabile per le stragi nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, commesse dalle falangi cristiano libanesi, alleate di Israele, durante l’invasione del Libano, quando lei era ministro della Difesa. Non pensa che dovrebbe scusarsi per quanto avvenne?
Non capisco perché dovrei farlo. Ho già espresso il mio rammarico. Penso che quel che avvenne fu una tragedia. Ma la commissione mi ritenne ‘indirettamente responsabile solo perché non avevo immaginato che una cosa del genere potesse accadere. E non fui il solo a non prevederlo: sbagliarono anche il Mossad, i servizi segreti militari, lo Stato Maggiore delle Forze Armate. Dunque non devo scusarmi per qualcosa di cui non fui responsabile”.»
(Enrico Franceschini – La Repubblica” – 05/02/2001)
QUANDO LA PACE NON E’ SOLO AMORE”
«Quando tutto sembra finito, ti rimane sempre il domani”. Così Igor Man, giornalista decano esperto dei problemi del mondo arabo, interpreta lo storico dramma del Medioriente, il conflitto tra palestinesi e israeliani. Lui, che ha attraversato cinquant’anni di giornalismo, sbattendo contro la storia, ha visto e raccontato decine di guerre: dal Vietnam alle guerriglie dell’America Latina, dalla Cuba di Fidel Castro alle tragedie arabe. Igor Man ha voluto raccontare, forte dei sui cinquant’anni di esperienza mediorientale, una verità su due popoli che sembra non vogliano arrendersi a quel sogno chiamato “Salam” in arabo, “Shalom” in ebraico. Pace.
Cosa significa l’elezione di Sharon “il falco”, neo presidente israeliano, per il processo di pace in Medioriente?
L’apparenza che ho, dopo cinquant’anni di Medioriente, è che sia un totale disastro. La situazione israeliana è abbastanza drammatica, e lo dimostra il fatto che alle elezioni nessuno è andato a votare. Quelli che hanno votato hanno plebiscitato in forza della disperazione. Il dramma fondamentale del Medioriente è che c’è lo scontro di due sacrosanti diritti: quello di Israele che vuole vivere in pace nei domini riconosciuti e quello dei palestinesi che vorrebbero riavere la loro terra. Sono due diritti legittimi: non si può parteggiare né per l’una né per l’altra parte. Questa è la vera tragedia. Sembrava che dopo circa un secolo di odio, grazie a Rabin, presidente israeliano fino al 1995, anno della sua morte, si fosse avviata la strada del buon senso. Lea Rabin, la moglie, un giorno mi disse a proposito della pace: “Per voi cristiani la pace è amore, per noi israeliani è semplicemente il contrario della guerra”. Ora avendo scelto il falco Sharon, l’uomo della strada disperato avrà pensato che in un certo momento i “corvi palestinesi”, come li chiama lo stesso Sharon, saranno schiacciati dal terribile guerriero”.
Che ruolo ha giocato Barak, primo ministro laburista uscente, in questi risultati?
Barak ha fallito non soltanto come uomo politico, ma è riuscito a rimpolpare quell’odio simmetrico che avvelena sia israeliani che palestinesi, quell’odio che era rimasto sottopelle, dando l’impressione che questi “popoli di dio” riuscissero lentamente a recuperare terreno. Non basta riconoscersi ufficialmente, quel che è importante è conoscersi; purtroppo un “pio giovinetto” ha ucciso l’uomo della pace Rabin e dal quel momento non c’è stata più tregua, tutto è crollato. Apparenza e sostanza sono due cose ben diverse”.
Secondo lei un governo di “unità nazionale” in Israele potrebbe essere la soluzione?
Può anche darsi che Sharon e i suoi consiglieri si convincano che la realtà terrena sia più convincente di ogni altro mezzo. E’ chiaro: Israele è la quinta potenza mondiale in termini di armi atomiche, la sua aviazione è superiore del 40% a quella della Nato; però un conto è fare una guerra convenzionale, un altro è combattere casa per casa e fare la guerriglia urbana. Sharon lo ha visto in Libano nell’82. Può darsi che sia maturata nella mente di quest’uomo e dei suoi consiglieri l’idea che alla fine sia necessario rassegnarsi e fare la pace. Ecco perché Arafat, il leader storico palestinese, ha mandato un telegramma, se vogliamo sconcertante, a Sharon in cui dice: “Accettiamo il verdetto”. La partita non è più tra Arafat e Sharon, ma è tra i gruppi estremistici israeliani, che stanno dilagando, mossi soprattutto dalla paura, e gli estremisti palestinesi che sono mossi da un disegno per me folle, irredentistico, il combattimento”.
Il partito del Likud, la destra israeliana, potrà fare ciò che i laburisti, guidati da Barak, non sono riusciti a realizzare?
In teoria sì, infatti abbiamo precedenti illustri quali Begin che fece la pace con Sadat a Camp David, nel 1978, quando sembrava assurdo che il traguardo della pace tra Israele e Egitto potesse essere raggiunto; poi abbiamo l’esempio storico, il più grande, quello di De Gaulle che risolse la questione in Algeria; De Gaulle, presidente francese fino al 1969, era un uomo di ultra destra: però questi erano uomini di buon senso, che non avevano nutrito la propria esistenza di odio in una regione paradossalmente “santa”, dove si dovrebbero sentire forti impulsi d’amore e dove invece si è visto scorrere molto sangue, nei secoli dei secoli. La speranza che un uomo di destra, come già altre volte è accaduto, possa realizzare una pace c’è; ma non sarà mai la pace di Arafat e Rabin”.
L’elezione di Peres, premio Nobel per la pace insieme a Rabin e Arafat, avrebbe restituito una speranza al processo di pace?
Se Peres si fosse candidato al posto di Barak? Barak ha dimostrato di essere non solo uno scadente politico, ma anche un pessimo pianista, un uomo di grande arroganza intellettuale, un terrorista che voleva fare il politico. Se Peres si fosse candidato, il risultato sarebbe stato capovolto o almeno pareggiato: Peres è un grande personaggio, un uomo molto colto, un vecchio “polacco miserabile”, nel senso buono della parola. Ma non ha quella che noi volgarmente chiamiamo grinta: lo ha dimostrato subito dopo la morte di Rabin”.
Sharon ha detto che Arafat ha due facce, una per l’Occidente e una nascosta che in silenzio, con la politica del non intervento, appoggia la Jihad islamica e di fatto appoggia l’uso delle bombe; lei cosa ne pensa?
Questo mi sembra un normalissimo linguaggio di propaganda. I due si odiano cordialmente perché Sahron non è riuscito a schiacciare il pilota Arafat nell’82, nell’infausta improvvida spedizione di pace in Galilea, nel Sud del Libano; si odiano perché Sharon è un uomo che non esita ad uccidere. Sharon è un grande soldato, talmente grande che è stato riconosciuto da una corte israeliana oggettivamente responsabile di alcune delle stragi più sanguinose in Libano. Successivamente venne messo da parte perché Israele è un paese normale, civile, che non poteva ammettere il mandante di brutali assassini al potere. Poi siccome “la storia è un regista ironico” oggi ci troviamo questo signore dalle mani poco pulite a capo di un magnifico paese, che altro non sogna se non la pace”.
Ma Arafat per dare finalmente al suo popolo la pace, a quanto è disposto a rinunciare?
Arafat è in profonda difficoltà, è combattuto fra una guerra ad oltranza che costerà molto sangue per affermare attraverso un neo risorgimento il diritto dei palestinesi ad avere la propria patria. E’ disposto a sacrificare tanta gente? forse sì o forse no. Secondo me Arafat è combattuto. In Palestina c’è un’esigua minoranza che vorrebbe fare la guerriglia, sacrificare il proprio sangue perché diventi il “collante” di una nazione chiamata Palestina. Invece poi ci sono i vecchi combattenti che hanno ormai i capelli bianchi che inneggiano alla prudenza, “non possiamo sfidare il mostro” dicono”.
Nel futuro del Medioriente, c’è scritta la parola pace?
Come dicono gli avvocati: allo stato degli atti buio, buio, buio! Però, ripeto, come diceva Ben Gurion, il padre della patria israeliana, “quando tutto sembra finito ti rimane sempre il domani”. E oggi un grande scrittore ebreo, aggiunge “ti rimane anche il dopodomani””.»
(Antonella Loi)
IO ACCUSO ARAFAT”
«Il discorso pronunciato da Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace, nel corso di una manifestazione di solidarietà a Israele:
Siamo qui riuniti per manifestare la nostra solidarietà verso Israele. Siamo indignati dal voto ipocrita del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, invece di condannare le eccessive reazioni da parte dei palestinesi, ha preferito condannare la risposta israeliana a tali violenze. Noi sosteniamo Israele, e sottolineiamo che la violenza gli è stata imposta, suo malgrado, dall’intransigenza del leader dell’Autonomia Palestinese.
Coloro tra noi che rifiutano l’odio ed il fanatismo e che considerano la Pace come l’ultimo dei valori nobili rimasti, sono costretti a riconoscere Yasser Arafat per quello che è: un essere scaltro e indegno di fiducia.
Noi abbiamo creduto in una pace intelligente fra Israele e i suoi vicini arabi, in particolare i palestinesi. Avevamo dei sogni popolati da bambini israeliani e palestinesi che giocavano insieme, studiavano insieme, ridevano insieme e scoprivano i loro rispettivi mondi. Il dolore, l’agonia, la morte di un bambino, chiunque esso sia, rappresenta un dramma per noi. Ma perché Yasser Arafat non protegge i suoi bambini anziché servirsene come scudi per coprire gli adulti che sparano con i kalachnikov? E’ col cuore pesante che dichiariamo che i nostri sogni di pace si sono dissolti nei fumi delle sinagoghe saccheggiate, nei linciaggi e nei pestaggi dei soldati israeliani prigionieri, e nelle folle assetate di sangue che urlano la loro visione di una Gerusalemme senza ebrei e di un Medio Oriente senza Israele.
E io considero responsabile di questa situazione il massimo leader dei Palestinesi, Yasser Arafat.
Rifiutando le concessioni israeliane generose e senza precedenti, ha seppellito il processo di pace; così agendo, ha tradito la fiducia dei suoi partner israeliani, ma anche quella del Presidente Clinton e di altri dirigenti internazionali, allo stesso modo in cui ha tradito la più alta onorificenza che la società possa conferire a una personalità. Liberando una folla violenta e sanguinaria nelle strade invece di guidare la frustrazione del suo popolo attraverso idee di coesistenza e di pace, ha rinunciato alle loro aspirazioni legittime di un futuro senza sofferenze e senza odio.
Io lo considero responsabile dell’omicidio del Rabbino Hillel Lieberman e del linciaggio dei due riservisti. Tutte le sue promesse si sono rivelate menzogne; tutti i suoi impegni non sono stati rispettati.
Sotto la sovranità israeliana, Cristiani, Ebrei e Musulmani sono completamente liberi di pregare senza paura a Gerusalemme, la nostra capitale, che è il centro della storia ebraica. Un ebreo può essere ebreo lontano da Gerusalemme, ma non senza Gerusalemme. Un ebreo può non vivere a Gerusalemme, ma Gerusalemme vive in ogni ebreo.
Nessun’altra nazione più della nostra si identifica nella sua storia. Nessun altro popolo è stato più fedele al suo nome, né ha celebrato la sua storia con così tanto fervore. Nessuna delle nostre preghiere è cosi appassionata come quelle che parlano di Gerusalemme. Gerusalemme è il sogno dei nostri sogni, la luce che illumina i nostri momenti più cupi. La sua legittimità si fonda sulla sua sovranità. Opporsi a una di queste due significa negare l’altra.
Israele non l’abbandonerà mai.
Io accuso Yasser Arafat di essere moralmente debole, politicamente miope e di ostacolare ogni processo di pace.
Lo accuso di aver assassinato le speranze di un’intera generazione. La sua e la nostra”.»
(dal sito Internet http://www.shalom.it/12.00/D.html)
PERCHÉ I PALESTINESI SI RIVOLGONO AD HAMAS
«Agenzie matrimoniali e nozze collettive. Non solo, cliniche, scuole, orfanotrofi e circoli sportivi. E’ quanto offre Hamas, il movimento di resistenza islamica, l’organizzazione palestinese abitualmente nota per le sue posizioni politiche radicali e il suo sostegno al terrorismo.
L’organizzazione, quando non commissiona attentati suicidi in Israele, agisce come un’istituzione a carattere sociale. Il più delle volte i servizi offerti sono gratuiti e la quota di partecipazione, quando è richiesta, ha un carattere simbolico. L’obiettivo è conquistare il cuore e l’animo dei palestinesi allontanandoli dalla politica laica e pacifista dell’Olp. Effettivamente una parte sempre più consistente della popolazione comincia a essere delusa dal regime di Arafat a causa della dilagante corruzione e per le condizioni di vita che la pace non è riuscita a migliorare. L’Autorità palestinese non può permettersi di ignorare questo entusiasmo popolare. Sostenuta dalle sovvenzioni degli abitanti e dal generoso finanziamento degli Stati del Golfo, Hamas ha costruito quello che alcuni palestinesi considerano come uno Stato nello Stato. Si incarica di trovare un alloggio agli orfani, alle vedove, alle persone anziane e alle famiglie trasferite a causa dell’Intifada. Dispone di un sistema di educazione completo, che va dall’asilo all’università, nonché di centri di insegnamento coranico” che introducono gli studenti all’ideologia fondamentalista islamica. A Gaza si ritiene che un palestinese su tre riceva un aiuto, finanziario o altro, da Hamas. In Cisgiordania, dove Hamas è meno presente, si parla di uno su cinque.»
(Khaled Abu Toameh – Internazionale” – 03/10/1997)
28/10: HEZBOLLAH: PALESTINESI, INTENSIFICATE LE VIOLENZE”
«BEIRUT, 28 OTTOBRE – Da Beirut il movimento islamico filo-iraniano Hezbollah soffia sul fuoco della rivolta nei Territori palestinesi: invoca attentati suicidi contro Israele, il nemico sionista”, e afferma che ormai è arrivata l’ora per l’Intifada di passare dalle pietre alle armi”. Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, si è appellato ai palestinesi affinché diano vita ad una moltiplicazione degli attacchi suicidi”, che hanno un forte impatto morale e materiale sul nemico” e possono sprofondarlo nel terrore”. E’ un appello che potrebbe avere un impatto non trascurabile, considerato che il prestigio di Hezbollah e di Nasrallah è andato da tempo crescendo in modo esponenziale in tutto il Medio Oriente. Parlando all’emittente Tv del movimento, Nasrallah ha detto in tono pacato che le operazioni suicide dei martiri” sono il modo migliore per tener testa ai sionisti”. Egli continua inoltre a rilasciare interviste e a lanciare proclami, invitando tra l’altro i Paesi confinanti con Israele ad aprire le frontiere a coloro che vogliono unirsi all’Intifada”. Secondo Nasrallah è diventato inaccettabile” che i palestinesi continuino a battersi con le pietre: dovrebbero poter utilizzare vere armi per infliggere la sconfitta al nemico”. Parole che certamente non cadranno nel vuoto, visto che ormai ad ogni manifestazione nei Territori e ai funerali dei martiri” palestinesi, sventolano tra la folla sempre più numerose le bandiere gialle del movimento Hezbollah, raffiguranti, come ad esprimere la vocazione del movimento, un pugno che brandisce al cielo un mitra kalaschnikov.»
(Il Giorno” – 29/10/2000)
«SHARON CRIMINALE»
«Il possibile ritorno sulla scena Mediorientale di Ariel Sharon sta suscitando sdegno e tensione nei campi profughi e nell’opinione pubblica del Libano dove ancora è vivo il ricordo del massacro di Sabra e Chatila nel quale vennero uccisi tra mille e duemila abitanti dei campi palestinesi e libanesi. Una petizione per denunciare l’esponente della estrema destra israeliana come criminale di guerra sta raccogliendo centinaia di firme di intellettuali e uomini di cultura. Gli israeliani sanno che è un macellaio eppure vogliono eleggerlo. Spero che muoia presto o sarà una catastrofe per l’intero medioriente”, ha sostenuto Souad Srour sopravvissuta al massacro nel quale perse tre fratelli, due sorelle e il padre. Sharifa Zaidani, un’altra sopravvissuta al massacro dell’82 sostiene che: Quest’uomo è il responsabile del nostro eccidio. Qualcuno pensa che possa fare la pace con i palestinesi? Poveretti. Quest’uomo finirà invece il lavoro iniziato allora. Sabra e Chatila, credetemi, non gli sono bastate”.»
WIESEL: «MA ARAFAT ODIA TROPPO PER VOLERE LA PACE»
«DAVOS – Ero e sono ancora in stato di choc. Le accuse proferite a Davos da Yasser Arafat contro Israele, visto come responsabile di tutte le violenze possibili, sono viziose, cieche, false. Mai avrei immaginato tanto odio. In me si rafforza la convinzione che il presidente palestinese non voglia davvero la pace”. E’ costernato il grande filosofo e premio Nobel per la Pace Elie Wiesel, mentre ripercorre le immagini e ripete le parole del leader dell’Olp, che domenica hanno colpito la platea del Forum internazionale. Perché tanto risentimento? Aspettavo da quest’incontro un messaggio di speranza, invece ho ascoltato soltanto insulti. Tanto odio e tanta stupidità mi hanno sconvolto. Non sono mai stato così pessimista”.
Professore, mancano pochi giorni alle elezioni israeliane. La destra pare compatta dietro Ariel Sharon, la sinistra è divisa e tormentata. Alcuni pacifisti sostengono che non voteranno per Ehud Barak perché ha tradito l’eredità di Rabin”. Altri dicono che non lo voteranno per la ragione opposta, per aver concesso troppo.
Non sono un israeliano, sono un ebreo che segue, da lontano, con partecipazione e passione. Posso dire che l’altra sera, parlando con degli amici presenti nell’aula di Davos, ho raccolto reazioni sdegnate. L’odio è devastante e in molti si sta facendo strada l’idea di aver immaginato un accordo basato sulle illusioni”.
Ma qualcosa dovrà pur accadere. Peres ha parlato di due popoli condannati a vivere insieme, e in pace”.
Su questa idea della condanna” non sono d’accordo. Anzi, bisogna pensare a due popoli che avranno il privilegio di vivere insieme. Certo, qualcosa accadrà. Dovrà accadere, anche se dovesse vincere Sharon. La storia ci ha insegnato che uomini di destra sono riusciti laddove altri avevano fallito. Perché non pensare che Sharon possa percorrere la stessa strada? Alcune sue dichiarazioni mi fanno sperare. Non sono pessimista”.
C’è chi sostiene che Barak abbia offerto troppo, rompendo, con un’offerta senza precedenti, il tabù di una Gerusalemme indivisibile.
Credo che Arafat abbia frainteso le intenzioni e il coraggio del primo ministro israeliano. Ha ritenuto le generose offerte una prova di debolezza, non di forza, e quindi ha continuato ad alzare il prezzo. Ma su Gerusalemme hanno sbagliato tutti, compreso Clinton. Servivano vent’anni per costruire un clima di fiducia reciproca, per preparare una nuova generazione, equipaggiata per affrontare un problema come quello di Gerusalemme. Il rispetto dell’altro non si conquista con le promesse e i trattati, ma vivendo davvero assieme, con sincerità”.
Mentre oggi, l’odio e il risentimento prevalgono
Certo, ma non soltanto nel Medio Oriente. Anche le espressioni dell’antisemitismo, di cui si colgono preoccupanti dimostrazioni in Europa, vanno nella direzione dell’odio. E’ un problema di educazione. Abbiamo sbagliato tutti, ho sbagliato anch’io. L’educazione alla tolleranza va costruita, giorno dopo giorno”.
Professore, viviamo in un mondo dominato dall’incertezza e dall’ansietà. Dove dobbiamo guardare?
Siamo all’alba di un secolo. Ci avevano convinto a svoltare nel 2000, ma il secolo è cominciato un mese fa. Per comprenderne la direzione dobbiamo guardare alle nostre spalle, alle ombre del secolo che si è appena concluso. Le ombre che abbiamo ereditato devono spingerci a riflettere”.»
(Antonio Ferrari – Corriere della Sera” – 30/01/2001)
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