La coscienza di Zeno tra inettitudine e ironia
28 Dicembre 2019Biografia di Italo Svevo
28 Dicembre 2019Italo Svevo è per antonomasia il romanziere dell’inettitudine, e il personaggio che ha impresso il primo marchio del carattere dell’inetto moderno è proprio Alfonso Nitti.
Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (1861-1928), è uno degli scrittori più significativi della letteratura italiana del Novecento. La sua opera, influenzata dalla cultura mitteleuropea e dalla psicoanalisi freudiana, rappresenta un punto di svolta nella narrativa italiana, segnando il passaggio dalla letteratura ottocentesca a una sensibilità più moderna. Svevo è conosciuto soprattutto per i suoi romanzi in cui esplora i temi della crisi dell’individuo moderno, della fragilità psicologica, e dell’inettitudine. I suoi personaggi, intrappolati in un mondo che non comprendono e da cui si sentono distaccati, incarnano perfettamente l’uomo alienato del XX secolo.
Nato a Trieste, in una famiglia di origine ebraica, Svevo visse in una città di confine, un crocevia di culture italiane, tedesche e slave. Questa pluralità culturale influenzò profondamente la sua sensibilità letteraria. Dopo aver lavorato per molti anni come impiegato di banca e successivamente nell’azienda del suocero, Svevo iniziò a dedicarsi alla scrittura, ma i suoi primi romanzi, “Una vita” (1892) e “Senilità” (1898), furono accolti con indifferenza. Solo con “La coscienza di Zeno” (1923) Svevo ottenne il riconoscimento che meritava, anche grazie all’amicizia con James Joyce, che risiedeva a Trieste negli stessi anni.
Uno dei temi fondamentali della narrativa di Svevo è quello dell’inettitudine: l’incapacità dei suoi protagonisti di adattarsi alle richieste del mondo moderno, di agire in modo efficace e di affermarsi. I suoi personaggi, spesso intrappolati in una profonda crisi esistenziale, rappresentano l’antitesi dell’eroe romantico o del protagonista positivo della letteratura tradizionale. Al contrario, sono antieroi passivi, che falliscono nel trovare un senso nella vita e si rifugiano in un mondo interiore di illusioni e sogni.
Il romanzo “Una vita” e il personaggio di Alfonso Nitti
Il primo romanzo di Svevo, “Una vita” (1892), è profondamente autobiografico e riflette molti degli elementi che caratterizzano la vita dello stesso autore. Il protagonista, Alfonso Nitti, è un giovane impiegato di banca che si trasferisce in città in cerca di successo e realizzazione personale, ma si scontra presto con le sue debolezze e con un ambiente sociale ostile e alienante. Alfonso è una figura emblematica della condizione di inettitudine che Svevo esplorerà a fondo nei suoi successivi romanzi.
In “Una vita”, Alfonso rappresenta il piccolo borghese del suo tempo: è un uomo fragile, incapace di adattarsi alle dinamiche sociali della città e del lavoro, privo di quell’ambizione e intraprendenza che caratterizzano i modelli di successo della società moderna. Egli vive una continua tensione tra il desiderio di emergere e il senso di inadeguatezza che lo paralizza. Questa tensione tra aspirazioni e incapacità di realizzarle è centrale nella rappresentazione dell’inetto sveviano, un personaggio che anticipa la figura di Zeno Cosini ne La coscienza di Zeno.
Le “Ali del gabbiano”: Un episodio simbolico
Nel capitolo VIII di “Una vita”, intitolato “Le ali del gabbiano”, Svevo costruisce una scena che rivela la fragilità esistenziale di Alfonso Nitti e la sua incapacità di affrontare le sfide della vita. In questa scena, Alfonso accetta l’invito del suo amico Macario a una gita in barca. Questo episodio non è solo una descrizione di una semplice gita, ma diventa una metafora della condizione esistenziale del protagonista.
Alfonso si sente a disagio e insicuro già prima di salire sulla barca, percependo il vento impetuoso e vedendo il cutter piegarsi pericolosamente. Tuttavia, non si ritira per timore delle ironie di Macario, manifestando la sua paura del giudizio altrui. La scena della barca in balia del vento simboleggia la fragilità di Alfonso: incapace di dominare le forze che lo circondano, Alfonso non riesce a mantenere il controllo né fisico né emotivo.
Macario, al contrario, è la figura dell’uomo sicuro di sé, in grado di gestire la barca con disinvoltura e di mantenere la calma. Questo contrasto serve a sottolineare la differenza tra l’inetto (Alfonso) e chi è adatto al mondo moderno (Macario). L’amico si diverte a metterlo in difficoltà e a ridicolizzare la sua paura, facendo emergere il senso di inadeguatezza di Alfonso. Quando Macario osserva i gabbiani e riflette sul loro volo, la metafora diventa esplicita: il gabbiano è fatto per volare e pescare, mentre Alfonso non ha le ali per navigare nel mondo con la stessa efficacia.
“Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più.”
Questa frase pronunciata da Macario è cruciale. Essa incarna la visione di Svevo dell’esistenza: chi non nasce con le capacità necessarie, chi non ha le “ali”, non può imparare a volare. Alfonso, metaforicamente privo di ali, non sarà mai in grado di raggiungere il successo o l’indipendenza che desidera. L’inettitudine di Alfonso diventa quindi una condanna esistenziale: egli è destinato a fallire, a restare ai margini della società, incapace di partecipare al “volo” della vita moderna.
Aspetto autobiografico e simbolo dell’inettitudine borghese
Il personaggio di Alfonso Nitti riflette in parte la biografia di Svevo stesso. Come Svevo, Alfonso è un giovane impiegato che aspira a migliorare la propria condizione sociale, ma che si scontra con la durezza della realtà urbana e lavorativa. Svevo, nel suo stesso percorso di vita, visse una simile sensazione di estraneità e fallimento nel mondo lavorativo e sociale, sentendosi spesso escluso dalla società triestina e dalla cultura dominante. Le esperienze personali di Svevo con il fallimento economico e il senso di isolamento emergono chiaramente nel personaggio di Alfonso, che rappresenta un alter ego letterario dell’autore.
Tuttavia, Alfonso non è solo una proiezione autobiografica di Svevo, ma diventa anche il simbolo universale dell’inettitudine del piccolo borghese del suo tempo. Incapace di adattarsi al ritmo frenetico della modernità e di affrontare le sfide del mondo capitalistico, Alfonso rappresenta una figura tragica che incarna l’alienazione e l’impotenza dell’uomo moderno. Egli si sente inadeguato sia nella sfera lavorativa che in quella sociale, e la sua ricerca di autonomia e dignità si scontra continuamente con i suoi limiti personali e le dinamiche oppressive della società.
Conclusione
Italo Svevo, con il suo romanzo “Una vita” e in particolare con l’episodio delle “Ali del gabbiano”, offre una riflessione profonda sulla condizione dell’inetto nella modernità. Attraverso la figura di Alfonso Nitti, Svevo esplora le ansie e le insicurezze di un uomo che, pur desiderando il successo e l’autonomia, è privo degli strumenti necessari per affrontare le sfide della vita. Alfonso, con la sua incapacità di volare, diventa simbolo di una crisi esistenziale che colpisce non solo il singolo individuo, ma tutta una generazione di piccoli borghesi alienati, incapaci di adattarsi a un mondo in rapido cambiamento.
Testo del brano “Le ali del gabbiano” tratto dal cap. VIII del romanzo “Una vita” di Italo Svevo
…..La sua compagnia doveva piacere a Macario. La cercava di spesso; qualche sera gli usò anche la gentilezza di andarlo a prendere all’ufficio.
Ad Alfonso non sfuggì la causa di quest’affetto improvviso. Lo doveva alla sua docilità e, pensò, anche alla sua piccolezza. Era tanto piccolo e insignificante, che accanto a lui Macario si trovava bene. Non si compiacque meno di tale amicizia. Le cortesie, anche se comperate a caro prezzo, piacciono. Non disistimava Macario. Per certe qualità ammirava quel giovine tanto elegante, artista inconscio, intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva.
Macario possedeva un piccolo cutter e frequentemente invitò Alfonso a gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per Alfonso vere feste. In barca gli era anche più facile di dare il suo assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si trovava ancora sempre alla conquista della solida salute che gli occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva proponimento di sottoporsi, e gli effluvi marini dovevano aiutarlo a trovarla.
Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla punta del molo, ove si trovavano per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere.
Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento, sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi all’ultimo estremo sfuggendo al pericolo imminente. Alfonso da terra era colto da quei tremiti nervosi che si hanno al vedere delle persone in pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che non seppe lasciarlo partir solo.
Ferdinando, un facchino ch’era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò il posto al timone a Macario il quale sedette dopo toltasi la giubba quasi per prepararsi a grandi fatiche:
– Ora fuoco alla macchina, – gridò a Ferdinando.
Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l’albero di prora da un angolo del molo all’altro; poi, un piede puntellato a terra, l’altro sul cutter, lo spinse al largo.
Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per quanto piccolo, l’imminenza di un pericolo lo faceva sussultare.
– Che agile! – disse a Ferdinando.
Gli pareva d’essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio d’amicarselo. Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e ringraziò. Non essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad apparire abile. Comprese però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela e la fissò, aiutando poscia a tenderla con tutto il peso del suo corpo. Immediatamente il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso.
S’era proposto di far mostra di grande sangue freddo, ma i propositi non bastarono all’improvviso spavento. Poté trattenersi dal gridare ma balzò in piedi e si gettò dall’altra parte sperando di raddrizzare la barca con il suo peso. Si tranquillò alquanto sentendosi più lontano dall’acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina.
Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.
Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.
– Sa nuotare? – gli chiese Macario con tranquillità. – Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma – e finse grande preoccupazione – anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?
Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.
Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.
– Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, – e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina.
E passarono accanto al verde Sant’Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.
La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Macario dicendoglielo.
– Con questo mare!
Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua corrente.
Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.
Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.
Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere.
– Fatti proprio per pescare e per mangiare, – filosofeggiò Macario. – Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.
Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.
– Ed io ho le ali? – chiese abbozzando un sorriso.
– Per fare dei voli poetici sì! – rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.