INGLESE
27 Gennaio 2019UNA SCUOLA, TANTI INDIRIZZI
27 Gennaio 2019Arcadia
CAPITOLO X
Le selve che al cantare de’ duo pastori, mentre quello durato era, aveano dolcissimamente rimbombato, si tacevano già, quasi contente, acquetandosi a la sentenzia di Montano; il quale ad Apollo, sì come ad aguzzatore de’ peregrini ingegni, donando lo onore e la ghirlanda de la vittoria, avea ad ambiduo i suoi pegni renduti. Per la qual cosa noi, lasciando l’erbosa riva, lieti cominciammo per la falda del monte a poggiare, tuttavia ridendo e ragionando de le contenzioni udite. E senza essere oltra a duo tratti di fronda andati, cominciammo appoco appoco da l’unge a scoprire il reverendo e sacro bosco, nel quale mai né con ferro né con scure alcuna si osava entrare; ma con religione grandissima, per paura de’ vendicatori Dii, fra’ paesani populi si conservava inviolato per molti anni. E, se degno è di credersi, un tempo, quando il mondo non era sì colmo di vizii, tutti i pini che vi erano, parlavano, con argute note rispondendo a le amorose canzoni de’ pastori.
Al quale con lenti passi dal santo sacerdote guidati, sì come lui volse, in un picciolo fonticello di viva acqua, che ne la entrata di quello sorgea, ne lavammo le mani; con ciò sia cosa che con peccati andare in cotal luogo non era da religione concesso. Indi adorato prima il santo Pan, dopo li non conosciuti Dii, se alcuno ve ne era, che per non mostrarsi agli occhi nostri nel latebroso bosco si nascondesse, passammo col destro piede avanti in segno di felice augurio; ciascuno tacitamente in sé pregandoli, li fusseno sempre propizii, così in quel punto, come ne le occorrenti necessità future. Et entrati nel santo pineto, trovammo sotto una pendente ripa, fra ruinati sassi una spel’unca vecchissima e grande, non so se naturalmente o se da manuale artificio cavata nel duro monte; e dentro di quella, del medesmo sasso un bello altare, formato da rustiche mani di pastori. Sovra al quale si vedeva di legno la grande effigie del selvatico Idio, appoggiata ad un lungo bastone di una intiera oliva, e sovra la testa avea due corna drittissime et elevate verso il cielo; con la faccia rubiconda come matura fragola, le gambe e i piedi irsuti, né d’altra forma che sono quelli de le capre. Il suo manto era di una pelle grandissima, stellata di bianche macchie.
Da l’un lato e da l’altro del vecchio altare pendevano due grandi tavole di faggio, scritte di rusticane lettere; le quali successivamente di tempo in tempo per molti anni conservate dai passati pastori, continevano in sé le antiche leggi e gli ammaestramenti de la pastorale vita; da le quali tutto quello che fra le selve oggi si adopra, ebbe prima origine. Nell’una eran notati tutti i dì de l’anno e i varii mutamenti de le stagioni, e la inequalità de la notte e del giorno, inseme con la osservazione de le ore, non poco necessaria a’ viventi, e li non falsi pronostici de le tempestati; e quando il sole col suo nascimento denunzia serenità e quando pioggia, e quando v’ènti e quando grandini; e quali giorni son de la luna fortunati e quali infelici a le opre de’ mortali; e che ciascuno in ciascuna ora dovesse fuggire o seguitare, per non offendere le osservabili voluntà degli Dii. Ne l’altra si leggeva quale dovesse essere la bella forma de la vacca e del toro; e le età idonee al generare et al parturire; e le stagioni e i tempi atti a castrare i vitelli, per poterli poi nel giogo usare a le robuste opre de la agricultura. Similmente come la ferocità de’ montoni, forandoli il corno presso l’orecchia, si possa mitigare; e come legandoli il destro testicolo, genera femine, e ‘l sinestro mascoli; et in che modo gli agnelli vegnano bianchi o di altri colori variati; e qual rimedio sia a le solitarie pecore, che per lo spavento de’ tuoni non si abortiscano. Et oltra a questo che governo si convegna a le barbute capre, e quali e di che forma e di che etade, et in che tempo de l’anno et in che paese quelle siano più fruttifere; e come i loro anni si possano ai segni de le noderose corna chiaramente conoscere. Appresso vi erano scritte tutte le medicine appertinenti a’ morbi, tanto de’ greggi, quanto de’ cani e de’ pastori.
Dinanzi a la spel’unca porgeva ombra un pino altissimo e spazioso, ad un ramo del quale una grande e bella sampogna pendeva, fatta di sette voci, egualmente di sotto e di sopra congiunta con bianca cera; la cui simile forse mai non fu veduta a pastore in alcuna selva. De la quale dimandando noi qual fusse stato lo auttore, perché da divine mani composta et incerata la giudicavamo, il savio sacerdote così ne respuse:
– Questa canna fu quella che ‘l santo Idio, che voi ora vedete, si trovò ne le mani, quando per queste selve da amore spronato seguitò la bella Siringa. Ove, poi che per la sùbita transformazione di lei si vide schernito, sospirando egli sovente per rimembranza de le antiche fiamme, i sospiri si convertirono in dolce suono. E così, solo, in questa sola grotta, assiso presso a le pascenti capre, cominciò a congiungere con nova cera sette canne, lo ordine de le quali veniva successivamente mancando, in guisa che stanno i diti ne le nostre mani, sì come ora in essa medesma vedere potete; con la qual poi gran tempo pianse in questi monti le sue sventure. Indi pervenne, e non so come, ne le mani d’un pastore siracusano; il quale prima che alcuno altro ebbe ardire di sonarla senza paura di Pan o d’altro Idio, sovra le chiare onde de la compatriota Aretusa. Et è fama che mentre costui cantava, i circonstanti pini movendo le loro sommità li rispondeano; e le forestiere querce, dimenticate de la propria selvatichezza, abandonavano i nativi monti per udirlo, porgendo sovente piacevoli ombre a le ascoltanti pecorelle; né era Ninfa alcuna né Fauno in quelle selve, che di attrecciare ghirlande non si affatigasse, per ornarli di freschi fiori i giovenili capelli. Il quale poi da invidiosa morte sovragiunto, fe’ di quella lo ultimo dono al mantuano Titiro, e così col mancante spirto, porgendogliela, li disse: «Tu sarai ora di questa il secondo signore; con la quale potrai a tua posta riconciliare li discordevoli tauri, rendendo graziosissimo suono a li selvatichi Idii». Per la qual cosa Titiro lieto di tanto onore, con questa medesma sampogna dilettandosi, insegnò primeramente le selve di risonare il nome de la formosa Amarillida; e poi, appresso, lo ardere del rustico Coridone per Alessi; e la emula contenzione di Dameta e di Menalca; e la dolcissima musa di Damone e di Alfesibeo, facendo sovente per maraviglia dimenticare le vacche di pascere, e le stupefatte fiere fermare fra’ pastori, e i velocissimi fiumi arrestare dai corsi loro, poco curando di rendere al mare il solito tributo; aggiungendo a questo la morte di Dafni, la canzone di Sileno e ‘l fiero amore di Gallo, con altre cose di che le selve credo ancora si ricordino e ricorderanno mentre nel mondo saranno pastori. Ma avendo costui da la natura lo ingegno a più alte cose disposto, e non contentandosi di sì umile suono, vi cangiò quella canna che voi ora vi vedete più grossa e più che le altre nova, per poter meglio cantare le cose maggiori, e fare le selve degne degli altissimi consuli di Roma. «Il quale poi che abandonate le capre si diede ad ammaestrare i rustichi coltivatori de la terra, forse con isperanza di cantare appresso con più sonora tromba le arme del troiano Enea, la appiccò quivi, ove ora la vedete, in onore di questo Idio, che nel cantare li avea prestato favore. Appresso al quale non venne mai alcuno in queste selve, che quella sonare potuto avesse compitamente; posto che molti, da volenteroso ardire spronati, tentato lo abbiano più volte e tentino tuttavia.
Ma perché il giorno tutto fra questi ragionamenti non trapassi, tornando omai a quello per che venuti siete, dico, l’opra e ‘l saper mio così a tutt’i vostri bisogni, come a questo un solo, essere sempre non men disposto che apparecchiato. E con ciò sia cosa che ora per lo scemo de la cornuta l’una il tempo molto atto non sia, udrete non di meno del luogo e del modo che a tenere avremo alquanto ragionare. E tu principalmente, inamorato pastore, a chi il fatto più tocca, porgi intentivamente le orecchie a le mie parole.
Non molto l’unge di qui, fra deserti monti giace una profondissima valle, cinta d’ogn’intorno di solinghe selve e risonanti di non udita selvatichezza; sì bella, sì maravigliosa e strana, che di primo aspetto spaventa con inusitato terrore gli animi di coloro che vi entrano; i quali poi che in quella per alquanto spazio rassicurati si sono, non si possono saziare di contemplarla. Ove per un solo luogo, e quello strettissimo et aspro, si conviene passare; e quanto più basso si scende, tanto vi si trova la via più ampia e la luce diventa minore, con ciò sia cosa che da la sua sommità insino a la più infima parte è da opache ombre di gioveni alberi quasi tutta occupata. Ma poi che al fondo di quella si perviene, una grotta oscurissima e grande vi si vede incontanente aprire di sotto ai piedi; ne la quale arrivando, si sentono sùbito strepiti orribilissimi, fatti divinamente in quel luogo da non veduti spirti, come se mille milia naccari vi si sonassono. E quivi dentro in quella oscurità nasce un terribilissimo fiume, e per breve spazio contrastando ne la gran voragine, e non possendo di fuora uscire, si mostra solamente al mondo et in quel medesmo luogo si sommerge; e così nascoso per occolta via corre nel mare, né di lui più si sa novella alcuna sovra de la terra. Luogo veramente sacro, e degno, sì come è, di essere sempre abitato dagli Dii. Niuna cosa non venerabile o santa vi si può giudicare; con tanta maiestà e riverenza si offre agli occhi de’ riguardanti.
Or quivi, come la candida l’una con ritonda faccia apparirà a’ mortali sovra l’universa terra, ti menerò io primeramente a purgarti, se di venirvi ti darà il core; e bagnato che ti avrò nove volte in quelle acque, farò di terra e di erbe un novo altare, et in quello, circondato di tre veli di diversi colori, raccenderò la casta verbena e maschi incensi, con altre erbe non divelte da le radici, ma secate con acuta falce al lume de la nova l’una. Dopo spargerò per tutto quel luogo acque tolte da tre fontane, e farotti poi, discinto e scalzo d’un piede, sette volte attorniare il santo altare, dinanzi al quale io con la manca mano tenendo per le corna una nera agna, e con la destra lo acuto coltello, chiamarò ad alta voce trecento nomi di non conosciuti Dii; e con quelli la riverenda Notte accompagnata da le sue tenebre, e le tacite Stelle consapevoli de le occolte cose, e la moltiforme Luna potente nel cielo e negli oscuri abissi, e la chiara faccia del Sole circondata di ardenti raggi; la quale continuamente discorrendo intorno al mondo, vede senza impedimento veruno tutte le opere de’ mortali. Appresso convocarò quanti Dii abitano ne l’alto cielo, ne la ampia terra e ne lo undoso mare; e ‘l grandissimo Oceano padre universale di tutte le cose, e le vergini Ninfe generate da lui: cento che ne vanno per le selve, e cento che guardano i liquidi fiumi; et oltra a questi, Fauni, Lari, Silvani e Satiri, con tutta la frondosa schiera de’ semidei, e ‘l sommo Aere, e ‘l durissimo aspetto de la bruta Terra, i stanti Laghi, i correnti Fiumi e i sorgenti Fonti. Né lascerò li oscuri regni de li sutterranei Dii; ma convocando la tergemina Ecate, vi aggiungerò il profondo Caos, il grandissimo Erebo e le infernali Eumenidi abitatrici de le stigie acque; e alcuna altra deità è là giù, che con degno supplicio punisca le scelerate colpe degli uomini, che siano tutte presenti al mio sacrificio. E così dicendo, prenderò un vaso di generoso vino e versarollo ne la fronte de la dannata pecora, e disvellendoli da mezzo le corna la fosca lana, la gitterò nel fuoco per primi libamenti; dopo, aprendoli la gola col destinato coltello, riceverò in una patera il caldo sangue, e quello con gli estremi labri gustato, versarò tutto in una fossa fatta dinanzi a l’altare, con oglio e latte inseme, acciò che ne goda la madre terra.
E preparato che ti avrò in cotal modo, sovra la pelle di quella ti farò distendere; e di sangue di nottola ti ungerò gli occhi con tutto il viso, che le tenebre de la notte al vedere non ti offendano, ma come chiaro giorno ti manifestino tutte le cose. Et acciò che le strane e diversissime figure de’ convocati Dii non ti spaventino, ti porrò indosso una lingua, uno occhio et una spoglia di libiano serpente, con la destra parte del core d’un leone inveterato e secco all’ombra solamente de la piena l’una. Appresso a questo comanderò ai pesci, a le serpi, a le fiere et agli ucelli (dai quali, quando mi piace, intendo e proprietà de le cose e gli occolti secreti degli Dii) che vegnano tutti a me di presente, senza fare dimora alcuna. Per la qual cosa quelli solamente retinendo meco che mistiero mi faranno, gli altri rimanderò via ne le loro magioni. Et aperta la mia tasca, ne trarrò veleni potentissimi, coi quali a mia posta soglio io transformarmi in lupo, e lasciando i panni appiccati ad alcuna quercia, mescolarmi fra gli altri ne le deserte selve; non già per predare come molti fanno, ma per intendere i loro secreti, e gl’inganni che si apparecchiano a’ pastori di fare; i quali potranno ancora al tuo bisogno commodamente servire.
E se uscire da amore totalmente vorrai, con acqua lustrale e benedetta ti inaffiarò tutto, soffumigandoti con vergine solfo, con issopo e con la casta ruta. Da poi ti spargerò sovra al capo de la polvere, ove mula o altro sterile animale involutrato si sia; e sciogliendoti un per uno tutti i nodi che indosso avrai ti farò prendere la cenere dal sacro altare, et a due mani per sovra ‘l capo gettarlati dopo le spalle nel corrente lume, senza voltare più gli occhi indietro. Il quale subitamente con le sue acque ne porterà il tuo amore ne l’alto mare, lasciandolo ai delfini et a le notanti balene.
Ma se più tosto la tua nemica ad amarti di constringere tieni in desio, farò venire erbe da tutta Arcadia, e sugo di nero aconito, e la picciola carne rapita dal fronte del nascente cavallo prima che la madre di inghiottirla si apparecchiasse. E fra queste cose, sì come io ti insegnarò, legarai una imagine di cera in tre nodi con tre lacci di tre colori; e tre volte con quella in mano attorniando lo altare, altre tante li pungerai il core con punta di omicida spada, tacitamente dicendo queste parole: Colei pungo et astringo, Che nel mio cor depingo. Appresso avrai alcuna parte del lembo de la sua gonna, e piegandola appoco appoco, e così piegata sotterrandola ne la cavata terra, dirai: Tutte mie pene e doglie Richiudo in queste spoglie. Da poi ardendo un ramo di verde lauro, soggiungerai: Così strida nel foco Chi il mio mal prende in gioco. Indi prendendo io una bianca colomba, e tu tirandoli una per una le penne e gittandole ne le fiamme, seguiterai: Di chi il mio bene ha in possa Spargo le carni e l’ossa. Al fine, poi che la avrai tutta spogliata, lasciandola sola andare, farai così l’ultimo incanto: Rimanti, iniqua e cruda, D’ogni speranza ignuda. Et ogni fiata che le dette cose farai, sputerai tre volte, però che de l’impari numero godono i magichi Dii. Né dubito punto che saranno di tanta efficacia queste parole, che, senza repugnanza alcuna fare, la vedrai a te venire, non altrimente che le furiose cavalle ne le ripe de lo estremo occidente sogliano i genitabili frati di zefiro aspettare. E questo ti affermo per la deità di questa selva e per la potenzia di quello Idio, il quale ora presente standone, ascolta il mio ragionare. –
E così detto, puse silenzio a le sue parole; le quali quanto diletto porgesseno a ciascuno, non è da dimandare.
Ma parendone finalmente ora di ritornare a le lasciate mandre, benché il sole fusse ancora molto alto, dopo molte grazie con parole renduteli, ne licenziammo da lui; e per una via più breve postine a scendere il monte, andavamo con non poca ammirazione comendando lo udito pastore; tanto che quasi al piano discesi, essendo il caldo grande e veggendone un boschetto fresco davanti, deliberammo di volere udire alcuno de la brigata cantare. Per la qual cosa Opico a Selvaggio il carco ne impuse, dandogli per soggetto che lodasse il nobile secolo, il quale di tanti e tali pastori si vedeva copiosamente dotato; con ciò fusse cosa che in nostra età ne era concesso vedere et udire pastori cantare fra gli armenti, che dopo mille anni sarebbono desiati fra le selve. E stando costui già per cominciare rivolse, non so come, gli occhi in un picciolo colle che da man destra gli stava, e vide l’alto sepolcro ove le riverende ossa di Massilia si riposano con eterna quiete; Massilia, madre di Ergasto, la quale fu, mentre visse, da’ pastori quasi divina Sibilla riputata. Onde drizzatosi in piedi disse:
– Andiamo colà, pastori; ché se dopo le esequie le felici anime curano de le mondane cose, la nostra Massilia ne avrà grazia nel cielo del nostro cantare; la quale sì dolcemente soleva un tempo tra noi le contenzioni decidere, dando modestamente ai vinti animo, e comendando con maravigliose lode i vincitori. –
A tutti parve ragionevole quello che Selvaggio disse, e con espediti passi, l’un dopo l’altro, molto con parole raconsolando il piangente Ergasto, vi andammo. Ove giunti, avemmo tanto da contemplare e da pascere gli occhi, quanto da’ pastori in alcuna selva si avesse giamai; et udite come.
Era la bella piramide in picciolo piano sovra una bassa montagnetta posta, fra due fontane di acque chiarissime e dolci, con la punta elevata verso il cielo in forma d’un dritto e folto cipresso; per le cui latora, le quali quattro erano, si potevano vedere molte istorie di figure bellissime, le quali lei medesma, essendo già viva, aveva in onore de’ suoi antichi avoli fatte dipingere, e quanti pastori ne la sua prosapia erano in alcun tempo stati famosi e chiari per li boschi, con tutto il numero de’ posseduti armenti. E dintorno a quella porgevano con suoi rami ombra alberi giovenissimi e freschi, non ancora cresciuti a pare altezza de la bianca cima, però che di poco tempo avanti vi erano dal pietoso Ergasto stati piantati. Per compassione del quale molti pastori ancora avevano il luogo circondato di alte sepi, non di pruni o di rubi, ma di genebri, di rose e di gelsomini; e formatovi con le zappe un seggio pastorale, e di passo in passo alquante torri di rosmarino e di mirti, intessute con mirabilissimo artificio. Incontro a le quali con gonfiate vele veniva una nave, fatta solamente di vimini e di fronde di viva edera, sì naturalmente che avresti detto: «Questa solca il tranquillo mare»; per le sarte de la quale, ora nel temone et ora ne la alta gabbia, andavano cantanti ucelli vagandosi, in similitudine di esperti e destrissimi naviganti. Così ancora per mezzo degli alberi e de le sepi si vedevano fiere bellissime e snelle allegramente saltare e scherzare con varii giochi, bagnandosi per le fredde acque; credo forse per dare diletto a le piacevoli Ninfe guardiane del luogo e de le sepolte ceneri. A queste bellezze se ne aggiungeva una non meno da comendare che qualsivoglia de le altre; con ciò sia cosa che tutta la terra si potea vedere coverta di fiori, anzi di terrene stelle, e di tanti colori dipinta, quanti ne la pomposa coda del superbo pavone o nel celestiale arco, quando a’ mortali denunzia pioggia, se ne vedeno variare. Quivi gigli, quivi ligustri, quivi viole tinte di amorosa pallidezza, et in gran copia i sonnacchiosi papaveri con le inchinate teste, e le rubiconde spighe de l’immortale amaranto, graziosissime corone ne l’orrido verno. Finalmente quanti fanciulli e magnanimi re furono nel primo tempo pianti dagli antichi pastori, tutti si vedevano quivi transformati fiorire, servando ancora gli avuti nomi: Adone, Iacinto, Aiace e ‘l giovene Croco con la amata donzella; e fra questi il vano Narcisso si poteva ancora comprendere che contemplasse sopra quelle acque la dannosa bellezza che di farlo partire dai vivi gli fu cagione.
Le quali cose poi che di una in una avemmo fra noi maravigliosamente comendate, e letto ne la bella sepoltura il degno epitafio, e sovra a quella offerte di molte corone, ne ponemmo inseme con Ergasto in letti di alti lentischi distesi a giacere. Ove molti olmi, molte querce e molti allori sibilando con le tremule frondi, ne si moveano per sovra al capo; ai quali aggiungendosi ancora il mormorare de le roche onde, le quali fuggendo velocissime per le verdi erbe andavano a cercare il piano, rendevano inseme piacevolissimo suono ad udire. E per li ombrosi rami le argute cicale cantando si affatigavano sotto al gran caldo; la mesta Filomena da l’unge tra folti spineti si lamentava; cantavano le merole, le upupe e le calandre; piangeva la solitaria tortora per le alte ripe; le sollecite api con suave susurro volavano intorno ai fonti. Ogni cosa redoliva de la fertile estate: redolivano i pomi per terra sparsi, de’ quali tutto il suolo dinanzi ai piedi e per ogni lato ne vedevamo in abondanza coverto; sovra ai quali i bassi alberi coi gravosi rami stavano sì inchinati, che quasi vinti dal maturo peso parea che spezzare si volessono. Onde Selvaggio, a cui sovra la imposta materia il cantare toccava, facendo con gli occhi segnale a Fronimo che gli rispondesse, ruppe finalmente il silenzio in queste voci:
SELVAGGIO, FRONIMO
SELVAGGIO Non son, Fronimo mio, del tutto mutole,
com’uom crede, le selve; anzi risonano,
tal che quasi all’antiche egual riputole.
FRONIMO Selvaggio, oggi i pastor più non ragionano
de l’alme Muse, e più non pregian naccari,
perché, per ben cantar, non si coronano.
E sì del fango ognun s’asconde i zaccari,
che tal più pute che ebuli et abrotano
e par che odore più che ambrosia e baccari.
Ond’io temo gli Dii non si riscotano
dal sonno, e con vendetta ai boni insegnino
sì come i falli de’ malvagi notano.
E s’una volta avvien che si disdegnino,
non fia mai poi balen né tempo pluvio,
che di tornar al ben pur non si ingegnino.
SELVAGGIO Amico, io fui tra Baie e ‘l gran Vesuvio
nel lieto piano, ove col mar congiungesi
il bel Sebeto, accolto in picciol fluvio.
Amor, che mai dal cor mio non disgiungesi,
mi fe’ cercare un tempo strane fiumora,
ove l’alma, pensando, ancor compungesi.
E s’io passai per pruni, urtiche e dumora,
le gambe il sanno; e se timor mi pusero
crudi orsi, dure genti, aspre costumora!
Al fin le dubbie sòrti mi rispusero:
– Cerca l’alta cittade ove i Calcidici
sopra ‘l vecchio sepolcro si confusero. –
Questo non intens’io; ma quei fatidici
pastor mel fer poi chiaro e mel mostrarono,
tal ch’io gli vidi nel mio ben veridici.
Indi incantar la luna m’insegnarono,
e ciò che in arte maga al tempo nobile
Alfesibeo e Meri si vantarono.
Né nasce erbetta sì silvestra ignobile,
che ‘n quelle dotte selve non conoscasi;
e quale stella è fissa, e quale è mobile.
Quivi la sera, poi che ‘l ciel rinfoscasi,
certa l’arte febea con la palladia,
che non c’altri, ma Fauno a udir rimboscasi.
Ma a guisa d’un bel sol fra tutti radia
Caracciol, che ‘n sonar sampogne o cetere
non troverebbe il pari in tutta Arcadia.
Costui non imparò putare o metere,
ma curar greggi da la infetta scabbia
e passion sanar maligne e vetere.
Il qual un dì, per isfogar la rabbia,
così prese a cantar sotto un bel frassino,
io fiscelle tessendo, egli una gabbia:
– Proveda il ciel che qui v’èr noi non passino
malvage lingue; e le benigne fatora
fra questi armenti respirar mi lassino.
Itene, vaccarelle, in quelle pratora,
acciò che quando i boschi e i monti imbrunano,
ciascuna a casa ne ritorne satora.
Quanti greggi et armenti, oimè, digiunano,
per non trovar pastura, e de le pampane
si van nudrendo, che per terra adunano!
Lasso, c’appena di mill’una càmpane;
e ciascun vive in tanto estrema inopia,
che ‘l cor per doglia sospirando avampane.
Ringrazie dunque il ciel qualunque ha copia
d’alcun suo bene in questa vil miseria,
che ciascun caccia da la mandra propia.
I bifolci e i pastor lascian Esperia,
le selve usate e le fontane amabili;
ché ‘l duro tempo glie ne dà materia.
Erran per alpe incolte inabitabili,
per non veder oppresso il lor pecul’io
da genti strane, inique, inesorabili.
Le qua’ per povertà d’ogni altro edul’io,
non già per aurea età, ghiande pascevano
per le lor grotte da l’agosto al giulio.
Viven di preda qui, come solevano
fra quei primi pastor nei boschi etrurii.
Deh c’or non mi sovien qual nome avevano!
So ben che l’un da più felici augurii
fu vinto e morto – or mi ricorda, Remo –
in su l’edificar de’ lor tugurii.
Lasso, che ‘n un momento io sudo e tremo
e veramente temo d’altro male;
ché si de’ aver del sale in questo stato,
perché ‘l comanda il Fato e la Fortuna.
Non vedete la luna ineclissata?
La fera stella armata di Orione?
Mutata è la stagione e ‘l tempo è duro,
e già s’attuffa Arcturo in mezzo l’onde;
e ‘l sol, c’a noi s’asconde, ha i raggi spenti,
e van per l’aria i v’ènti mormorando,
né so pur come o quando torne estate.
E le nubi spezzate fan gran suoni;
tanti baleni e tuoni han l’aria involta,
ch’io temo un’altra volta il mondo pera.
O dolce primavera, o fior novelli,
o aure, o arboscelli, o fresche erbette,
o piagge benedette, o colli, o monti,
o valli, o fiumi, o fonti, o verdi rive,
palme, lauri et olive, edere e mirti;
o gloriosi spirti degli boschi;
o Eco, o antri foschi, o chiare linfe,
o faretrate Ninfe, o agresti Pani,
o Satiri e Silvani, o Fauni e Driadi,
Naiadi et Amadriadi, o semidee,
Oreadi e Napee, or séte sole;
secche son le viole in ogni piaggia:
ogni fiera selvaggia, ogni ucelletto
che vi sgombrava il petto, or vi vien meno.
E ‘l misero Sileno vecchiarello
non trova l’asinello ov’ei cavalca.
Dafni, Mopso e Menalca, oimè, son morti.
Priapo è fuor degli orti senza falce,
né genebro né salce è che ‘l ricopra.
Vertunno non s’adopra in transformarse,
Pomona ha rotte e sparse le sue piante,
né vòl che le man sante puten legni.
E tu, Pale, ti sdegni per l’oltraggio,
ché di april né di maggio hai sacrificio.
Ma s’un commette il vicio, e tu nol reggi,
che colpa n’hanno i greggi de’ vicini?
Che sotto gli alti pini e i dritti abeti
si stavan mansueti a prender festa
per la verde foresta a suon d’avena;
quando, per nostra pena, il cieco errore
entrò nel fiero core al neghittoso.
E già Pan furioso con la sanna
spezzò l’amata canna; ond’or piangendo,
se stesso riprendendo, Amor losinga,
ché de la sua Siringa si ricorda.
La saette, la corda, l’arco e ‘l dardo,
c’ogni animal fea tardo, omai Diana
dispregia, e la fontana ove il protervo
Atteon divenne cervo; e per campagne
lassa le sue compagne senza guida;
cotanto si disfida omai del mondo,
che vede ognor al fondo gir le stelle.
Marsia senza pelle ha guasto il bosso,
per cui la carne e l’osso or porta ignudo;
Minerva il fiero scudo irata vibra;
Apollo in Tauro o in Libra non alberga,
ma con l’usata verga al fiume Anfriso
si sta dolente, assiso in una pietra,
e tien la sua faretra sotto ai piedi.
Ahi, Giove, e tu tel vedi? E non ha lira
da pianger, ma sospira, e brama il giorno
che ‘l mondo intorno intorno si disfaccia
e prenda un’altra faccia più leggiadra.
Bacco con la sua squadra senza Tirsi
vede incontro venirsi il fiero Marte
armato, e ‘n ogni parte farsi strada
con la cruenta spada. Ahi vita trista!
Non è chi gli resista. Ahi fato acerbo!
ahi ciel crudo e superbo! Ecco che ‘l mare
si comincia a turbare, e ‘ntorno ai liti
stan tutti sbigottiti i Dii dell’acque,
perché a Nettuno piacque esilio darli
e col tridente urtarli in su la guancia.
La donna e la bilancia è gita al cielo.
Gran cose in picciol velo oggi restringo.
Io ne l’aria dipingo, e tal si stende
che forse non intende il mio dir fosco.
Dormasi fuor del bosco. Or quando mai
ne pensàr tanti guai bestemmie antiche?
Gli ucelli e le formiche si ricolgono
de’ nostri campi il desiato tritico;
così gli Dii la libertà ne tolgono.
Tal che assai meglio nel paese scitico
viven color sotto Boote et Elice,
benché con cibi alpestri e vin sorbitico.
Già mi rimembra che da cima un’élice
la sinestra cornice, oimè, predisselo;
ché ‘l petto mi si fe’ quasi una selice.
Lasso, che la temenza al mio cor fisselo,
pensando al mal che avvenne; e non è dubbio
che la Sibilla ne le foglie scrisselo.
Un’orsa, un tigre han fatto il fier connubbio.
Deh, perché non troncate, o Parche rigide,
mia tela breve al dispietato subbio?
Pastor, la noce che con l’ombre frigide
nòce a le biade, or ch’è ben tempo, trunchesi,
pria che per anni il sangue si rinfrigide.
Non aspettate che la terra ingiunchesi
di male piante, e non tardate a svellere,
fin che ogni ferro poi per forza adunchesi.
Tagliate tosto le radici all’ellere;
ché se col tempo e col poder s’aggravano,
non lasseranno i pini in alto eccellere. –
Così cantava, e i boschi rintonavano
con note, quai non so s’un tempo in Menalo,
in Parnaso o in Eurota s’ascoltavano.
E se non fusse che ‘l suo gregge affrenalo
e tienlo a forza ne l’ingrata patria,
che a morte desiar spesso rimenalo,
verrebbe a noi, lassando l’idolatria
e gli ombrati costumi al guasto secolo,
fuor già d’ogni natia carità patria.
Et è sol di vertù sì chiaro specolo,
che adorna il mondo col suo dritto vivere;
degno assai più ch’io col mio dir non recolo.
Beata terra che ‘l produsse a scrivere,
e i boschi, ai quai sì spesso è dato intendere
rime, a chi ‘l ciel non pòte il fin prescrivere!
Ma l’empie stelle ne vorrei riprendere,
né curo io già, se col parlar mio crucciole;
sì ratto fer dal ciel la notte scendere,
che sperando udir più, vidi le lucciole.
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