INGLESE
27 Gennaio 2019UNA SCUOLA, TANTI INDIRIZZI
27 Gennaio 2019Arcadia
CAPITOLO XI
Se le lunghe rime di Fronimo e di Selvaggio porsono universalmente diletto a ciascuno de la nostra brigata, non è da dimandare. A me veramente, oltra al piacere grandissimo, commossono per forza le lacrime, udendo sì ben ragionare de l’amenissimo sito del mio paese. Che già mentre quelli versi durarono, mi parea fermamente essere nel bello e lieto piano che colui dicea; e vedere il placidissimo Sebeto, anzi il mio napolitano Tevere, in diversi canali discorrere per la erbosa campagna, e poi tutto inseme raccolto passare soavemente sotto le volte d’un picciolo ponticello, e senza strepito alcuno congiungersi col mare. Né mi fu picciola cagione di focosi sospiri lo intender nominare Baie e Vesuvio, ricordandomi de’ diletti presi in cotali luoghi. Coi quali ancora mi tornaro a la memoria i soavissimi bagni, i maravigliosi e grandi edificii, i piacevoli laghi, le dilettose e belle isolette, i sulfurei monti, e con la cavata grotta la felice costiera di Pausilipo, abitata di ville amenissime e soavemente percossa da le salate onde. Et appresso a questo, il fruttifero monte sovraposto a la città, et a me non poco grazioso, per memoria degli odoriferi roseti de la bella Antiniana, celebratissima Ninfa del mio gran Pontano. A questa cogitazione ancora si aggiunse il ricordarmi de le magnificenzie de la mia nobile e generosissima patria. La quale di tesori abondevole, e di ricco et onorato populo copiosa, oltra al grande circuito de le belle mura, contiene in sé il mirabilissimo porto, universale albergo di tutto il mondo; e con questo le alte torri, i ricchi templi, i superbi palazzi, i grandi et onorati seggi de’ nostri patrizii, e le strade piene di donne bellissime e di leggiadri e riguardevoli gioveni. Che dirò io de’ giochi, de le feste, del sovente armeggiare, di tante arti, di tanti studii, di tanti laudevoli esercizii? che veramente non che una città, ma qualsivoglia provincia, qualsivoglia opulentissimo regno ne sarebbe assai convenevolmente adornato. E sopra tutto mi piacque udirla comendare de’ studii de la eloquenzia e de la divina altezza de la poesia; e tra le altre cose, de le merite lode del mio virtuosissimo Caracciolo, non picciola gloria de le volgari Muse; la canzone del quale, e se per lo coverto parlare fu poco da noi intesa, non rimase però che con attenzione grandissima non fusse da ciascuno ascoltata. Altro che se forse da Ergasto, il quale, mentre quel cantare durò, in una fissa e lunga cogitazione vidi profondamente occupato, con gli occhi sempre fermati in quel sepolcro, senza moverli punto né battere palpebra mai, a modo di persona alienata; et a le volte mandando fuori alcune rare lacrime, e con le labra non so che fra se stesso tacitamente submormorando.
Ma finito il cantare, e da diversi in diversi modi interpretato, perché la notte si appressava e le stelle cominciavano ad apparere nel cielo, Ergasto, quasi da lungo sonno svegliato, si drizzò in piedi, e con pietoso aspetto v’èr noi volgendosi disse:
– Cari pastori, sì come io stimo, non senza voluntà degli Dii la fortuna a questo tempo ne ha qui guidati; con ciò sia cosa che ‘l giorno, il quale per me sarà sempre acerbo e sempre con debite lacrime onorato, è finalmente a noi con opportuno passo venuto; e compiesi dimane lo infelice anno, che con vostro commune lutto e dolore universale di tutte le circonstanti selve, le ossa de la vostra Massilia furono consecrate a la terra. Per la qual cosa, sì tosto come il sole, fornita questa notte, averà con la sua luce cacciate le tenebre, e gli animali usciranno a pascere per le selve, voi similmente convocando gli altri pastori, verrete qui a celebrar meco i debiti officii e i solenni giochi in memoria di lei, secondo la nostra usanza. Ove ciascuno de la sua vittoria averà da me quel dono, che da le mie facultà si puote espettare. –
E così detto, volendo Opico con lui rimanere, perché vecchio era, non gli fu permesso; ma datigli alquanti gioveni in sua compagna, la maggior parte di noi quella notte si restò con Ergasto a veghiare. Per la qual cosa, essendo per tutto oscurato, accendemmo di molte fiaccole intorno a la sepoltura, e sovra la cima di quella ne ponemmo una grandissima, la quale forse da l’unge a’ riguardanti si dimostrava quasi una chiara l’una in mezzo di molte stelle. Così tutta quella notte tra fochi, senza dormire, con suavi e lamentevoli suoni si passò; ne la quale gli ucelli ancora, quasi studiosi di superarne, si sforzavano per tutti gli alberi di quel luogo a cantare; e i silvestri animali, deposta la solita paura, come se demesticati fusseno, intorno a la tomba giacendo, parea che con piacere maraviglioso ne ascoltasseno.
E già in questo la vermiglia Aurora alzandosi sovra la terra, significava a’ mortali la venuta del sole, quando di lontano a suon di sampogna sentimmo la brigata venire, e dopo alquanto spazio, rischiarandosi tuttavia il cielo, gli cominciammo a scoprire nel piano; li quali tutti in schiera venendo vestiti e coverti di frondi, con rami lunghissimi in mano, parevano da lungi a vedere non uomini che venisseno, ma una verde selva che tutta inseme con gli alberi si movesse v’èr noi. A la fine giunti sovra al colle ove noi dimoravamo, Ergasto ponendosi in testa una corona di biancheggianti ulivi, adorò prima il sorgente sole: dopo a la bella sepoltura voltatosi, con pietosa voce, ascoltando ciascuno, così disse:
– Materne ceneri, e voi castissime e reverende ossa, se la inimica Fortuna il potere mi ha tolto di farve qui un sepolcro eguale a questi monti, e circondarlo tutto di ombrose selve con cento altari dintorno, e sovra a quelli ciascun matino cento vittime offrirvi, non mi potrà ella togliere che con sincera voluntà et inviolabile amore questi pochi sacrificii non vi renda e con la memoria e con le opre, quanto le forze si stendono, non vi onore. –
E così dicendo, fe’ le sante oblazioni, basciando religiosamente la sepoltura. Intorno a la quale i pastori ancora collocarono i grandi rami che in mano teneano, e chiamando tutti ad alta voce la divina anima, ferono similmente i loro doni: chi uno agnello, chi uno favo di mèle, chi latte, chi vino, e molti vi offersono incenso con mirra et altre erbe odorifere.
Allora Ergasto, fornito questo, propose i premii a coloro che correre volesseno; e facendosi venire un bello e grande ariete, le cui lane eran bianchissime e lunghe tanto che quasi i piedi gli toccavano, disse:
– Questo sarà di colui, a cui nel correre la sua velocità e la Fortuna concederanno il primo onore. Al secondo è apparecchiata una nova e bella fiscina, convenevole instrumento al sordido Bacco; e ‘l terzo rimarrà contento di questo dardo di genebro, il quale ornato di sì bel ferro, potrà e per dardo servire e per pastorale bastone. –
A queste parole si ferono avanti Ofelia e Carino, gioveni leggerissimi et usati di giungere i cervii per le selve; e dopo questi, Logisto e Galicio, e ‘l figliuolo di Opico chiamato Partenopeo, con Elpino e Serrano, et altri lor compagni più gioveni e di minore estima. E ciascuno postosi al dovuto ordine, non fu sì tosto dato il segno, che ad un tempo tutti cominciarono a stendere i passi per la verde campagna con tanto impeto, che veramente saette o fólgori avresti detto che stati fusseno; e tenendo sempre gli occhi fermi ove arrivare intendeano, si sforzava ciascuno di avanzare i compagni. Ma Carino con maravigliosa leggerezza era già avanti a tutti. Appresso al quale ma di bona pezza seguiva Logisto, e dopo Ofelia; a le cui spalle era sì vicino Galicio, che quasi col fiato il collo gli riscaldava e i piedi in quelle medesme pedate poneva, e se più lungo spazio a correre avuto avessono, lo si avrebbe senza dubbio lasciato dopo le spalle. E già vincitore Carino poco avea a correre, che la disegnata meta toccata avrebbe, quando, non so come, gli venne fallito un piede, o sterpo o petra o altro che se ne fusse cagione; e senza potere punto aitarsi, cadde subitamente col petto e col volto in terra. Il quale, o per invidia non volendo che Logisto la palma guadagnasse, o che da vero levar si volesse, non so in che modo ne l’alzarsi gli oppose davanti una gamba, e con la furia medesma che colui portava, il fe’ parimente a sé vicino cadere. Caduto Logisto, cominciò Ofelia con maggiore studio a sforzare i passi per lo libero campo, vedendosi già esser primo; a cui il gridare de’ pastori e ‘l plauso grandissimo aggiungevano animo a la vittoria. Tal che arrivando finalmente al destinato luogo, ottenne, sì come desiderava, la prima palma. E Galicio, che più che gli altri appreso gli era, ebbe il secondo pregio, e ‘l terzo Partenopeo.
Qui con gridi e rumori cominciò Logisto a lamentarsi de la frode di Carino, il quale opponendogli il piede, gli avea tolto il primo onore, e con instanzia grandissima il dimandava. Ofelia in contrario diceva esser suo, e con ambe le mani si tenea per le corna il guadagnato ariete. Le voluntà de’ pastori in diverse parti inclinavano, quando Partenopeo, figliuolo di Opico, sorridendo disse:
– E se a Logisto date il primo dono, a me, che sono ora il terzo, quale darete? –
A cui Ergasto con lieto volto rispose:
– Piacevolissimi gioveni, i premii che già avuti avete, vostri saranno; a me fia licito aver pietà de l’amico. –
E così dicendo, donò a Logisto una bella pecora con duo agnelli. Il che vedendo Carino, ad Ergasto voltosi, disse:
– Se tanta pietà hai degli amici caduti, chi più di me merita esser premiato? che senza dubbio sarei stato il primo, se la medesma sòrte che nocque a Logisto, non fusse a me stata contraria. –
E dicendo queste parole, mostrava il petto, la faccia e la bocca tutta piena di polvere; per modo che movendo riso a’ pastori, Ergasto fe’ venire un bel cane bianco, e tenendolo per le orecchie, disse:
– Prendi questo cane, il cui nome è Asterion, nato d’un medesmo padre con quel mio antico Petulco, il quale sovra tutti i cani fedelissimo et amorevole, meritò per la sua immatura morte essere da me pianto, e sempre con sospiro ardentissimo nominato. –
Acquetato era il rumore e ‘l dire de’ pastori, quando Ergasto cacciò fuori un bel palo grande e lungo e ponderoso per molto ferro, e disse:
– Per duo anni non arà mistiero di andare a la città né per zappe né per pale né per vomeri colui che in trar questo sarà vincitore; ché ‘l medesmo palo gli sarà e fatica e premio. –
A queste parole Montano et Elenco con Eugenio et Ursacchio si levarono in piedi; e passando avanti e postisi ad ordine, cominciò Elenco ad alzare di terra il palo; e poi che fra sé molto bene esaminato ebbe il peso di quello, con tutte sue forze si mise a trarlo, né però molto da sé il poteo dilungare. Il qual colpo fu sùbito segnato da Ursacchio; ma credendosi forse che in ciò solo le forze bastare gli dovesseno, benché molto vi si sforzasse, il trasse per forma che fe’ tutti ridere i pastori, e quasi davanti ai piedi sel fe’ cadere. Il terzo che ‘l tirò fu Eugenio, il quale di bono spazio passò i duo precedenti. Ma Montano, a cui l’ultimo tratto toccava, fattosi un poco avanti, si bassò in terra, e prima che il palo prendesse, due o tre volte dimenò la mano per quella polvere; dopo, presolo, et aggiungendo alquanto di destrezza a la forza, avanzò di tanto tutti gli altri, quanto due volte quello era lungo. A cui tutti i pastori applausono, con ammirazione lodando il bel tratto che fatto avea. Per la qual cosa Montano, presosi il palo, si ritornò a sedere.
Et Ergasto fe’ cominciare il terzo gioco, il quale fu di tal sòrte. Egli di sua mano con un de’ nostri bastoni fe’ in terra una fossa, picciola tanto, quanto solamente con un piè vi si potesse fermare un pastore, e l’altro tenere alzato, come vedemo spesse volte fare a le grue. Incontro al quale un per uno similmente con un piè solo aveano da venire gli altri pastori, e far prova di levarlo da quella fossa e porvisi lui. Il perdere, tanto de l’una parte quanto de l’altra, era toccare con quel piè che suspeso tenevano, per qualsivoglia accidente, in terra. Ove si videro di molti belli e ridiculi tratti, ora essendone cacciato uno et ora un altro. Finalmente toccando ad Ursacchio di guardare il luogo, e venendoli un pastore molto lungo davanti, sentendosi lui ancora scornato del ridere de’ pastori, e cercando di emendare quel fallo che nel trare del palo commesso avea cominciò a servirse de le astuzie, e bassando in un punto il capo, con grandissima prestezza il puse tra le cosce di colui che per attaccarsi con lui gli si era appressato; e senza fargli pigliar fiato, sel gettò con le gambe in aere per dietro le spalle, e sì lungo come era, il distese in quella polvere. La maraviglia, le risa e i gridi de’ pastori furono grandi. Di che Ursacchio prendendo animo, disse:
– Non possono tutti gli uomini tutte le cose sapere. Se in una ho fallato, ne l’altra mi basta avere ricoprato lo onore. –
A cui Ergasto ridendo affermò che dicea bene; e cavandosi dal lato una falce delicatissima col manico di bosso, non ancora adoprata in alcuno esercizio, gliela diede.
E sùbito ordinò i premii a coloro che lottare volessono, offrendo di dare al vincitore un bel vaso di legno di acero, ove per mano del padoano Mantegna, artefice sovra tutti gli altri accorto et ingegnosissimo, eran dipinte molte cose; ma tra l’altre una Ninfa ignuda, con tutti i membri bellissimi, dai piedi in fuori, che erano come quegli de le capre. La quale sovra un gonfiato otre sedendo, lattava un picciolo Satirello, e con tanta tenerezza il mirava, che parea che di amore e di carità tutta si struggesse; e ‘l fanciullo ne l’una mammella poppava, ne l’altra tenea distesa la tenera mano, e con l’occhio la si guardava, quasi temendo che tolta non gli fosse. Poco discosto da costoro si vedean duo fanciulli pur nudi, i quali avendosi posti duo volti orribili di mascare, cacciavano per le bocche di quelli le picciole mani, per porre spavento a duo altri che davanti gli stavano; de’ quali l’uno fuggendo si volgea indietro e per paura gridava, l’altro caduto già in terra piangeva, e non possendosi altrimente aitare, stendeva la mano per graffiarli. Ma di fuori del vaso correva a torno a torno una vite carica di mature uve; e ne l’un de’ capi di quella un serpe si avolgeva con la coda, e con la bocca aperta venendo a trovare il labro del vaso, formava un bellissimo e strano manico da tenerlo.
Incitò molto gli animi de’ circonstanti a dovere lottare la bellezza di questo vaso; ma pure stettono a vedere quello che i maggiori e più reputati facessono. Per la qual cosa Uranio, veggendo che nessuno ancora si movea, si levò sùbito in piedi e spogliatosi il manto, cominciò a mostrare le late spalle. Incontro al quale animosamente uscì Selvaggio, pastore notissimo e molto stimato fra le selve. La espettazione de’ circonstanti era grande, vedendo duo tali pastori uscire nel campo. Finalmente l’un verso l’altro approssimatosi, poi che per bono spazio riguardati si ebbero dal capo insino ai piedi, in un impeto furiosamente si ristrinsero con le forti braccia; e ciascuno deliberato di non cedere, parevano a vedere duo rabbiosi orsi o duo forti tori, che in quel piano combattessono. E già per ogni membro ad ambiduo correva il sudore, e le vene de le braccia e de le gambe si mostravano maggiori e rubiconde per molto sangue; tanto ciascuno per la vittoria si affaticava. Ma non possendosi in ultimo né gittare né dal luogo movere, e dubitando Uranio che a coloro, i quali intorno stavano, non rincrescesse lo aspettare, disse: – Fortissimo et animosissimo Selvaggio, il tardare, come tu vedi, è noioso: o tu alza me di terra, o io alzarò te; e del resto lassiamo la cura agli Dii -; e così dicendo il sospese da terra. Ma Selvaggio, non dimenticato de le sue astuzie, gli diede col talone dietro a la giuntura de le ginocchia una gran botta, per modo che facendoli per forza piegare le gambe il fe’ cadere sopino, e lui senza potere aitarsi gli cadde di sopra. Allora tutti i pastori maravigliati gridarono. Dopo questo, toccando la sua vicenda a Selvaggio di dovere alzare Uranio, il prese con ambedue le braccia per mezzo; ma per lo gran peso e per la fatica avuta non possendolo sustinere, fu bisogno, quantunque molto vi si sforzasse, che ambiduo così giunti cadessono in quella polvere. A l’ultimo alzatisi, con malo animo si apparecchiavano a la terza lotta. Ma Ergasto non volse che le ire più avanti procedessono, et amichevolmente chiamatili, gli disse:
– Le vostre forze non son ora da consumarsi qui per sì picciolo guidardone. Eguale è di ambiduo la vittoria, et eguali doni prenderete. –
E così dicendo, a l’uno diede il bel vaso, a l’altro una cetara nova, parimente di sotto e di sopra lavorata e di dolcissimo sòno; la quale egli molto cara tenea per mitigamento e conforto del suo dolore.
Avevano per aventura la precedente notte i compagni di Ergasto dentro la mandra preso un lupo; e per una festa il tenean così vivo legato ad un di quegli alberi. Di questo pensò Ergasto dover fare in quel giorno lo ultimo gioco; et a Clonico voltandosi, il quale per niuna cosa ancora levato si era da sedere, gli disse:
– E tu lasserai oggi così inonorata la tua Massilia, che in sua memoria non abbii di te a mostrare prova alcuna? Prendi, animoso giovene, la tua fronda, e fa conoscere agli altri che tu ancora ami Ergasto. –
E questo dicendo, a lui et agli altri mostrò il legato lupo, e disse:
– Chi per difendersi da le piogge del guazzoso verno desidera un cucullo o tabarro di pelle di lupo, adesso con la sua fionda in quel versaglio sel può guadagnare. –
Allora Clonico e Partenopeo e Montano, poco avanti vincitore nel palo, con Fronimo cominciarono a scingersi le fionde et a scoppiare fortissimamente con quelle; e poi gittate fra loro le sòrti, uscì prima quella di Montano, l’altra appresso fu di Fronimo, la terza di Clonico, la quarta di Partenopeo. Montano adunque lieto ponendo una viva selce ne la rete de la sua fronda, e con tutta sua forza rotandolasi intorno al capo, la lasciò andare. La quale furiosamente stridendo pervenne a dirittura ove mandata era; e forse a Montano avrebbe sovra al palo portata la seconda vittoria, se non che il lupo impaurito per lo romore, tirandosi indietro, si mosse dal luogo ove stava, e la pietra passò via. Appresso a costui tirò Fronimo, e benché indrizzasse bene il colpo verso la testa del lupo, non ebbe ventura in toccarla, ma vicinissimo andandoli, diede in quel albero e levògli un pezzo de la scorza; e ‘l lupo tutto atterrito fe’ movendosi grandissimo strepito. In questo parve a Clonico di dovere aspettare che ‘l lupo si fermasse, e poi sì tosto come quieto il vide, liberò la pietra; la quale drittissima verso quello andando, diede in la corda con che a l’albero legato stava, e fu cagione che il lupo, facendo maggiore sforzo, quella rumpesse. E i pastori tutti gridarono, credendo che al lupo dato avesse: ma quello sentendosi sciolto, sùbito incominciò a fuggire. Per la qual cosa Partenopeo, che tenea già la fionda in posta per tirare, vedendolo traversare per salvarsi in un bosco che da la man sinestra gli stava, invocò in sua aita i pastorali Dii; e fortissimamente lasciando andare il sasso, volse la sua sòrte che al lupo, il quale con ogni sua forza intendeva a correre, ferì ne la tempia sotto la manca orecchia, e senza farlo punto movere, il fe’ sùbito morto cadere. Onde ciascuno di maraviglia rimase attonito, et ad una voce tutto lo spettacolo chiamò vincitore Partenopeo; et ad Opico volgendosi, che già per la nova allegrezza piangea, si congratulavano, facendo maravigliosa festa. Et Ergasto allora lieto fattosi incontro a Partenopeo, lo abbracciò, e poi coronandolo d’una bella ghirlanda di fronde di baccari, gli diede per pregio un bel cavriuolo, cresciuto in mezzo de le pecore et usato di scherzare tra i cani e di urtare coi montoni, mansuetissimo e caro a tutti i pastori. Appresso a Partenopeo, Clonico che rotto avea il legame del lupo, ebbe il secondo dono; il quale fu una gabbia nova e bella, fatta in forma di torre, con una pica loquacissima dentro, ammaestrata di chiamare per nome e di salutare i pastori; per modo che chi veduta non la avesse, udendola solamente parlare, si avrebbe per fermo tenuto che quella uomo fusse. Il terzo premio fu dato a Fronimo, che con la pietra ferì ne l’albero presso a la testa del lupo; il quale fu una tasca da tenere il pane, lavorata di lana mollissima e di diversi colori. Dopo dei quali toccava a Montano l’ultimo pregio, quantunque al tirare stato fosse il primo. A cui Ergasto piacevolmente e quasi mezzo sorridendo disse:
– Troppo sarebbe oggi stata grande la tua ventura, Montano, se così ne la fionda fossi stato felice, come nel palo fosti -; e così dicendo, si levò dal collo una bella sampogna di canna fatta solamente di due voci, ma di grandissima armonia nel sonare, e gliela diede; il quale lietamente prendendola ringraziò.
Ma forniti i doni, rimase ad Ergasto un delicatissimo bastone di pero selvatico, tutto pieno di intagli e di varii colori di cera per mezzo, e ne la sua sommità investito d’un nero corno di bufalo, sì lucente che veramente avresti detto che di vetro stato fusse. Or questo bastone Ergasto il donò ad Opico, dicendogli:
– E tu ancora ti ricorderai di Massilia, e per suo amore prenderai questo dono, per lo quale non ti sarà mistiero lottare, né correre, né fare altra prova. Assai per te ha oggi fatto il tuo Partenopeo, il quale nel correre fu de’ primi, e nel trare de la fionda, senza controversia, è stato il primo. –
A cui Opico allegro rendendo le debite grazie, così rispose:
– I privilegii de la vecchiezza, figliuol mio, son sì grandi, che, o vogliamo, o non vogliamo, semo costretti di obedirli. Oh quanto ben fra gli altri mi avresti in questo giorno veduto adoperare, se io fusse di quella età e forza che io era, quando nel sepolcro di quel gran pastore Panormita furono posti i premii, sì come tu oggi facesti, ove nessuno, né paesano né forastiero si possette a me agguagliare. Ivi vinsi Crisaldo, figliuolo di Tirreno, ne le lotte; e nel saltare passai di gran lunga il famoso Silvio; così ancora nel correre mi lasciai dietro Idalogo et Ameto, i quali eran fratelli e di velocità e scioltezza di piedi avanzavano tutti gli altri pastori. Solamente nel saettare fui superato da un pastore che avea nome Tirsi; e questo fu per cagione che colui, avendo uno arco fortissimo con le punte guarnite di corno di capra, possea con più securtà tirarlo che non facea io, il quale di semplice tasso avendolo, dubitava di spezzarlo; e così mi vinse. Allora era io fra’ pastori, allora era io fra’ gioveni conosciuto; ora sovra di me il tempo usa le sue ragioni. Voi dunque a cui la età il permette, vi esercitate ne le prove giovenili; a me e gli anni e la natura impongono altre leggi. Ma tu, acciò che questa festa da ogni parte compita sia, prendi la sonora sampogna, figliuol mio, e fa che colei che si allegrò d’averti dato al mondo, si rallegri oggi di udirti cantare: e dal cielo con lieta fronte mire et ascolte il suo sacerdote celebrare per le selve la sua memoria.
Parve ad Ergasto sì giusto quello che Opico dicea, che senza farli altra risposta, prese di man di Montano la sampogna che poco avanti donata li avea; e quella per bono spazio con pietoso modo sonata, vedendo ciascuno con attenzione e silenzio aspettare, non senza alcun sospiro mandò fuora queste parole:
ERGASTO
Poi che ‘l soave stile e ‘l dolce canto
sperar non lice più per questo bosco,
ricominciate, o Muse, il vostro pianto.
Piangi, colle sacrato, opaco e fosco,
e voi, cave spel’unche e grotte oscure,
ululando venite a pianger nosco.
Piangete, faggi e querce alpestre e dure,
e piangendo narrate a questi sassi
le nostre lacrimose aspre venture.
Lacrimate voi, fiumi ignudi e cassi
d’ogni dolcezza; e voi, fontane e rivi,
fermate il corso e ritenete i passi.
E tu, che fra le selve occolta vivi,
Eco mesta, rispondi a le parole,
e quant’io parlo per li tronchi scrivi.
Piangete, valli abandonate e sole;
e tu, terra, depingi nel tuo manto
i gigli oscuri e nere le viole.
La dotta Egeria e la tebana Manto
con sùbito furor Morte n’ha tolta.
Ricominciate, Muse, il vostro pianto.
E se tu, riva, udisti alcuna volta
umani affetti, or prego che accompagni
la dolente sampogna, a pianger volta.
O erbe, o fior, che un tempo eccelsi e magni
re foste al mondo, et or per aspra sòrte
giacete per li fiumi e per li stagni,
venite tutti meco a pregar Morte,
che, se esser può, finisca le mie doglie,
e gli rincresca il mio gridar sì forte.
Piangi, Iacinto, le tue belle spoglie,
e radoppiando le querele antiche,
descrivi i miei dolori in le tue foglie.
E voi, liti beati e piagge apriche,
ricordate a Narcisso il suo dolore,
se giamai foste di miei preghi amiche.
Non verdeggi per campi erba né fiore,
né si scerna più in rosa o in amaranto
quel bel vivo leggiadro almo colore.
Lasso, chi può sperar più gloria o vanto?
Morta è la fé, morto è ‘l giudicio fido.
Ricominciate, Muse, il vostro pianto.
E mentre sospirando indarno io grido.
voi, ucelletti inamorati e gai,
uscite, prego, da l’amato nido.
O Filomena, che gli antichi guai
rinovi ogni anno, e con soavi accenti
da selve e da spel’unche udir ti fai;
e se tu, Progne, è ver c’or ti lamenti
né con la forma ti fur tolti i sensi,
ma del tuo fallo ancor ti lagni e penti;
lasciate, prego, i vostri gridi intensi,
e fin che io nel mio dir diventi roco,
nessuna del suo mal ragione o pensi.
Ahi, ahi, seccan le spine; e poi che un poco
son state a ricoprar l’antica forza,
ciascuna torna e nasce al proprio loco.
Ma noi, poi che una volta il ciel ne sforza,
vento né sol, né pioggia o primavera
basta a tornarne in la terrena scorza.
E ‘l sol fuggendo ancor da mane a sera,
ne mena i giorni e ‘l viver nostro inseme
e lui ritorna pur come prima era.
Felice Orfeo, che inanzi l’ore estreme,
per ricoprar colei che pianse tanto,
securo andò dove più andar si teme!
Vinse Megera, vinse Radamanto;
a pietà mosse il re del crudo regno.
Ricominciate, Muse, il vostro pianto.
Or perché, lasso, al suon del curvo legno
temprar non lice a me sì meste note,
ch’impetri grazia del mio caro pegno?
E se le rime mie non son sì note
come quelle d’Orfeo, pur la pietade
dovrebbe farle in ciel dolci e devote.
Ma se schernendo nostra umanitade
lei schifasse il venir, sarei ben lieto
di trovar all’uscir chiuse le strade.
O desir vano, o mio stato inquieto!
E so pur che con erba o con incanto
mutar non posso l’immortal decreto.
Ben può quel nitido uscio d’elefanto
mandarmi in sogno il volto e la favella.
Ricominciate, Muse, il vostro pianto.
Ma ristorar non può né darmi quella
che cieco mi lasciò senza il suo lume,
né tòrre al ciel sì peregrina stella.
Ma tu, ben nato aventuroso fiume,
convoca le tue Ninfe al sacro fondo,
e rinova il tuo antico almo costume.
Tu la bella Sirena in tutto il mondo
facesti nota con sì altera tomba:
quel fu ‘l primo dolor, quest’è ‘l secondo.
Fa che costei ritrove un’altra tromba
che di lei cante, acciò che s’oda sempre
il nome che da se stesso rimbomba.
E se per pioggia mai non si distempre
il tuo bel corso, aita in qualche parte
il rozzo stil, sì che pietade il tempre.
Non che sia degno da notarsi in carte,
ma che sul reste qui tra questi faggi,
così colmo d’amor, privo d’ogn’arte;
acciò che in questi tronchi aspri e selvaggi
leggan gli altri pastor che qui verranno
i bei costumi e gli atti onesti e saggi;
e poi crescendo ognor più di anno in anno,
memoria sia di lei fra selve e monti,
mentre erbe in terra e stelle in ciel saranno.
Fiere, ucelli, spel’unche, alberi e fonti,
uomini e Dei quel nome eccelso e santo
esalteran con versi alteri e conti.
E perché al fine alzar conviemmi alquanto,
lassando il pastoral ruvido stile,
ricominciate, Muse, il vostro pianto.
Non fa per me più suono oscuro e vile,
ma chiaro e bello, che dal ciel l’intenda
quella altera ben nata alma gentile.
Ella coi raggi suoi fin qui si stenda,
ella aita mi porga, e mentre io parlo,
spesso a vedermi per pietà discenda.
E se ‘l suo stato è tal, che a dimostrarlo
la lingua manche, a se stessa mi scuse,
e m’insegne la via d’in carte ornarlo.
Ma tempo ancor verrà che l’alme Muse
saranno in pregio; e queste nebbie et ombre
dagli occhi de’ mortai fien tutte escluse.
Allor pur converrà c’ognuno sgombre
da sé questi pensier terreni e loschi,
e di salde speranze il cor s’ingombre.
Ove so che parranno incolti e foschi
i versi miei, ma spero che lodati
saran pur da’ pastori in questi boschi.
E molti che oggi qui non son pregiati,
vedranno allor di fior vermigli e gialli
descritti i nomi lor per mezzo i prati.
E le fontane e i fiumi per le valli
mormorando diran quel c’ora io canto
con rilucenti e liquidi cristalli.
E gli alberi c’or qui consacro e pianto,
risponderanno al vento sibilando.
Ponete fine, o Muse, al vostro pianto.
Fortunati i pastor che, desiando
di venir in tal grado, han poste l’ale!
benché nostro non sia sapere il quando.
Ma tu, più c’altra, bella et immortale
anima, che dal ciel forse m’ascolti
e mi dimostri al tuo bel coro eguale,
impetra a questi lauri ombrosi e folti
grazia, che con lor sempre verdi fronde
possan qui ricoprirne ambo sepolti.
Et al soave suon di lucide onde
il cantar degli ucelli ancor si aggiunga,
acciò che il luogo d’ogni grazia abonde.
Ove, se ‘l viver mio pur si prolunga
tanto, che, com’io bramo, ornar ti possa,
e da tal voglia il ciel non mi disgiunga,
spero che sovra te non avrà possa
quel duro, eterno, ineccitabil sonno
d’averti chiusa in così poca fossa;
se tanto i versi miei prometter ponno.
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