INGLESE
27 Gennaio 2019UNA SCUOLA, TANTI INDIRIZZI
27 Gennaio 2019Arcadia
CAPITOLO XII
La nova armonia, i soavi accenti, le pietose parole, et in ultimo la bella et animosa promessa di Ergasto tenevano già, tacendo lui, ammirati e suspesi gli animi degli ascoltanti; quando tra le sommità de’ monti il sole bassando i rubicondi raggi verso lo occidente, ne fe’ conoscere l’ora esser tarda, e da dovere avvicinarne verso le lassate mandre. Per la qual cosa Opico, nostro capo, in piè levatosi e verso Ergasto con piacevole volto giratosi, gli disse:
– Assai per oggi onorata hai la tua Massilia; ingegnaraiti per lo avvenire, quel che nel fine del tuo cantare con affettuosa voluntà gli prometti, con ferma e studiosa perseveranza adempirli. –
E così detto, basciando la sepoltura, et invitando noi a fare il simile, si puse in via. Appresso al quale l’un dopo l’altro prendendo congedo, si indrizzò ciascuno verso la sua capanna, beata riputando Massilia sovra ogni altra, per avere di sé a le selve lasciato un sì bel pegno.
Ma venuta la oscura notte, pietosa de le mondane fatiche, a dar riposo agli animali, le quiete selve tacevano, non si sentivano più voci di cani né di fiere né di ucelli; le foglie sovra gli alberi non si moveano; non spirava vento alcuno; solamente nel cielo in quel silenzio si potea vedere alcuna stella o scintillare o cadere. Quando io, non so se per le cose vedute il giorno, o che che se ne fusse cagione, dopo molti pensieri, sovrapreso da grave sonno, varie passioni e dolori sentiva ne l’animo. Però che mi pareva, scacciato da’ boschi e da’ pastori, trovarmi in una solitudine da me mai più non veduta, tra deserte sepolture, senza vedere uomo che io conoscessi; onde io volendo per paura gridare, la voce mi veniva meno, né per molto che io mi sforzasse di fuggire, possea estendere i passi, ma debole e vinto mi rimaneva in mezzo di quelle. Poi pareva che stando ad ascoltare una Sirena, la quale sovra uno scoglio amaramente piangeva, una onda grande del mare mi attuffasse, e mi porgesse tanta fatica nel respirare, che di poco mancava che io non mi morisse. Ultimamente un albero bellissimo di arangio, e da me molto coltivato, mi parea trovare tronco da le radici, con le frondi, i fiori e i frutti sparsi per terra. E dimandando io chi ciò fatto avesse, da alcune Ninfe che quivi piangevano mi era risposto, le inique Parche con le violente secure averlo tagliato. De la qual cosa dolendomi io forte, e dicendo sovra lo amato troncone: «Ove dunque mi riposerò io? sotto qual ombra omai canterò i miei versi?», mi era da l’un de’ canti mostrato un nero funebre cipresso, senza altra risposta avere a le mie parole.
In questo tanta noia et angoscia mi soprabondava, che non possendo il sonno soffrirla, fu forza che si rompesse. Onde, come che molto mi piacesse non esser così la cosa come sognato avea, pur non di meno la paura e ‘l suspetto del veduto sogno mi rimase nel core, per forma che tutto bagnato di lacrime non possendo più dormire, fui costretto per minor mia pena a levarmi e, benché ancora notte fusse, uscire per le fosche campagne. Così di passo in passo, non sapendo io stesso ove andare mi dovesse, guidandomi la Fortuna, pervenni finalmente a la falda di un monte, onde un gran fiume si movea, con un ruggito e mormorio mirabile, massimamente in quella ora che altro romore non si sentiva.
E stando qui per bono spazio, la Aurora già incominciava a rosseggiare nel cielo, risvegliando universalmente i mortali a le opre loro. La quale per me umilmente adorata, e pregata volesse prosperare i miei sogni, parve che poco ascoltasse e men curasse le parole mie. Ma dal vicino fiume, senza avvedermi io come, in un punto mi si offerse avanti una giovene doncella ne l’aspetto bellissima, e nei gesti e ne l’andare veramente divina; la cui veste era di un drappo sottilissimo e sì rilucente che, se non che morbido il vedea, avrei per certo detto che di cristallo fusse; con una nova ravolgetura di capelli, sovra i quali una verde ghirlanda portava, et in mano un vasel di marmo bianchissimo. Costei venendo v’èr me e dicendomi: «Séguita i passi miei, ch’io son Ninfa di questo luogo», tanto di venerazione e di paura mi porse inseme, che attonito, senza rispondergli e non sapendo io stesso discernere s’io pur veghiasse o veramente ancora dormisse, mi pusi a seguitarla. E giunto con lei sopra al fiume, vidi subitamente le acque da l’un lato e da l’altro restringersi e dargli luogo per mezzo; cosa veramente strana a vedere, orrenda a pensare, mostrosa e forse incredibile ad udire. Dubitava io andargli appresso, e già mi era per paura fermato in su la riva; ma ella piacevolmente dandomi animo mi prese per mano, e con somma amorevolezza guidandomi, mi condusse dentro al fiume. Ove senza bagnarmi piede seguendola, mi vedeva tutto circondato da le acque, non altrimente che se andando per una stretta valle mi vedesse soprastare duo erti argini o due basse montagnette.
Venimmo finalmente in la grotta onde quella acqua tutta usciva, e da quella poi in un’altra, le cui volte, sì come mi parve di comprendere, eran tutte fatte di scabrose pomici; tra le quali in molti luoghi si vedevano pendere stille di congelato cristallo, e dintorno a le mura per ornamento poste alcune marine cochiglie; e ‘l suolo per terra tutto coverto di una minuta e spessa verdura, con bellissimi seggi da ogni parte, e colonne di translucido vetro, che sustinevano il non alto tetto. E quivi dentro sovra verdi tappeti trovammo alcune Ninfe sorelle di lei, che con bianchi e sottilissimi cribri cernivano oro separandolo da le minute arene. Altre filando il riducevano in mollissimo stame, e quello con sete di diversi colori intessevano in una tela di meraviglioso artificio; ma a me, per lo argomento che in sé contineva, augurio infelicissimo di future lacrime. Con ciò sia cosa che nel mio intrare trovai per sòrte che tra li molti ricami tenevano allora in mano i miserabili casi de la deplorata Euridice; sì come nel bianco piede punta dal velenoso aspide fu costretta di esalare la bella anima, e come poi per ricoprarla discese a l’inferno, e ricoprata la perdé la seconda volta lo smemorato marito. Ahi lasso, e quali percosse, vedendo io questo, mi sentii ne l’animo, ricordandomi de’ passati sogni! e non so qual cosa il core mi presagiva, che benché io non volesse, mi trovava gli occhi bagnati di lacrime, e quanto vedeva, interpretava in sinestro senso.
Ma la Ninfa che mi guidava, forse pietosa di me, togliendomi quindi, mi fe’ passare più oltre, in un luogo più ampio e più spazioso, ove molti laghi si vedevano, molte scaturigini, molte spel’unche, che rifundevano acque, da le quali i fiumi che sovra la terra correno prendono le loro origini. O mirabile artificio del grande Idio! La terra che io pensava che fusse soda, richiude nel suo ventre tante concavità! Allora incominciai io a non maravigliarmi de’ fiumi, come avesseno tanta abondanza, e come con indeficiente liquore serbasseno eterni i corsi loro. Così passando avanti tutto stupefatto e stordito dal gran romore de le acque, andava mirandomi intorno, e non senza qualche paura considerando la qualità del luogo ove io mi trovava. Di che la mia Ninfa accorgendosi:
– Lascia – mi disse – cotesti pensieri, et ogni timore da te discaccia; ché non senza voluntà del cielo fai ora questo camino. I fiumi che tante fiate uditi hai nominare, voglio che ora vedi da che principio nascano. Quello che corre sì lontano di qui, è il freddo Tanai; quel altro è il gran Danubio; questo è il famoso Meandro; questo altro è il vecchio Peneo; vedi Caistro; vedi Acheloo; vedi il beato Eurota, a cui tante volte fu lecito ascoltare il cantante Apollo. E perché so che tu desideri vedere i tuoi, i quali per aventura ti son più vicini che tu non avisi, sappi che quello a cui tutti gli altri fanno tanto onore, è il triunfale Tevere, il quale non come gli altri è coronato di salci o di canne, ma di verdissimi lauri, per le continue vittorie de’ suoi figliuoli. Gli altri duo che più propinqui gli stanno, sono Liri e Vulturno, i quali per li fertili regni de’ tuoi antichi avoli felicemente discorreno. –
Queste parole ne l’animo mio destaro un sì fatto desiderio, che non possendo più tenere il silenzio, così dissi:
– O fidata mia scorta, o bellissima Ninfa, se fra tanti e sì gran fiumi il mio picciolo Sebeto può avere nome alcuno, io ti prego che tu mel mostri. –
– Ben lo vedrai tu disse ella quando li sarai più vicino, Ché adesso per la sua bassezza non potresti. – E volendo non so che altra cosa dire, si tacque.
Per tutto ciò i passi nostri non si allentarono, ma continuando il camino, andavamo per quel gran vacuo, il quale alcuna volta si restringea in angustissime vie, alcuna altra si diffundea in aperte e larghe pianure; e dove monti, e dove valli trovavamo, non altrimente che qui sovra la terra essere vedemo.
– Maravigliarestiti tu – disse la Ninfa – se io ti dicesse che sovra la testa tua ora sta il mare? e che per qui lo inamorato Alfeo, senza mescolarsi con quello, per occolta via ne va a trovare i soavi abbracciamenti de la siciliana Aretusa? –
Così dicendo, cominciammo da l’unge a scoprire un gran foco et a sentire un puzzo di solfo. Di che vedendo ella che io stava maravigliato, mi disse:
– Le pene de’ fulminati Giganti, che volsero assalire il cielo son di questo cagione; i quali, oppressi da gravissime montagne, spirano ancora il celeste foco, con che furono consumati. Onde avviene che sì come in altre parti le caverne abondano di liquide acque, in queste ardeno sempre di vive fiamme. E se non che io temo che forse troppo spavento prenderesti, io ti farei vedere il superbo Encelado disteso sotto la gran Trinacria eruttar foco per le rotture di Mongibello; e similmente la ardente fucina di Vulcano, ove li ignudi Ciclopi sovra le sonanti ancudini batteno i tuoni a Giove; et appresso poi sotto la famosa Enaria, la quale voi mortali chiamate Ischia, ti mostrarei il furioso Tifeo, dal quale le estuanti acque di Baia e i vostri monti del solfo prendono il lor calore. Così ancora sotto il gran Vesevo ti farei sentire li spaventevoli muggiti del gigante Alcioneo; benché questi credo gli sentirai, quando ne avvicinaremo al tuo Sebeto. Tempo ben fu che con lor danno tutti i finitimi li sentirono, quando con tempestose fiamme con cenere coperse i circonstanti paesi, sì come ancora i sassi liquefatti et arsi testificano chiaramente a chi gli vede. Sotto ai quali chi sarà mai che creda che e populi e ville e città bilissime siano sepolte? Come veramente vi sono, non solo quelle che da le arse pomici e da la mina del monte furon coperte, ma questa che dinanzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città un tempo nei tuoi paesi, chiamata Pompei, et irrigata da le onde del freddissimo Sarno, fu per sùbito terremoto inghiottita da la terra, mancandoli credo sotto ai piedi il firmamento ove fundata era. Strana per certo et orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto tòrre dal numero de’ vivi! Se non che finalmente sempre si arriva ad un termino, né più in là che a la morte si puote andare.
E già in queste parole eramo ben presso a la città che lei dicea, de la quale e le torri e le case e i teatri e i templi si poteano quasi integri discernere. Maravigliaimi io del nostro veloce andare, che in sì breve spazio di tempo potessemo da Arcadia insino qui essere arrivati; ma si potea chiaramente conoscere che da potenzia maggiore che umana eravamo sospinti. Così a poco a poco cominciammo a vedere le picciole onde di Sebeto. Di che vedendo la Ninfa che io mi allegrava, mandò fuore un gran sospiro, e tutta pietosa v’èr me volgendosi, disse: – Omai per te puoi andare -. E così detto disparve, né più si mostrò agli occhi miei.
Rimasi io in quella solitudine tutto pauroso e tristo, e vedendomi senza la mia scorta, appena arei avuto animo di movere un passo, se non che dinanzi agli occhi mi vedea lo amato fiumicello. Al quale dopo breve spazio appressatomi, andava desideroso con gli occhi cercando se veder potesse il principio onde quella acqua si movea; perché di passo in passo il suo corso pareva che venisse crescendo et acquistando tuttavia maggior forza. Così per occolto canale indrizzatomi, tanto in qua et in là andai, che finalmente arrivato ad una grotta cavata ne l’aspro tofo, trovai in terra sedere il venerando Idio, col sinestro fianco appoggiato sovra un vaso di pietra che versava acqua; la quale egli in assai gran copia facea maggiore con quella che dal volto, da’ capelli e da’ peli de la umida barba piovendoli continuamente vi aggiungeva. I suoi vestimenti a vedere parevano di un verde limo; in la destra mano teneva una tenera canna, et in testa una corona intessuta di giuochi e di altre erbe provenute da le medesme acque. E dintorno a lui con disusato mormorio le sue Ninfe stavano tutte piangendo, e senza ordine o dignità alcuna gittate per terra non alzavano i mesti volti.
Miserando spettacolo, vedendo io questo, si offerse agli occhi miei. E già fra me cominciai a conoscere per qual cagione inanzi tempo la mia guida abandonato mi avea; ma trovandomi ivi condotto, né confidandomi di tornare più indietro, senza altro consiglio prendere, tutto doloroso e pien di sospetto mi inclinai a basciar prima la terra, e poi cominciai queste parole:
– O liquidissimo fiume, o Re del mio paese, o piacevole e grazioso Sebeto, che con le tue chiare e freddissime acque irrighi la mia bella patria, Dio ti esalte! Dio vi esalte, o Ninfe, generosa progenie del vostro padre! Siate, prego, propizie al mio venire, e benigne et umane tra le vostre selve mi ricevete. Baste fin qui a la mia dura Fortuna avermi per diversi casi menato; ormai, o reconciliata o sazia de le mie fatiche, deponga le arme.
Non avea ancora io fornito il mio dire, quando da quella mesta schiera due Ninfe si mossono, e con lacrimosi volti v’èr me venendo, mi pusero mezzo tra loro. De le quali una alquanto più che l’altra col viso levato, prendendomi per mano, mi menò verso la uscita, ove quella picciola acqua in due parti si divide, l’una effundendosi per le campagne, l’altra per occolta via andandone a’ commodi et ornamenti de la città. E quivi fermatasi, mi mostrò il camino, significandomi in mio arbitrio essere omai lo uscire. Poi per manifestarmi chi esse fusseno, mi disse:
– Questa, la qual tu ora da nubilosa caligine oppresso pare che non riconoschi, è la bella Ninfa che bagna lo amato nido de la tua singulare Fenice; il cui liquore tante volte insino al colmo da le tue lacrime fu aumentato. Me, che ora ti parlo, troverai ben tosto sotto le pendici del monte ove ella si posa. – E ‘l dire di queste parole, e ‘l convertirsi in acqua, e l’aviarsi per la coverta via, fu una medesma cosa.
Lettore, io ti giuro, se quella deità che in fin qui di scriver questo mi ha prestato grazia, conceda, qualunque elli si siano, immortalità agli scritti miei, che io mi trovai in tal punto sì desideroso di morire, che di qualsivoglia maniera di morte mi sarei contentato. Et essendo a me medesmo venuto in odio, maladissi l’ora che da Arcadia partito mi era, e qualche volta intrai in speranza che quello che io vedeva et udiva fusse pur sogno; massimamente non sapendo fra me stesso stimare, quanto stato fusse lo spazio ch’io sotterra dimorato era. Così tra pensieri, dolore e confusione, tutto lasso e rotto, e già fuora me, mi condussi a la designata fontana. La quale sì tosto come mi sentì venire, cominciò forte a bollire et a gorgogliare più che il solito, quasi dir mi volesse: – Io son colei cui tu poco inanzi vedesti. – Per la qual cosa girandomi io da la destra mano, vidi e riconobbi il già detto colle, famoso molto per la bellezza de l’alto tugurio che in esso si vede, denominato da quel gran bifolco Africano, rettore di tanti armenti, il quale a’ suoi tempi, quasi un altro Anfione, col suono de la soave cornamusa edificò le eterne mura de la divina cittade.
E volendo io più oltre andare, trovai per sòrte appiè de la non alta salita Barcinio e Summonzio, pastori fra le nostre selve notissimi, i quali con le loro gregge al tepido sole, però che vento facea, si erano retirati, e, per quanto dai gesti comprender si potea, mostravano di voler cantare. Onde io, benché con orecchie piene venisse de’ canti di Arcadia, pur per udire quelli del mio paese e vedere in quanto gli si avvicinasseno, non mi parve disdicevole il fermarmi; et a tanto altro tempo per me sì malamente dispeso, questo breve spazio, questa picciola dimoranza ancora aggiungere. Così non molto discosto da loro, sovra la verde erba mi pusi a giacere. A la qual cosa mi porse ancor animo il vedere che da essi conosciuto non era; tanto il cangiato abito e ‘l soverchio dolore mi aveano in non molto lungo tempo transfigurato. Ma rivolgendomi ora per la memoria il lor cantare, e con quali accenti i casi del misero Meliseo deplorasseno, mi piace sommamente con attenzione avergli uditi; non già per conferirli con quegli che di là ascoltai, né per porre queste canzoni con quelle, ma per allegrarmi del mio cielo, che non del tutto vacue abbia voluto lasciare le sue selve; le quali in ogni tempo nobilissimi pastori han da sé produtti, e dagli altri paesi con amorevoli accoglienze e materno amore a sé tirati. Onde mi si fa leggiero il credere, che da vero in alcun tempo le Sirene vi abitasseno, e con la dolcezza del cantare detinesseno quegli che per la lor via si andavano. Ma tornando omai ai nostri pastori, poi che Barcinio per buono spazio assai dolcemente sonata ebbe la sua sampogna, cominciò così a dire, col viso rivolto verso il compagno; il quale similmente assiso in una pietra, stava per rispondergli attentissimo:
BARCINIO, SUMMONZIO, MELISEO
BARCINIO Qui cantò Meliseo, qui proprio assisimi,
quand’ei scrisse in quel faggio: – Vidi, io misero,
vidi Filli morire, e non uccisimi. –
SUMMONZIO Oh pietà grande! E quali Dii permisero
a Meliseo venir fato tant’aspero?
perché di vita pria non lo divisero?
BARCINIO Quest’è sol la cagione ond’io mi esaspero
incontra ‘l cielo, anzi mi indrago e invipero,
e via più dentro al cor mi induro e inaspero,
pensando a quel che scrisse in un giunipero:
– Filli, nel tuo morir morendo lassimi. –
Oh dolor sommo, a cui null’altro equipero!
SUMMONZIO Questa pianta vorrei che tu mostrassimi,
per poter a mia posta in quella piangere;
forse a dir le mie pene oggi incitassimi!
BARCINIO Mille ne son, che qui vedere e tangere
a tua posta potrai; cerca in quel nespilo;
ma destro nel toccar, guarda nol frangere.
SUMMONZIO – Quel biondo crine, o Filli, or non increspilo
con le tue man, né di ghirlande infiorilo,
ma del mio lacrimar lo inerbi e incespilo. –
BARCINIO Volgi in qua gli occhi e mira in su quel corilo:
– Filli, deh non fuggir, ch’io seguo; aspettami,
portane il cor, che qui lasciando accorilo. –
SUMMONZIO Dir non potrei quanto lo udir dilettami;
ma cerca ben se v’è pur altro arbuscolo,
quantunque il mio bisogno altrove affrettami.
BARCINIO Una tabella puse per munuscolo
in su quel pin. Se vuoi vederla, or àlzati,
ch’io ti terrò su l’uno e l’altro muscolo.
Ma per miglior salirvi, prima scàlzati,
e depon qui la pera, il manto e ‘l bacolo,
e con un salto poi ti apprendi e sbàlzati.
SUMMONZIO Quinci si vede ben, senz’altro ostacolo
– Filli, quest’alto pino io ti sacrifico;
qui Diana ti lascia l’arco e ‘l iacolo,
Questo è l’altar che in tua memoria edifico;
quest’è ‘l tempio onorato, e questo è il tumulo
in ch’io piangendo il tuo bel nome amplifico.
Qui sempre ti farò di fiori un cumulo:
ma tu, se ‘l più bel luogo il ciel destìnati,
non disprezzar ciò che in tua gloria accumulo.
V’èr noi più spesso omai lieta avicìnati;
e vedrai scritto un verso in su lo stipite:
«Arbor di Filli io son; pastore, inclìnati». –
BARCINIO Or che dirai, quand’ei gittò precipite
quella sampogna sua dolce et amabile,
e per ferirsi prese il ferro ancipite?
Non gian con un suon tristo e miserabile,
«Filli, Filli» gridando tutti i calami?
che pur parve ad udir cosa mirabile.
SUMMONZIO Or non si mosse da’ superni talami
Filli a tal suon? ch’io già tutto commovomi;
tanta pietà il tuo dir nel petto esalami.
BARCINIO Taci, mentre fra me ripenso, e provomi
se quell’altre sue rime or mi ricordano,
de le quali il principio sol ritrovomi.
SUMMONZIO Tanto i miei sensi al tuo parlar si ingordano,
che temprar non gli so. Comincia, agiùtati;
ché ai primi versi poi gli altri s’accordano.
BARCINIO – Che farai, Meliseo? Morte refutati,
poi che Filli t’ha posto in doglia e lacrime,
né più, come solea, lieta salùtati.
Dunque, amici pastor, ciascun consacrime
versi sol di dolor, lamenti e ritimi;
e chi altro non può, meco collacrime.
A pianger col suo pianto ognuno incitimi
ognun la pena sua meco communiche,
benché ‘l mio duol da sé dì e notte invitimi.
Scrissi i miei versi in su le poma puniche,
e ratto diventàr sorba e corbezzoli;
sì son le sòrti mie mostrose et uniche.
E se per inestar li incido o spezzoli,
mandan sugo di fuor sì tinto e livido,
che mostran ben che nel mio amaro avezzoli.
Le rose non han più quel color vivido,
poi che ‘l mio sol nascose i raggi lucidi,
dai quai per tanto spazio oggi mi dìvido.
Mostransi l’erbe e i fior languidi e mucidi,
i pesci per li fiumi infermi e sontici,
e gli animai nei boschi incolti e sucidi.
Vegna Vesevo, e i suoi dolor racontici.
Vedrem se le sue viti si lambruscano
e se son li suoi frutti amari e pontici.
Vedrem poi che di nubi ognor si offuscano
le spalle sue, con l’uno e l’altro vertice;
forse pur novi incendii in lui coruscano.
Ma chi verrà che de’ tuoi danni accertice
Mergilina gentil, che sì ti inceneri,
e i lauri tuoi son secche e nude pertice?
Antiniana, e tu perché degeneri?
Perché ruschi pungenti in te diventano
quei mirti che fur già sì molli e teneri?
Dimmi, Nisida mia (così non sentano
le rive tue giamai crucciata Dorida,
né Pausilipo in te venir consentano!),
non ti vid’io poc’anzi erbosa e florida,
abitata da lepri e da cuniculi?
Non ti veggi’or più c’altra incolta et orida?
Non veggio i tuoi recessi e i diverticuli
tutti cangiati, e freddi quelli scopuli
dove temprava Amor suo’ ardenti spiculi?
Quanti pastor, Sebeto, e quanti populi
morir vedrai di quei che in te s’annidano,
pria che la riva tua si inolmi o impopuli!
Lasso, già ti onorava il grande Eridano,
e ‘l Tebro al nome tuo lieto inchinavasi;
or le tue Ninfe appena in te si fidano.
Morta è colei che al tuo bel fonte ornavasi
e preponea il tuo fondo a tutt’i specoli:
onde tua fama al ciel volando alzavasi.
Or vedrai ben passar stagioni e secoli,
e cangiar rastri, stive, aratri e capoli,
pria che mai sì bel volto in te si specoli.
Dunque, miser, perché non rompi e scapoli
tutte l’onde in un punto et inabissiti,
poi che Napoli tua non è più Napoli?
Questo dolore, oimè, pur non predissiti
quel giorno, o patria mia, c’allegro et ilare
tante lode, cantando, in carta scrissiti.
Or vo’ che ‘l senta pur Vulturno e Silare
c’oggi sarà fornita la mia fabula,
né cosa verrà mai che ‘l cor mi esilare.
Né vedrò mai per boschi sasso o tabula
ch’io non vi scriva «Filli», acciò che piangane
qualunque altro pastor vi pasce o stabula.
E se avverrà che alcun che zappe o mangane,
da qualche fratta, ov’io languisca, ascoltemi,
dolente e stupefatto al fin rimangane.
Ma pur convien che a voi spesso rivoltemi,
luoghi, un tempo al mio cor soavi e lepidi,
poi che non trovo ove piangendo occoltemi.
O Cuma, o Baia, o fonti ameni e tepidi,
or non fia mai che alcun vi lodi o nomini,
che ‘l mio cor di dolor non sude e trepidi.
E poi che morte vuol che vita abomini,
quasi vacca che piange la sua vitula
andrò noiando il ciel, la terra e gli uomini.
Non vedrò mai Lucrino, Averno o Tritula,
che con sospir non corra a quella ascondita
valle, che dal mio sogno ancor si intitula.
Forse qualche bella orma ivi recondita
lasciàr quei santi piè, quando fermarosi
al suon de la mia voce aspra et incondita;
e forse i fior che lieti allor mostrarosi
faran gir li miei sensi infiati e tumidi
de l’alta vision ch’ivi sognarosi.
Ma come vedrò voi, ardenti e fumidi
monti, dove Vulcan bollendo insolfasi,
che gli occhi miei non sian bagnati et umidi?
Però che ove quell’acqua irata ingolfasi,
ove più rutta al ciel la gran voragine
e più grave lo odor redunda et olfasi,
veder mi par la mia celeste imagine
sedersi, e con diletto in quel gran fremito
tener le orecchie intente a le mie pagine.
Oh lasso, oh dì miei vòlti in pianto e gemito!
Dove viva la amai, morta sospirola,
e per quell’orme ancor m’indrizzo e insemito.
Il giorno sol fra me contemplo e mirola,
e la notte la chiamo a gridi altissimi;
tal che sovente in fin qua giù ritirola.
Sovente il dardo, ond’io stesso trafissimi,
mi mostra in sogno entro i begli occhi, e dicemi:
«ECco il rimedio di tuoi pianti asprissimi».
E mentre star con lei piangendo licemi,
avrei poter di far pietoso un aspide;
sì cocenti sospir dal petto elicemi.
Né grifo ebbe giamai terra arimaspide
sì crudo, oimè, c’al dipartir sì sùbito
non desiasse un cor di dura iaspide.
Ond’io rimango in sul sinestro cubito
mirando, e parmi un sol che splenda e rutile;
e così verso lei gridar non dubito:
«Qual tauro in selva con le corna mutile,
e quale arbusto senza vite o pampino,
tal sono io senza te, manco e disutile». –
SUMMONZIO Dunque esser può che dentro un cor si stampino
sì fisse passion di cosa mobile,
e del foco già spento i sensi avampino?
Qual fiera sì crudel, qual sasso immobile
tremar non si sentisse entro le viscere
al miserabil suon del canto nobile?
BARCINIO E’ ti parrà che ‘l ciel voglia deiscere,
se sentrai lamentar quella sua citera,
e che pietà ti roda, amor ti sviscere.
La qual, mentre pur «Filli» alterna et itera,
e «Filli» i sassi, i pin «Filli» rispondono,
ogni altra melodia dal cor mi oblitera.
SUMMONZIO Or dimmi, a tanto umor che gli occhi fondono,
non vide mover mai lo avaro carcere
di quelle inique Dee che la nascondono?
BARCINIO – O Atropo crudel, potesti parcere
a Filli mia – gridava -; o Cloto, o Lachesi,
deh consentite omai ch’io mi discarcere! –
SUMMONZIO Moran gli armenti, e per le selve vachesi
in arbor fronda, in terra erba non pulule,
poi che è pur ver che ‘l fiero ciel non plachesi.
BARCINIO Vedresti intorno a lui star cigni et ulule,
quando avvien che talor con la sua lodola
si lagne, e quella a lui risponda et ulule.
O ver quando in su l’alba esclama e modola:
– Ingrato sol, per cui ti affretti a nascere?
Tua luce a me che val, s’io più non godola?
Ritorni tu, perch’io ritorne a pascere
gli armenti in queste selve? o perché struggami?
o perché più v’èr te mi possa irascere?
Se ‘l fai che al tuo venir la notte fuggami,
sappi che gli occhi usati in pianto e tenebre
non vo’ che ‘l raggio tuo rischiare o suggami.
Ovunque miro, par che ‘l ciel si ottenebre,
ché quel mio sol che l’altro mondo allumina,
è or cagion ch’io mai non mi distenebre.
Qual bove all’ombra che si posa e rumina,
mi stava un tempo; et or, lasso, abandonomi,
qual vite che per pal non si statumina.
Talor mentre fra me piango e ragionomi,
sento la lira dir con voci querule:
«Di lauro, o Meliseo, più non coronomi».
Talor veggio venir frisoni e merule
ad un mio roscignuol che stride e vocita:
«Voi meco, o mirti, e voi piangete, o ferule».
Talor d’un’alta rupe il corbo crocita:
«Assorbere a tal duolo il mar devrebbesi,
Ischia, Capre, Ateneo, Miseno e Procita».
La tortorella, che al tuo grembo crebbesi,
poi mi si mostra, o Filli, sopra un alvano
secco, ché in verde già non poserebbesi;
e dice: «ECco che i monti già si incalvano;
o vacche, ecco le nevi e i tempi nubili;
qual’ombre o qua’ difese omai vi salvano?».
Chi fia che, udendo ciò, mai rida o giubili?
E’ par che i tori a me, muggendo, dicano:
«Tu sei, che con sospir quest’aria annubili». –
SUMMONZIO Con gran ragion le genti s’affaticano
per veder Meliseo, poi che i suoi cantici
son tai che ancor nei sassi amor nutricano.
BARCINIO Ben sai tu, faggio, che coi rami ammantici,
quante fiate a’ suoi sospir movendoti
ti parve di sentir suffioni o mantici.
O Meliseo, la notte e ‘l giorno intendoti,
e sì fissi mi stan gli accenti e i sibili
nel petto, che, tacendo ancor, comprendoti.
SUMMONZIO Deh, se ti cal di me, Barcinio, scribili,
a tal che poi, mirando in questi cortici,
l’un arbor per pietà con l’altro assibili.
Fa che del vento il mormorar confortici,
fa che si spandan le parole e i numeri,
tal che ne sone ancor Resina e Portici.
BARCINIO Un lauro gli vid’io portar su gli umeri,
e dir: – Col bel sepolcro, o lauro, abbràcciati,
mentre io semino qui menta e cucumeri.
Il cielo, o diva mia, non vuol ch’io tàcciati,
anzi, perché ognor più ti onori e celebre,
dal fondo del mio cor mai non discàcciati.
Onde con questo mio dir non incelebre,
s’io vivo, ancor farò tra questi rustici
la sepoltura tua famosa e celebre.
E da’ monti toscani e da’ ligustici
verran pastori a venerar quest’angulo,
sol per cagion che alcuna volta fustici.
E leggeran nel bel sasso quadrangulo
il titol che a tutt’ore il cor m’infrigida,
per cui tanto dolor nel petto strangulo:
«Quella che a Meliseo sì altera e rigida
si mostrò sempre, or mansueta et umile
si sta sepolta in questa pietra frigida». –
SUMMONZIO Se queste rime troppo dir presumile,
Barcinio mio, tra queste basse pergole,
ben veggio che col fiato un giorno all’umile.
BARCINIO Summonzio, io per li tronchi scrivo e vergole,
e perché la lor fama più dilatesi,
per longinqui paesi ancor dispergole;
tal che farò che ‘l gran Tesino et Atesi,
udendo Meliseo, per modo il cantino,
che Filli il senta et a se stessa aggratesi;
e che i pastor di Mincio poi gli piantino
un bel lauro in memoria del suo scrivere,
ancor che del gran Titiro si vantino.
SUMMONZIO Degno fu Meliseo di sempre vivere
con la sua Filli, e starsi in pace amandola;
ma chi può le sue leggi al ciel prescrivere?
BARCINIO Solea spesso per qui venir chiamandola;
or davanti un altare, in su quel culmine,
con incensi si sta sempre adorandola.
SUMMONZIO Deh, socio mio, se ‘l ciel giamai non fulmine
ove tu pasca, e mai per vento o grandine
la capannuola tua non si disculmine;
qui sovra l’erba fresca il manto spandine,
e poi corri a chiamarlo in su quel limite;
forse impetri che ‘l ciel la grazia mandine.
BARCINIO Più tosto, se vorrai che ‘l finga et imite,
potrò cantar; ché farlo qui discendere
leggier non è, come tu forse estimite.
SUMMONZIO Io vorrei pur la viva voce intendere,
per notar de’ suoi gesti ogni particola;
onde, s’io pecco in ciò, non mi riprendere.
BARCINIO Poggiamo, orsù, v’èr quella sacra edicola;
ché del bel colle e del sorgente pastino
lui solo è il sacerdote e lui lo agricola.
Ma prega tu che i v’ènti non tel guastino,
ch’io ti farò fermar dietro a quei frutici,
pur che a salir fin su l’ore ne bastino.
SUMMONZIO Voto fo io, se tu, Fortuna, agiutici,
una agna dare a te de le mie pecore,
una a la Tempestà, che ‘l ciel non mutici.
Non consentire, o ciel, ch’io mora indecore;
ché sol pensando udir quel suo dolce organo,
par che mi spolpe, snerve e mi disiecore.
BARCINIO Or via, che i fati a bon camin ne scorgano!
Non senti or tu sonar la dolce fistula?
Férmati omai, che i can non se ne accorgano.
MELISEO I tuoi capelli, o Filli, in una cistula
serbati tegno, e spesso, quand’io volgoli,
il cor mi passa una pungente aristula.
Spesso gli lego e spesso, oimè, disciolgoli,
e lascio sopra lor quest’occhi piovere;
poi con sospir gli asciugo, e inseme accolgoli.
Basse son queste rime, esili e povere;
ma se ‘l pianger in cielo ha qualche merito,
dovrebbe tanta fé Morte commovere.
Io piango, o Filli, il tuo spietato interito,
e ‘l mondo del mio mal tutto rinverdesi.
Deh pensa, prego, al bel viver preterito,
se nel passar di Lete amor non perdesi.
A LA SAMPOGNA
Ecco che qui si compieno le tue fatiche, o rustica e boscareccia sampogna, degna per la tua bassezza di non da più colto, ma da più fortunato pastore che io non sono, esser sonata. Tu a la mia bocca et a le mie mani sei non molto tempo stata piacevole esercizio, et ora, poi che così i fati vogliono, imporrai a quelle con lungo silenzio forse eterna quiete. Con ciò sia cosa che a me conviene, prima che con esperte dite sappia misuratamente la tua armonia esprimere, per malvagio accidente da le mie labra disgiungerti, e, quali che elle si siano, palesare le indòtte note, atte più ad appagare semplici pecorelle per le selve, che studiosi popoli per le cittadi; facendo sì come colui che offeso da notturni furti nei suoi giardini, coglie con isdegnosa mano i non maturi frutti dai carichi rami; o come il duro aratore, il quale dagli alti alberi inanzi tempo con tutti i nidi si affretta a prendere i non pennuti ucelli, per tema che da serpi o da pastori non gli siano preoccupati. Per la qual cosa io ti prego, e quanto posso ti ammonisco, che de la tua selvatichezza contentandoti, tra queste solitudini ti rimanghi.
A te non si appertiene andar cercando gli alti palagi de préncipi, né le superbe piazze de le populose cittadi, per avere i sonanti plausi, gli ad’ombrati favuri, o le ventose glorie, vanissime lusinghe, falsi allettamenti, stolte et aperte adulazioni de l’infido volgo. Il tuo umile suono mal si sentirebbe tra quello de le spaventevoli buccine o de le reali trombe. Assai ti fia qui tra questi monti essere da qualunque bocca di pastori gonfiata, insegnando le rispondenti selve di risonare il nome de la tua donna, e di piagnere amaramente con teco il duro et inopinato caso de la sua immatura morte, cagione efficacissima de le mie eterne lacrime e de la dolorosa et inconsolabile vita ch’io sostegno; se pur si può dir che viva, chi nel profondo de le miserie è sepelito.
Dunque, sventurata, piagni; piagni, che ne hai ben ragione. Piagni, misera vedova; piagni, infelice e denigrata sampogna, priva di quella cosa che più cara dal cielo tenevi. Né restar mai di piagnere e di lagnarti de le tue crudelissime disventure, mentre di te rimanga calamo in queste selve; mandando sempre di fuori quelle voci, che al tuo misero e lacrimevole stato son più conformi. E se mai pastore alcuno per sòrte in cose liete adoprar ti volesse, fagli prima intendere che tu non sai se non piagnere e lamentarti, e poi con esperienzia e veracissimi effetti esser così gli dimostra, rendendo continuamente al suo soffiare mesto e lamentevole suono; per forma che temendo egli di contristare le sue feste, sia costretto allontanartesi da la bocca, e lasciarti con la tua pace stare appiccata in questo albero, ove io ora con sospiri e lacrime abondantissime ti consacro in memoria di quella, che di avere infin qui scritto mi è stata potente cagione; per la cui repentina morte la materia or in tutto è mancata a me di scrivere, et a te di sonare.
Le nostre Muse sono estinte; secchi sono i nostri lauri; ruinato è il nostro Parnaso; le selve son tutte mutole; le valli e i monti per doglia son divenuti sordi. Non si trovano più Ninfe o Satiri per li boschi; i pastori han perduto il cantare; i greggi e gli armenti appena pascono per li prati, e coi lutulenti piedi per isdegno conturbano i liquidi fonti, né si degnano, vedendosi mancare il latte, di nudrire più i parti loro. Le fiere similmente abandonano le usate caverne; gli ucelli fuggono dai dolci nidi; i duri et insensati alberi inanzi a la debita maturezza gettano i lor frutti per terra; e i teneri fiori per le meste campagne tutti communemente ammarciscono. Le misere api dentro ai loro favi lasciano imperfetto perire lo incominciato mèle. Ogni cosa si perde, ogni speranza è mancata, ogni consolazione è morta.
Non ti rimane altro omai, sampogna mia, se non dolerti, e notte e giorno con ostinata perseveranza attristarti. Attrìstati adunque, dolorosissima; e quanto più puoi, de la avara morte, del sordo cielo, de le crude stelle, e de’ tuoi fati iniquissimi ti lamenta. E se tra questi rami il vento per aventura movendoti ti donasse spirito, non far mai altro che gridare, mentre quel fiato ti basta.
Né ti curare, se alcuno usato forse di udire più esquisiti suoni, con ischifo gusto schernisse la tua bassezza o ti chiamasse rozza; ché veramente, se ben pensi, questa è la tua propria e principalissima lode, pur che da’ boschi e da’ luoghi a te convenienti non ti diparta. Ove ancora so che non mancheran di quegli, che con acuto giudicio esaminando le tue parole, dicano te in qualche luogo non bene aver servate le leggi de’ pastori, né convenirsi ad alcuno passar più avanti che a lui si appertiene. A questi, confessando ingenuamente la tua colpa, voglio che rispondi, niuno aratore trovarsi mai sì esperto nel far de’ solchi, che sempre prometter si possa, senza deviare, di menarli tutti dritti. Benché a te non picciola scusa fia, lo essere in questo secolo stata prima a risvegliare le adormentate selve, et a mostrare a’ pastori di cantare le già dimenticate canzoni. Tanto più che colui il quale ti compose di queste canne, quando in Arcadia venne, non come rustico pastore ma come coltissimo giovene, benché sconosciuto e peregrino di amore, vi si condusse. Senza che in altri tempi sono già stati pastori sì audaci, che insino a le orecchie de’ romani consuli han sospinto il loro stile; sotto l’ombra de’ quali potrai tu, sampogna mia, molto ben coprirti e difendere animosamente la tua ragione.
Ma se forse per sòrte alcun altro ti verrà avanti di più benigna natura, il quale con pietà ascoltandoti mandi fuori qualche amica lacrimetta, porgi subitamente per lui efficaci preghi a Dio, che ne la sua felicità conservandolo, da queste nostre miserie lo allontane. Ché veramente chi de le altrui avversità si dole, di se medesmo si ricorda. Ma questi io dubito saranno rari e quasi bianche cornici; trovandosi in assai maggior numero copiosa la turba de’ detrattori. Incontra ai quali io non so pensare quali altre arme dar mi ti possa, se non pregarti caramente, che quanto più puoi rendendoti umile, a sustinere con pazienzia le lor percosse ti disponghi. Benché mi pare esser certo, che tal fatica a te non fia necessaria, se tu tra le selve, sì come io ti impongo, secretamente e senza pompe star ti vorrai. Con ciò sia cosa che chi non sale, non teme di cadere; e chi cade nel piano, il che rare volte adiviene, con picciolo agiuto de la propria mano, senza danno si rileva. Onde per cosa vera et indubitata tener ti puoi, che chi più di nascoso e più lontano da la moltitudine vive, miglior vive; e colui tra’ mortali si può con più verità chiamar beato, che senza invidia de le altrui grandezze, con modesto animo de la sua fortuna si contenta
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