INGLESE
27 Gennaio 2019UNA SCUOLA, TANTI INDIRIZZI
27 Gennaio 2019Arcadia
CAPITOLO III
Già si tacevano i duo pastori dal cantare espediti, quando tutti da sedere levati, lasciando Uranio quivi con duo compagni, ne ponemmo a seguitare le pecorelle, che di gran pezza avante sotto la guardia de’ fidelissiini cani si erano avviate. E non ostante che i fronzuti sambuchi coverti di fiori odoriferi la ampia strada quasi tutta occupasseno, il lume de la luna era sì chiaro, che non altrimente che se giorno stato fusse ne mostrava il camino. E così passo passo seguitandole, andavamo per lo silenzio de la serena notte, ragionando de le canzoni cantate e comendando maravigliosamente il novo cominciare di Montano, ma molto più il pronto e securo rispondere di Uranio, al quale niente il sonno, quantunque appena svegliato a cantare incominciasse, de le merite lode scemare potuto avea. Per che ciascuno ringraziava li benigni Dii, che a tanto diletto ne aveano sì impensatamente guidati. Et <alcuna> volta avveniva che mentre noi per via andavamo così parlando, i fiochi fagiani per le loro magioni cantavano, e ne faceano sovente per udirli lasciare interrotti i ragionamenti, li quali assai più dolci a tal maniera ne pareano, che se senza sì piacevole impaccio gli avessemo per ordine continuati. Con cotali piaceri adunque ne riconducemmo a le nostre capanne; ove con rustiche vivande avendo prima cacciata la fame, ne ponemmo sovra l’usata paglia a dormire, con sommo desiderio aspettando il novo giorno, nel quale solennemente celebrar si dovea la lieta festa di Pales, veneranda Dea de’ pastori.
Per reverenza de la quale, sì tosto come il sole apparve in oriente, e i vaghi ucelli sovra li verdi rami cantarono dando segno de la vicina luce, ciascuno parimente levatosi cominciò ad ornare la sua mandra di rami verdissimi di querce e di corbezzoli, ponendo in su la porta una lunga corona di frondi e di fiori di ginestre e d’altri; e poi con fumo di puro solfo andò divotamente attorniando i saturi greggi, e purgandoli con pietosi preghi, che nessun male li potesse nocere né dannificare. Per la qual cosa ciascuna capanna si udì risonare di diversi instrumenti. Ogni strada, ogni borgo, ogni trivio si vide seminato di verdi mirti. Tutti gli animali egualmente per la santa festa conobbero desiato riposo. I vomeri, i rastri, le zappe, gli aratri e i gioghi similmente ornati di serte di novelli fiori mostrarono segno di piacevole ocio. Né fu alcuno degli aratori, che per quel giorno pensasse di adoperare esercizio né lavoro alcuno; ma tutti lieti con dilettevoli giochi intorno agl’inghirlandati buovi per li pieni presepi cantarono amorose canzoni. Oltra di ciò li vagabundi fanciulli di passo in passo con le semplicette verginelle si videro per le contrade esercitare puerili giochi, in segno di commune letizia.
Ma per potermo divotamente offrire i voti fatti ne le necessità passate sovra i fumanti altari, tutti inseme di compagnia ne andammo al santo tempio. Al quale per non molti gradi poggiati, vedemmo in su la porta dipinte alcune selve e colli bellissimi e copiosi di alberi fronzuti e di mille varietà di fiori; tra i quali si vedeano molti armenti che andavano pascendo e spaziandosi per li verdi prati, con forse dieci cani dintorno che li guardavano; le pedate dei quali in su la polvere naturalissime si discernevano. De’ pastori alcuni mungevano, alcuni tondavano lane, altri sonavano sampogne, e tali vi erano, che pareva che cantando si ingegnasseno di accordarsi col suono di quelle. Ma quel che più intentamente mi piacque di mirare, erano certe Ninfe ignude, le quali dietro un tronco di castagno stavano quasi mezze nascose, ridendo di un montone, che per intendere a rodere una ghirlanda di quercia che dinanzi agli occhi gli pendea, non si ricordava di pascere le erbe che dintorno gli stavano. In questo venivano quattro Satiri con le corna in testa e i piedi caprini per una macchia di lentischi pian piano, per prenderle dopo le spalle; di che elle avedendosi, si mettevano in fuga per lo folto bosco, non schivando né pruni né cosa che li potesse nocere. De le quali una più che le altre presta, era poggiata sovra un càrpino, e quindi con un ramo lungo in mano si difendea; le altre si erano per paura gittate dentro un fiume, e per quello fuggivano notando, e le chiare onde poco o niente gli nascondevano de le bianche carni. Ma poi che si vedevano campate dal pericolo, stavano assise da l’altra riva affannate et anelanti, asciugandosi i bagnati capelli; e quindi con gesti e con parole pareva che increpare volessono coloro che giungere non le avevano potuto.
Et in un de’ lati vi era Apollo biondissimo, il quale appoggiato ad un bastone di selvatica oliva guardava gli armenti di Admeto a la riva di un fiume; e per attentamente mirare duo forti tori che con le corna si urtavano, non si avvedea del sagace Mercurio, che in abito pastorale, con una pelle di capra appiccata sotto al sinestro umero, gli furava le vacche. Et in quel medesmo spazio stava Batto, palesatore del furto, transformato in sasso, tenendo il dito disteso in gesto di dimostrante. E poco più basso si vedeva pur Mercurio, che sedendo ad una gran pietra con gonfiate guance sonava una sampogna, e con gli occhi torti mirava una bianca vitella che vicina gli stava, e con ogni astuzia si ingegnava di ingannare lo occhiuto Argo.
Da l’altra parte giaceva appiè di un altissimo cerro un pastore adormentato in mezzo de le sue capre, et un cane gli stava odorando la tasca che sotto la testa tenea; il quale, però che la Luna con lieto occhio il mirava, stimai che Endimione fusse. Appresso di costui era Paris, che con la falce avea cominciato a scrivere «Enone» a la corteccia di un olmo, e per giudicare le ignude Dee che dinanzi gli stavano, non la avea potuto ancora del tutto fornire. Ma quel ch’è non men sottile a pensare che dilettevole a vedere, era lo accorgimento del discreto pintore, il quale avendo fatta Giunone e Minerva di tanto estrema bellezza che ad avanzarle sarebbe stato impossibile, e diffidandosi di fare Venere sì bella come bisognava, la dipinse volta di spalle, scusando il difetto con la astuzia. E molte altre cose leggiadre e bellissime a riguardare, de le quali io ora mal mi ricordo, vi vidi per diversi luoghi dipinte.
Ma entrati nel tempio, et a l’altare pervenuti, ove la imagine de la santa Dea si vedea, trovammo un sacerdote di bianca veste vestito e coronato di verdi fronde, sì come in sì lieto giorno et in sì solenne officio si richiedeva, il quale a le divine cerimonie con silenzio mirabilissimo ne aspettava. Né più tosto ne vide intorno al sacrificio ragunati, che con le proprie mani uccise una bianca agna, e le interiori di quella divotamente per vittima offerse nei sacrati fochi, con odoriferi incensi e rami di casti ulivi e di teda e di crepitanti lauri inseme con erba sabina; e poi spargendo un vaso di tepido latte, inginocchiato e con le braccia distese verso l’oriente così cominciò:
– O riverenda Dea, la cui maravigliosa potenzia più volte nei nostri bisogni si è dimostrata, porgi pietose orecchie ai preghi divotissimi de la circunstante turba. La quale ti chiede umilmente perdono del suo fallo, se non sapendo avesse seduto o pasciuto sotto alcuno albero che sacrato fusse, o se entrando per li inviolabili boschi, avesse con la sua venuta turbate le sante Driade e i semicapri Dii dai sollacci loro; e se per necessità di erbe avesse con la importuna falce spogliate le sacre selve de’ rami ombrosi, per subvenire alle famulente pecorelle, o vero se quelle per ignoranza avessono violate le erbe de’ quieti sepolcri, o turbati con li piedi i vivi fonti, corrumpendo de le acque la solita chiarezza. Tu, Dea pietosissiana, appaga per loro le deità offese, dilungando sempre morbi et infirmità dai semplici greggi e dai maestri di quelli. Né consentire che gli occhi nostri non degni veggiano mai per le selve le vendicatrici Ninfe, né la ignuda Diana bagnarse per le fredde acque, né di mezzo giorno il silvestre Fauno, quando da caccia tornando stanco, irato sotto ardente sole transcorre per li lati campi. Discaccia da le nostre mandre ogni magica bestemmia et ogni incanto che nocevole sia; guarda i teneri agnelli dal fascino de’ malvagi occhi de’ invidiosi; conserva la sollicita turba degli animosi cani, securissimo sussidio et aita de le timide pecore, acciò che il numero de le nostre torme per nessuna stagione si sceme, ne si truove minore la sera al ritornare che ‘l matino all’uscire; né mai alcun de’ nostri pastori si veggia piangendo riportarne a l’albergo la sanguinosa pelle appena tolta al rapace lupo. Sia lontana da noi la iniqua fame, e sempre erbe e frondi et acque chiarissime da bere e da lavarle ne soverchino; e di ogni tempo si veggiano di latte e di prole abondevoli e di bianche e mollissime lane copiose, onde i pastori ricevano con gran letizia dilettevole guadagno. –
E questo quattro volte detto, et altre tante per noi tacitamente murmurato, ciascun per purgarsi lavatosi con acqua di vivo fiume le mani, indi di paglia accesi grandissimi fochi, sovra a quelli cominciammo tutti per ordine destrissimamente a saltare, per espiare le colpe commesse nei tempi passati.
Ma porti i divoti preghi, e i solenni sacrificii finiti, uscimmo per un’altra porta ad una bella pianura coverta di pratelli delicatissimi, li quali, sì come io stimo, non erano stati giamai pasciuti né da pecore né da capre, né da altri piedi calcati che di Ninfe; né credo ancora che le susurranti api vi fusseno nodate a gustare i teneri fiori che vi erano; sì belli e sì intatti si dimostravano. Per mezzo dei quali trovammo molte pastorelle leggiadrissime, che di passo in passo si andavano facendo nove ghirlandette; e quelle in mille strane maniere ponendosi sovra li biondi capelli, si sforzava ciascuna con maestrevo1e arte di superare le dote de la natura. Fra le quali Galicio veggendo forse quella che più amava, senza essere da alcuno di noi pregato, dopo alquanti sospiri ardentissimi, sonandogli il suo Eugenio la sampogna, così suavemente cominciò a cantare, tacendo ciascuno:
GALICIO
Sovra una verde riva
di chiare e lucide onde
in un bel bosco di fioretti adorno,
vidi di bianca oliva
ornato e d’altre fronde
un pastor, che ‘n su l’alba appiè d’un orno
cantava il terzo giorno
del mese inanzi aprile;
a cui li vaghi ucelli
di sopra gli arboscelli
con voce rispondean dolce e gentile;
et ei rivolto al sole,
dicea queste parole:
Apri l’uscio per tempo,
leggiadro almo pastore,
e fa vermiglio il ciel col chiaro raggio;
mostrane inanzi tempo
con natural colore
un bel fiorito e dilettoso maggio;
tien più alto il viaggio,
acciò che tua sorella
più che l’usato dorma,
e poi per la sua orma
se ne vegna pian pian ciascuna stella;
ché, se ben ti ramenti,
guardasti i bianchi armenti.
Valli vicine e lupi,
cipressi, alni et abeti,
porgete orecchie a le mie basse rime:
e non teman de’ lupi
gli agnelli mansueti,
ma torni il mondo a quelle usanze prime.
Fioriscan per le cime
i cerri in bianche rose,
e per le spine dure
pendan l’uve mature;
suden di mèl le querce alte e nodose,
e le fontane intatte
corran di puro latte.
Nascan erbette e fiori,
e li fieri animali
lassen le lor asprezze e i petti crudi;
vegnan li vaghi Amori
senza fiammelle o strali,
scherzando inseme pargoletti e ‘gnudi;
poi con tutti lor studi
canten le bianche Ninfe,
e con abiti strani
salten Fauni e Silvani;
ridan li prati e le correnti linfe,
e non si vedan oggi
nuvoli intorno ai poggi.
In questo dì giocondo
nacque l’alma beltade,
e le virtuti raquistaro albergo;
per questo il ceco mondo
conobbe castitade,
la qual tant’anni avea gittata a tergo;
per questo io scrivo e vergo
i faggi in ogni bosco;
tal che omai non è pianta
che non chiami «Amaranta»,
quella c’adolcir basta ogni mio tòsco;
quella per cui sospiro,
per cui piango e m’adiro.
Mentre per questi monti
andran le fiere errando,
e gli alti pini aràn pungenti foglie;
mentre li vivi fonti
correran murmurando
ne l’alto mar che con amor li accoglie;
mentre fra speme e doglie
vivran gli amanti in terra;
sempre fia noto il nome,
le man, gli occhi e le chiome
di quella che mi fa sì lunga guerra;
per cui quest’aspra amara
vita m’è dolce e cara.
Per cortesia, canzon, tu pregherai
quel dì fausto et ameno
che sia sempre sereno.
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