INGLESE
27 Gennaio 2019UNA SCUOLA, TANTI INDIRIZZI
27 Gennaio 2019Arcadia
CAPITOLO V
Era già per lo tramontare del sole tutto l’occidente sparso di mille varietà di nuvoli, quali violati, quali cerulei, alcuni sanguigni, altri tra giallo e nero, e tali sì rilucenti per la ripercussione de’ raggi, che di forbito e finissimo oro pareano. Per che essendosi le pastorelle di pari consentimento levate da sedere intorno a la chiara fontana, i duo amanti pusero fine a le loro canzoni. Le quali sì come con maraviglioso silenzio erano state da tutti udite, così con grandissima ammirazione furono da ciascuno egualmente comendate, e massimamente da Selvaggio, il quale non sapendo discernere quale fusse stato più prossimo a la vittoria, amboduo giudicò degni di somma lode; al cui giudicio tutti consentemmo di commune parere. E senza poterli più comendare che comendati ne gli avessemo, parendo a ciascuno tempo di dovere omai ritornare verso la nostra villa, con passo lentissimo, molto degli avuti piaceri ragionando, in camino ne mettemmo.
Il quale avegna che per la asprezza de l’incolto paese più montoso che piano fusse, non di meno tutt’i boscarecci diletti che per simili luoghi da festevole e lieta compagna prender si puoteno, ne diede et amministrò quella sera. E primeramente avendosi nel mezzo de l’andare ciascuno trovata la sua piastrella, tirammo ad un certo segno; al quale chi più si avvicinava, era, sì come vincitore, per alquanto spazio portato in su le spalle da colui che perdea; a cui tutti con lieti gridi andammo applaudendo dintorno e facendo maravigliosa festa, sì come a tal gioco si richiedea. Indi di questo lasciandone, prendemmo chi gli archi e chi le fionde, e con quelle di passo in passo scoppiando e traendo pietre, ne diportammo; posto che con ogni arte et ingegno i colpi l’un de l’altro si sforzasse di superare. Ma discesi nel piano e i sassosi monti dopo le spalle lasciati, come a ciascuno parve, novelli piaceri a prendere rincominciammo; ora provandone a saltare, ora a dardeggiare con li pastorali bastoni, et ora leggierissimi a correre per le spiegate campagne; ove qualunque per velocità primo la disegnata meta toccava, era di frondi di pallidi ulivi onorevolmente a suon di sampogna coronato per guiderdone. Oltra di ciò, sì come tra’ boschi spesse volte addiviene, movendosi d’una parte volpi, d’altra cavriuoli saltando, e quelli in qua et in là con nostri cani seguendo, ne trastullammo, insino che agli usati alberghi da’ compagni, che a la lieta cena n’aspettavano, fummo ricevuti; ove dopo molto giocare, essendo gran pezza de la notte passata, quasi stanchi di piacere, concedemmo alle esercitate membra riposo.
Né più tosto la bella Aurora cacciò le notturne stelle, e ‘l cristato gallo col suo canto salutò il vicino giorno, significando l’ora che gli accoppiati bovi sogliono a la fatica usata ritornare, che un de’ pastori, prima di tutti levatosi, andò col rauco corno tutta la brigata destando; al suono del quale ciascuno, lasciando il pigro letto, se apparecchiò con la biancheggiante alba a li novi piaceri. E cacciati da le mandre li volenterosi greggi e postine con essi in via, li quali di passo in passo con le loro campane per le tacite selve risvegliavano i sonnacchiosi ucelli, andavamo pensosi imaginando ove con diletto di ciascuno avessemo commodamente potuto tutto il giorno pascere e dimorare. E mentre così dubitosi andavamo, chi proponendo un luogo e chi un altro, Opico, il quale era più che gli altri vecchio e molto stimato fra’ pastori, disse:
– Se voi vorrete ch’io vostra guida sia, io vi menarò in parte assai vicina di qui, e certo al mio parere non poco dilettosa; de la quale non posso non ricordarmi a tutte ore, però che quasi tutta la mia giovenezza in quella tra suoni e canti felicissimamente passai; e già i sassi che vi sono mi conoscono, e sono ben insegnati di rispondere agli accenti de le voci mie. Ove, sì come io stimo, trovaremo molti alberi, nei quali io un tempo, quando il sangue mi era più caldo, con la mia falce scrissi il nome di quella che sovra tutti gli greggi amai; e credo già che ora le lettere inseme con gli alberi siano cresciute; onde prego gli Dii che sempre le conservino in esaltazione e fama eterna di lei. –
A tutti egualmente parve di seguitare il consiglio di Opico, et ad un punto al suo volere rispondemmo essere apparecchiati. Né guari oltra a duo milia passi andati fummo, che al capo di un fiume chiamato Erimanto pervenimmo; il quale da piè di un monte per una rottura di pietra viva con un rumore grandissimo e spaventevole e con certi bollori di bianche schiume si caccia fòre nel piano, e per quello transcorrendo, col suo mormorio va fatigando le vicine selve. La qual cosa di lontano a chi solo vi andasse, porgerebbe di prima intrata paura inestimabile, e certo non senza cagione; con ciò sia cosa che per commune opinione de’ circunstanti populi si tiene quasi per certo che in quel luogo abiteno le Ninfe del paese; le quali per porre spavento agli animi di coloro che approssimare vi si volessono, facciano quel suono così strano ad udire. Noi, perché stando a tale strepito non avriamo potuto né di parlare né di cantare prendere diletto, cominciammo pian piano a poggiare il non aspro monte, nel quale erano forse mille tra cipressi e pini sì grandi e sì spaziosi, che ognun per sé averebbe quasi bastato ad umbrare una selva. E poi che fummo a la più alta parte di quello arrivati, essendo il sole di poco alzato, ne ponemmo confusamente sovra la verde erba a sedere. Ma le pecore e le capre, che più di pascere che di riposarse erano vaghe, cominciarono ad andarsi appicciando per luoghi inaccessibili et ardui del selvatico monte, quale pascendo un rubo, quale un arboscello che allora tenero spuntava da la terra; alcuna si alzava per prendere un ramo di salce, altra andava rodendo le tenere cime di querciole e di cerretti; molte, bevendo per le chiare fontane, si rallegravano di vedersi specchiate dentro di quelle; in maniera che chi di lontano vedute le avesse, avrebbe di leggiero potuto credere che pendesseno per le scoverte ripe.
La quali cose mentre noi taciti con attento occhio miravamo, non ricordandone di cantare né di altra cosa, ne parve subitamente da lungi udire un suono come di piva e di naccari, mescolato con molti gridi e voci altissime di pastori. Per che alzatine da sedere, rattissimi verso quella parte del monte onde il rumore si sentiva ne drizzammo, e tanto per lo inviluppato bosco andammo, che a quella pervenimmo. Ove trovati da dieci vaccari, che intorno al venerando sepolcro del pastore Androgeo in cerchio danzavano, a guisa che sogliono sovente i lascivi Satiri per le selve la mezza notte saltare, aspettando che dai vicini fiumi escano le amate Ninfe, ne ponemmo con loro inseme a celebrare il mesto officio. De’ quali un più che gli altri degno stava in mezzo del ballo, presso a l’alto sepolcro in uno altare novamente fatto di verdi erbe. E quivi, secondo lo antico costume, spargendo duo vasi di novo latte, duo di sacro sangue, e duo di fumoso e nobilissimo vino, e copia abondevole di tenerissimi fiori di diversi colori; et accordandosi con suave e pietoso modo al suono de la sampogna e de’ naccari, cantava distesamente le lode del sepolto pastore:
– Godi, godi, Androgeo, e se dopo la morte a le quiete anime è concesso il sentire, ascolta le parole nostre; e i solenni onori, i quali ora i tuoi bifolci ti rendono, ovunque felicemente dimori, benigno prendi et accetta. Certo io creggio che la tua graziosa anima vada ora a torno a queste selve volando, e veda e senta puntalmente ciò che per noi oggi in sua ricordazione si fa sovra la nova sepultura. La qual cosa se è pur vera, or come può egli essere che a tanto chiamare non ne risponda? Deh, tu solevi col dolce suono de la tua sampogna tutto il nostro bosco di dilettevole armonia far lieto: come ora in picciol luogo richiuso, tra freddi sassi sei constretto di giacere in eterno silenzio? Tu con le tue parole dolcissime sempre ripacificavi le questioni de’ litiganti pastori: come ora gli hai, partendoti, lasciati dubbiosi e scontenti oltra modo? O nobile padre e maestro di tutto il nostro stuolo, ove pari a te il troveremo? i cui ammaestramenti seguiremo noi? sotto quale disciplina viveremo ormai securi? Certo io non so chi ne fia per lo inanzi fidata guida nei dubbiosi casi. O discreto pastore, quando mai più le nostre selve ti vedranno? quando per questi monti fia mai amata la giustizia, la drittezza del vivere e la riverenza degli Dii? Le quai cose tutte sì nobilmente sotto le tue ali fiorivano; per maniera che forse mai in nessun tempo il riverendo Termino segnò più egualmente gli ambigui campi che nel tuo. Oimè, chi nei nostri boschi omai canterà le Ninfe? chi ne darà più ne le nostre avversità fidel consiglio? e ne le mestizie piacevole conforto e diletto, come tu facevi, cantando sovente per le rive de’ correnti fiumi dolcissimi versi? Oimè, che appena i nostri armenti sanno senza la tua sampogna pascere per li verdi prati; li quali mentre vivesti solevanosi dolcemente al suono di quella ruminare l’erbe sotto le piacevoli ombre de le fresche elcine. Oimè, che nel tuo dipartire si partirono inseme con teco da questi campi tutti li nostri Dii. E quante volte dopo avemo fatto pruova di seminare il candido frumento, tante in vece di quello avemo ricolto lo infelice loglio con le sterili avene per li sconsolati solchi; et in luogo di viole e d’altri fiori sono usciti pruni con spine acutissime e velenose per le nostre campagne.
Per la qual cosa, pastori, gittate erbe e fronde per terra, e di ombrosi rami coprite i freschi fonti, però che così vuole che in suo onore si faccia il nostro Androgeo. O felice Androgeo, addio, eternamente addio! Ecco che il pastorale Apollo tutto festivo ne viene al tuo sepolcro per adornarti con le sue odorate corone. E i Fauni similmente con le inghirlandate corna, e carichi di silvestri duoni, quel che ciascun può ti portano: de’ campi le spiche, degli arbosti i racemi con tutti i pampini, e di ogni albero maturi frutti. Ad invidia dei quali le convicine Ninfe, da te per adietro tanto amate e riverite, vengono ora tutte con canistri bianchissimi pieni di fiori e di pomi odoriferi a renderti i ricevuti onori. E quel che maggiore è, e del quale più eterno duono a le sepolte ceneri dare non si può, le Muse ti donano versi; versi ti donano le Muse; e noi con le nostre sampogne ti cantamo e cantaremo sempre, mentre gli armenti pasceranno per questi boschi. E questi pini e questi cerri e questi piatani che dintorno ti stanno, mentre il mondo sarà, susurreranno il nome tuo; e i tori parimente con tutte le paesane torme in ogni stagione avranno riverenza a la tua ombra, e con alte voci muggendo ti chiameranno per le rispondenti selve. Tal che da ora inanzi sarai sempre del numero de’ nostri Dii; e sì come a Bacco et a la santa Cerere, così ancora a’ tuoi altari i debiti sacrificii, se sarà freddo, faremo al foco, se caldo, a le fresche ombre. E prima i velenosi tassi sudaranno mèle dolcissimo, e i dolci fiori il faranno amaro; prima di inverno si meteranno le biade, e di estate coglieremo le nere olive, che mai per queste contrade si taccia la fama tua.
Queste parole finite, subitamente prese a sonare una suave cornamusa che dopo le spalle li pendea; a la melodia de la quale Ergasto, quasi con le lacrime <in> su gli occhi, così aperse le labra a cantare:
ERGASTO
Alma beata e bella,
che da’ legami sciolta
nuda salisti nei superni chiostri,
ove con la tua stella
ti godi inseme accolta,
e lieta ivi, schernendo i pensier nostri,
quasi un bel sol ti mostri
tra li più chiari spirti,
e coi vestigii santi
calchi le stelle erranti;
e tra pure fontane e sacri mirti
pasci celesti greggi,
e i tuoi cari pastori indi correggi;
altri monti, altri piani,
altri boschetti e rivi
vedi nel cielo, e più novelli fiori;
altri Fauni e Silvani
per luoghi dolci estivi
seguir le Ninfe in più felici amori.
Tal fra soavi odori
dolce cantando all’ombra
tra Dafni e Melibeo
siede il nostro Androgeo,
e di rara dolcezza il cielo ingombra,
temprando gli elementi
col suon de novi inusitati accenti.
Quale la vite a l’olmo,
et agli armenti il toro,
e l’ondeggianti biade ai lieti campi,
tale la gloria e ‘l colmo
fostù del nostro coro.
Ahi cruda morte, e chi fia che ne scampi,
se con tue fiamme avampi
le più elevate cime?
Chi vedrà mai nel mondo
pastor tanto giocondo,
che cantando fra noi sì dolci rime
sparga il bosco di fronde
e di bei rami induca ombra su l’onde?
Pianser le sante Dive
la tua spietata morte;
i fiumi il sanno e le spel’unche e i faggi;
pianser le verdi rive,
l’erbe pallide e smorte,
e ‘l sol più giorni non mostrò suoi raggi;
né gli animai selvaggi
usciro in alcun prato,
né greggi andàr per monti
né gustaro erbe o fonti,
tanto dolse a ciascun l’acerbo fato;
tal che al chiaro et al fosco
«Androgeo Androgeo» sonava il bosco.
Dunque fresche corone
a la tua sacra tomba
e voti di bifolci ognor vedrai;
tal che in ogni stagione,
quasi nova colomba,
per bocche de’ pastor volando andrai;
né verrà tempo mai
che ‘l tuo bel nome estingua,
mentre serpenti in dumi
saranno, e pesci in fiumi.
Né sol vivrai ne la mia stanca lingua,
ma per pastor diversi
in mille altre sampogne e mille versi.
Se spirto alcun d’amor vive fra voi,
querce frondose e folte,
fate ombra a le quiete ossa sepolte.
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