Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019L’amore come dolore dal Percorso sull’amore nei classici
di Giovanni Ghiselli
Schema concettuale:
L’amore quale guerra, ferita, piaga, fiamma, tradimento, malattia, morte, squilibrio, follia, inettitudine. La storia di Didone e di tante altre.
La fobia dell’amore e del sesso
L’unica strofe del terzo Stasimo dell’Antigone (vv. 781-790).
Eros si associa a Eris. Sofocle e Anacreonte. Ennio e la ferita di Medea. Terenzio. Le accuse di Lucrezio nei confronti della passione amorosa lacerante ( vulnus e ulcus) e l’elogio che Agatone fa di Eros nel Simposio platonico.
Virgilio e Turno: l’amore gli fa perdere la guerra. L’addio alle armi erotiche di Orazio. La metafora. Properzio. La guerra amorosa spesso non è cavalleresca. La piaga del tradimento. La malafede delle donne. Alcune Odi di Orazio: a Glìcera ( I, 19); la consolazione a Tibullo (I, 33) e la II 8 a Barìne, la bella spergiura impunita.
Militat omnis amans di Ovidio. L’amante non è debole e ignavo ma equivale al soldato. L’anfiteatro è un luogo di battaglie e ferite raccomandato dal poeta di Sulmona per gli incontri erotici . Gli spettacoli teatrali condannati da Platone, Seneca, Tertulliano e dal curato di Madame Bovary poiché ingenerano libertinaggio.
Il malvagio spirito di dissidio che si insinua tra Anna Karenina e l’amante. Le nozze di figaro e l’aria di Marcellina. D’Annunzio e la nemica. Un poeta ungherese: Ady Endre. Pavese, Seneca, Kundera.
La storia di Didone. Il fuoco d’amore che arriva alle ossa. La pestis amorosa. La catena di autori che calunniano l’amore. L’odio per il sesso è odio per la bellezza e per la vita. D. H. Lawrence e W. Reich: il terrorismo sessuale è funzionale alla sottomissione dell’uomo. Aristofane, Manzoni e Tolstoj. L’imbellimento è la perfezione della propria identità. L’amore non è solo ferita e dolore ma anche colpa e infamia. Pudor e aijdwv”. La sorella Anna e la nutrice di Fedra. La follia erotica e quella religiosa. La “lussuria” di Enea e Didone. La diffamazione della dea foeda . L’ira di Iarba e la collera di Giove.
“L’ eroe”, terrorizzato, cede subito. L’ingratitudine come vizio capitale. L’eroe virgilano secondo Leopardi. La vigliaccheria di Enea che fa morire la sua amante non sponte, invitus, e la rivendicazione del peccato da parte di Prometeo e di Edipo. Ancora sulla pertrattata fides . La pietas di Enea in Virgilio nei Carmi di Orazio. Non il suo eroe è improbus secondo Virgilio ma l’amore stesso. Enea non concede a Didone nemmeno un saluto. Il notturno dell’Eneide , quello di Alcmane e quello di Apollonio Rodio. Didone stessa non si assolve. Il sogno di Enea. La follia metodica dei sogni.
Alcibiade, il dandy dell’antichità: l’altra faccia del pio Enea. Gli uomini straordinari con valutazioni diverse.
Le maledizioni di Didone. La testa come acropoli della persona. La donna abbandonata invoca un vendicatore mentre vuole spezzare la luce.
La Fortuna . Didone morente prefigura la fine di Cartagine. La fiamma dell’amore diviene il fuoco del rogo. Altri ardori deleteri in letteratura (Nerone e Anna Karenina). L’incontro di Enea e Didone tra i morti. Il silenzio della donna suicida per amore è il più espressivo dei rimproveri.
Domenico Cavalca e San Benedetto.
L’amore nelle Bucoliche e nelle Georgiche. Teocrito e il sentimento della natura.
La II ecloga virgiliana. Il motivo della lucertola in Virgilio e Teocrito. La III ecloga e il toro emaciato. L’incantatrice dell’VIII ecloga e Cornelio Gallo della X. Ancora Virgilio e Teocrito. La III Georgica. Dalla femmina, umana e bestiale, dipende la felicità dei maschi. Amor omnibus idem. L’aspetto battagliero di Amore. Ero e Leandro. Le ferite e le ustioni d’amore in vari autori.
Orfeo e Aristeo nell’interpretazione di Gian Biagio Conte. Un poco di inglese. Il durus arator che incide la terra il poeta elegiaco che piange molles amores , ferisce se stesso e muore. La violenza dell’uomo sulla natura in Sofocle, Virgilio, Orazio, Platone e Goethe. Ancora il Terzo Stasimo dell’Antigone .
L’amore come punizione, malattia e sofferenza. La cecità e la pazzia di Eros. La donna quale inganno scosceso. L’innamorato è come un naufrago. L’iniuria in amore e in altri campi. Esiodo. Eros che strugge le membra, dolce-amara implacabile fiera. Pandora. Al mito della prima donna segue quello della fine dell’età dell’oro. Esiodo e Lucrezio. Espressioni contrarie alla navigazione.
Un’altra interpretazione dell’età dell’oro. Il veternus in Virgilio e in Orazio. Il De providentia di Seneca. Giobbe. L’età dell’oro in Virgilio, il potere nell’età dell’oro in Seneca, e le isole felici di Orazio. L’amore come trappola preparata dalla natura e dalle giovani donne. L’amore di Swann come malattia non più operabile: antiquus amor cancer est (Satyricon) La gelosia come mostro edace. L’amore come spada in Archiloco, come smarrimento in Saffo. La traduzione di Catullo. L’amore negato infligge maggiore sofferenza alla donna che all’uomo, e l’amore fruito maggiore gioia alla femmina umana che al maschio secondo il parere del sapiente Tiresia di Ovidio. La follia amorosa quale tempesta e uragano. Saffo e Ibico. L’amore come assillo nel Prometeo incatenato. Amore e morte. Saffo, Teocrito, Leopardi. D’Annunzio. Alcune testimonianze sull’Amore come squilibrio e contraddizione insanabile. La compresenza degli opposti misei’n- filei’n. La logica aperta al contrasto. Anacreonte, Teognide, Erodoto, Tucidide, Eschil), Catullo, Ovidio, Petrarca. Di nuovo l’amante nemica. Il Trionfo della morte e Il fuoco di D’Annunzio. Psicoanalisi e antichità: Freud utilizza Empedocle .
Eraclito. La pazzia amorosa ostacola il lavoro agricolo. Teocrito Virgilio e Tibullo.
Il latino, lingua del potere, può insegnare a difendersi dal potere.
La fobia dell’amore e del sesso. Apollonio Rodio e Virgilio.
Le Argonautiche, che descrivono la fase iniziale dell’amore di Medea per Giasone, sono piene di anatemi di Eros: il dio, quando arriva, mandato dalla madre Afrodite, per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~, Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oistro~) che si scaglia sulle giovani vacche[1].
Rapidamente questo dio del dolor prese una freccia dolorosa: “poluvstonon ejxevlet j ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza, come una fiamma (flogi; ei[kelon, v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh’/ de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290).
Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto lavqrh/ oulo~ [Erw~ ” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane prestante viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra l’Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore angoscioso (Argonautiche, 3, vv. 957-961).
L’infelicità è connessa all’amore prima ancora che questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore (“daivmwn ajlginovei””, 4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va’ allora e preparati in ogni modo a sopportare, per quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un’apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: ” Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini (“Scevtli j [Erw”, mevga ph’ma, mevga stuvgo” ajnqrwvpoisin”) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l’accecamento odioso nell’animo di Medea (oi|o” Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale” a[thn)”, Argonautiche, 4, vv. 445- 449).
L’amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio : “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).
Partiamo dall’incipit della Strofe del Terzo Stasimo dell’Antigone di Sofocle (v. 781).
E’ questo un inno a Eros, invincibile in guerra, capace di abbattersi sulle ricchezze e di riposare sulle morbide guance delle ragazze. Egli è in movimento sul mare e nelle dimore agresti; è inevitabile da parte dei mortali e degli immortali che vengono resi folli da lui. Amore può traviare le menti dei giusti e renderle ingiuste, può spingere i consanguinei alla contesa, quando il desiderio degli occhi di una fanciulla detta legge, poiché in quella luce c’è qualche cosa di divino.
” [E[rw” ajnivkate mavcan”, Eros invincibile in battaglia-ajnivkate: è forma dorica per ajnivkhte.
“In realtà contro Eros non esiste rimedio (” [Erwto” ga;r oujde;n favrmakon”) né pozione né pasticca né incantesimo se non il bacio, l’abbraccio e stendersi insieme con i corpi nudi”, suggerisce ai due ragazzi il vecchio Fileta nel romanzo di Longo sofista [2]. Luogo simile già in Teocrito che nell’incipit dell’XI idillio consiglia però un altro rimedio : non c’è altro favrmakon contro l’amore o Nicia, né unguento, mi sembra, né polvere, che le Pieridi, rimedio lieve e dolce per i mortali, ma trovarlo non è facile (vv. 1-4). Significa che la strada delle Muse e della poesia è impervia. –mavcan=mavchn, accusativo di relazione.
Eros si coniuga con Eris.
Alcuni verbi greci sono significativi di tale associazione.
“Meignumi , “unirsi sessualmente”, significa anche mescolarsi, incontrarsi in battaglia. Quando Diomede “si mescola ai Troiani”, vuol dire che viene alle mani, a distanza ravvicinata, con loro…Stessa cosa per damazo, damnemi : soggiogare, domare. Uno doma una donna che fa sua, come doma il nemico cui dà la morte”[3].
Amore è un combattente invincibile:”calepa; d’ e[ri” ajnqrwv-poi” oJmilei’n kressovnwn”[4], è dura contesa per i mortali contendere con i piùforti.
Lo stesso Sofocle nelle Trachinie fa dire a Deianira che chiunque si alzi come un pugile per venire alle mani con Eros, non ha la testa a posto ( “ouj kalw'” fronei'”, v. 442).
Infatti Anacreonte aveva bisogno di alterarsi la mente con il vino per lanciare una sfida di pugilato a Eros:”fevr& uJvdwr, fevr& oi’jnon, w’j pai’,…-pro;” [Erwta puktalivzw” (fr. 27 D.), porta l’acqua, porta il vino, ragazzo, voglio fare a pugni con Eros. La guerra a volte viene fatta da Eros contro gli amanti concordi, a volte dagli amanti tra loro per sopraffarsi a vicenda. L’ Oreste dell’ Elettra sofoclea ricorda alla sorella che c’é un Ares anche nelle donne:”kajn gunaixi;n… [Arh”- e[nestin”(vv. 1243-1244). Il riferimento è alla loro madre assassina ovviamente, ma il suo non è certo l’unico caso di connubio conflittuale e criminale.
Alla dea Afrodite che, fin dal primo verso[5] dell’Ippolito di Euripide, si presenta come divinità possente e non senza fama, la nutrice di Fedra attribuisce una forza d’urto ineluttabile :” Kuvpri” ga;r ouj forhto;n hj;n pollh; rJuh’/” (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza. Ella si accosta con mitezza a chi cede, ma fa strazio di trovi altero e arrogante.
Nella letteratura latina la ferita d’amore appare già nella Medea exul di Ennio che traduce questo verso della Medea di Euripide:” e[rwti qumo;n ejkplagei’s& jIavsono”” (v. 8), colpita nel cuore dall’amore di Giasone, accentuandone il pathos con l’allitterazione:”Medea animo aegro amore saevo saucia “, (v. 9), Medea dall’animo sofferente, ferita da un amore crudele. Un aggettivo che diverrà topico per indicare le ferite inflitte da Afrodite o da suo figlio.
L’amore come guerra, fuoco che arde e squilibrio è affermato pure da Terenzio (190ca-159ca a. C.) nell’Eunuco :”In amore haec omnia insunt vitia : iniuriae,/suspiciones, inimicitiae, indutiae, bellum, pax rursum: incerta haec si tu postules/ratione certa facere, nihilo plus agas/quam si des operam ut cum ratione insanias ” (vv. 59-63), nell’amore ci sono tutti questi difetti: offese, sospetti, litigi, una tregua, la guerra, di nuovo la pace: se tu cerchi di mettere in ordine sicuro queste cose incerte, non fai di meglio che se ti adoperassi per fare il pazzo ragionevolmente, dice lo schiavo Parmenione al giovane Fedria innamorato, il quale risponde:”et taedet et amore ardeo, et prudens sciens,/vivos[6] vidensque pereo, nec quid agam scio ” (vv. 72-73), non ne posso più e brucio d’amore, lo so e capisco e sono vivo e vedo e muoio, e non so che fare.
Secondo Lucrezio perfino Marte “armipotens ” viene vinto aeterno vulnere amoris , dall’eterna ferita dell’amore.
“Marte armipotens è debellato e ‘ferito’ dalla dea dell’amore e della pace anche se l’immagine della “ferita d’amore” era già abbastanza convenzionale , qui il contesto la rivitalizza , sottolineando l’aspetto paradossale della situazione”[7].
In effetti questo Marte vinto dalle ferite è rovesciato rispetto a quello usuale che le infligge e su questo rovesciamento insistono i termini scelti dall’autore. Vediamo alcuni versi dell’inno a Venere:” Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare/mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors/armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se/reicit aeterno devictus vulnere amoris ,/ atque ita suspiciens tereti cervice reposta/pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,/eque tuo pendet resupini spiriyus ore” (vv. 31-37), Infatti tu sola puoi con una pace tranquilla aiutare/i mortali, poiché le feroci opere della guerra governa/Marte, signore delle armi, che spesso si rovescia nel tuo/grembo, vinto dall’eterna ferita dell’amore,/e così guardando da sotto, con la liscia cervice rovesciata,/pasce d’amore gli avidi occhi agognandoti, o dea /e il respiro di lui resupino dipende dalla tua bocca.-mortalis=mortales .-tereti cervice reposta (forma sincopata per reposita): si può notare come Mavors (arcaico per Mars ) si esponga alle ferite lasciando scoperta e rivolta all’amante la parte più tenera del corpo, quella attraverso cui nell’Iliade risonante di battaglie i guerrieri marziali vengono uccisi più frequentemente.
Insomma make love, not war come si diceva nel ’68. Ma il proemio, si vedrà è in un certo senso fuoritesto rispetto al poema.
La personificazione del tormento amoroso dei mortali è costituita da Tizio:”Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor ” (III, 992-993), ma Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell’amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno divora. “La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell’angosciosa passione amorosa, la cupido“[8].
Ma i versi più dolorosi sull’amore sono quelli del libro seguente dove il termine vulnus , ferita, non basta più e il segno lasciato dall’ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :”Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut al’io possis animi traducere motus ” (IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e l’angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non curi prima vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell’animo.
Nei primi due versi “le due coppie allitteranti di incoativi, qui più che mai progressivi, si succedono in crescendo,…simbolo fonico dell’inarrestabile crescere della passione” (Traina 1979, 279-25). Il linguaggio erotico lucreziano oscilla tra il tovpo” dell’amore-ferita (il peggiorativo e prosastico ulcus sostituisce il nobile ed epico vulnus ; cfr. vv. 1048-1055) e il tovpo” dell’amore-follia”[9]. L’allitterazione in “v” del penultimo verso suggerisce il suono di un soffio che passa sulle ferite asciugandole.
E’ da notare che tanto il termine ulcus quanto il nesso anxius angor tornano alla fine del poema lucreziano nella descrizione della peste di Atene del 430 (VI, 1148 e 1158).
Ammesso che Amore infligga delle ferite, bisogna dire che queste, se comprese, possono diventare un bene:”una ferita è un’apertura. Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste “intensità sconvolgenti” siano una sorta di messaggio: sono “cicatrici”, ferite, che segnano la nostra vita. Tutti le sentiamo. E se non le sentiamo, siamo solo bambini, solo innocenza. Si tratta piuttosto di rendersi conto che la vita è una serie di iniziazioni, e questa è un’iniziazione in più. Un’altra apertura a qualcosa che mette alla prova la nostra vitalità. Che sonda la nostra capacità di comprensione. Che espande la nostra intelligenza”[10]. Insomma è il tw/’ pavqei mavqo” di Eschilo[11], attraverso la sofferenza, la comprensione, che H. Hesse esprime così:”Profondamente sentì in cuore l’amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce”[12].
Voglio mostrare una riabilitazione di Amore da tante calunnie attraverso alcune parole di Agatone nel Simposio platonico: Eros è il più felice, il più bello e il più nobile fra tutti gli dèi. Ed è anche il più giovane, sicché non derivano da Eros le mutilazioni dei tempi primordiali di cui parlano Esiodo e Parmenide, anzi , se ci fosse stato lui, non sarebbero avvenute quelle ejktomaiv, castrazioni vere e proprie, né incatenamenti reciproci, desmoi; ajllhvlwn, e molte altri prevaricazioni anche violente kai; a[lla polla; kai; bivaia (195c), ma solo amicizia e pace come ai tempi nostri, da quando Amore regna tra i numi. Inoltre è delicato: aJpalov” , tant’è vero che cammina e dimora sulle entità più tenere: infatti ha fondato la sua dimora nei caratteri e nelle anime degli dèi e degli uomini. Anzi ripudia i caratteri duri e rozzi. Inoltre possiede tutte le virtù, compreso il coraggio: infatti neppure Ares tiene testa a Eros (196d) che anzi tiene in pugno il dio della guerra: ebbene questo fatto toglie, non infligge ferite agli uomini, che è poi quanto sostiene anche l’inno a Venere di Lucrezio, “che in un certo senso è fuoritesto”[13], ed è comunque in contraddizione con il IV libro sul quale torneremo.
Tento un’altra apologia di Eros utilizzando Seneca. Il filosofo nel De vita beata (del 58 d. C.) afferma, pur senza riferirsi specificamente all’amore, che chi ha deciso di seguire dio ut bonus miles feret vulnera, numerabit cicatrices, et transverberatus telis moriens amabit eum pro quo cadet imperatorem” (15, 5), come il buon soldato sopporterà le ferite, conterà le cicatrici e trapassato dai dardi morendo amerà il comandante per il quale cadrà. Se uno decide di seguire la milizia di Amore, ne inferisco, non deve soffrire per le ferite ricevute nelle guerre erotiche. Una volta presa questa decisione, le donne sono più determinate degli uomini. Sentiamo ancora il dottor Urbino di Màrquez nel ricordo della moglie Fermina che dopo la morte di lui sta per accogliere positivamente, dopo cinquantaré anni, ultrasettantenne, le proposte amorose dell’eterno spasimante Florentino :”Noi uomini siamo dei poveri schiavi dei pregiudizi” le aveva detto una volta, “Invece, quando una donna decide di andare a letto con un uomo, non esiste ostacolo che non salti, né fortezza che non abbatta, né considerazione morale che non sia disposta a superare per il fondamento: non c’è Cristo che tenga”[14].
In Virgilio l’amore non solo è associato alla guerra, una guerra tra popoli, ma la fa pure perdere a chi ne è troppo implicato: Turno, prima di affrontare lo scontro decisivo , viene confuso e abbagliato dall’amore:”Illum turbat amor figitque in virgine voltus ” (Eneide , XII, 70), lo turba amore e fissa lo sguardo sulla ragazza[15].
Orazio nell’Ode 26 del terzo libro[16], nello stesso tempo scherzosa e malinconica, impiega la metafora della milizia d’amore dichiarando il suo addio alle armi che, come la lira usata per sedurre, saranno appese alla parete del tempio di Venere:”Vixi puellis nuper idoneus/et militavi non sine gloria;/nunc arma defunctumque bello/barbiton hic paries habebit ” (26, 1-4) sono vissuto fino a poco fa idoneo alle ragazze, e ho fatto il servizio militare non senza gloria: ora questa parete avrà le armi e la lira che ha compiuto la guerra.
Diciamo ora due parole sulla metafora che secondo la definizione di Aristotele è il trasferimento di un nome estraneo (metafora; dev ejstin ojnovmato” ajllotrivou ejpiforav, Poetica, 1457b) ossia consiste nell’attribuire alle parole significati diversi da quelli che hanno di solito. Il filosofo di Stagira ne coglie il valore conoscitivo quando afferma che è un pregio grandissimo di un testo essere metaforico, poiché rivela l’originalità dell’ingegno dell’autore :”to; ga;r eu’j metafevrein to; o{moion qewrei’n ejstin” (1459a), infatti saper trovare buone metafore significa vedere la somiglianza .
Questa forma di intelligenza poi è l’ingenium di G. Vico: “Nel De ratione, Vico definisce l’ingegno o ingenium come ‘la facoltà mentale che permette di legare in modo rapido, appropriato e felice cose separate’. Facoltà innanzitutto sintetica, e opposta all’analisi sterile, permette l’invenzione e la creazione”[17].
Nella Retorica Aristotele ribadisce l’importanza della metafora per la sua piacevolezza e per essere fuori dal comune (1405a).
La metafora dunque attesta l’originalità dell’autore e significa le parentele tra le cose :” La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinità e l’isolamento delle cose”[18].
Faccio l’esempio di una metafora che amo per la mia antica frequentazione della spiaggia di Pesaro: nel Prometeo incatenato il Titano invoca il cielo splendente, i venti dalle rapide ali, le sorgenti dei fiumi, la terra madre di ogni cosa, l’occhio onniveggente del sole “pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma” (vv. 89-90), l’innumerevole sorriso delle onde marine. Un sorriso che riverbera la luce del sole o quella della luna, un sorriso che, secondo Lucrezio, può essere un segno di gratitudine per la presenza di Venere:”tibi rident aequora ponti” (De rerum natura, I, 8), a te ridono le distese del mare.
Più tardi, nella prima Ode del quarto libro[19] il poeta arrivato intorno alla cinquantina (circa lustra decem , v. 6) chiede a Venere di risparmiargli la guerra:”Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves? Parce, precor, precor ” (vv. 1-2), dopo lunga tregua, Venere, mi fai di nuovo guerra? Risparmiami, ti prego, ti prego. Il secondo verso “si configura come una ajpopomphv, cioè come una preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente da una divinità”[20]. Il pericolo è costituito dai dardi dell’amore.
Orazio è contemporaneo dei poeti elegiaci, ossia scrive nei decenni nei quali va definendosi il nostro modo di considerare il rapporto dell’uomo con la donna. Nel poeta di Venosa, a differenza che in Catullo (il quale precorre gli elegiaci), Properzio e Tibullo, non c’è una donna che accentra l’attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.
Anche in Orazio tuttavia c’è il mal d’amore: vediamo l’Ode I, 19 per Glicera. La prima strofe (asclepiadea IV) mette il rilievo fin dal primo verso la dura crudeltà di Venere:” Mater saeva Cupidinum/Thebanaeque iubet me Semelae puer/et lasciva Licentia/finitis animum reddere amoribus”( vv. 1-4), la madre crudele degli Amori e il figlio della Tebana Semele e la Licenza sfrenata mi impongono di ridare il mio animo ad amori finiti. Il puer è Bacco poiché il vino è viatico per l’amore come vedremo in Apuleio ( L’asino d’oro , II, 11). Nella contrasto tra iubet me e lasciva Licentia vediamo una delle contraddizioni dell’amore: quando siamo innamorati vogliamo libertà e servitù assoluta nello stesso tempo.
Nella seconda strofe c’è una fiamma che divora:”urit me Glycerae nitor/splendentis Pario marmore purius,/urit grata protervitas/et voltus nimium lubricus adspici ” (vv. 5-8), mi infiamma il fulgore di Glìcera il quale brilla più splendidamente del marmo Pario, mi infiamma la sfrontatezza gradita e il volto troppo pericoloso a guardarsi. L’anafora di urit mette in rilievo la forza del fuoco e anche se il nome della donna contiene la dolcezza[21], il suo volto lubrico è un rischio per il poeta che può scivolarci sopra[22]. Nella terza strofe successiva l’innamoramento è visto come un assalto subìto:”in me tota ruens Venus/Cyprum deseruit nec patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum dicere nec quae nihil attinent ” (vv. 9-12), Venere lanciandosi tutta contro di me ha lasciato Cipro, e non permette che io canti gli Sciti e il Parto audace sui cavalli girati né ciò che non la riguarda. Venere tota ruens è come Cipride nell’Ippolito citato sopra (v. 443) e come Eros dell’Antigone che si abbatte su quello che trova (v. 782). Sicché Orazio innamorato è del tutto pervaso da questa divinità crudele, è già in guerra, e non può dedicarsi a cantare altre guerre, quelle esterne. Nell’ultima strofe il poeta si dispone a riti propiziatori per mitigare la divinità crudele che esige sacrifici:”hic vivum mihi caespitem, hic/verbenas, pueri, ponite turaque/bini cum patera meri:/mactata veniet lenior hostia” (vv. 13-16), ponetemi qui una zolla viva, ragazzi, qui ramoscelli ponete e incenso con una tazza di vino dell’altro anno: verrà più mite una volta ammazzata la vittima.
Il tovpo” del rapporto rischioso con un Eros crudele e ostile si trova pure, con accentuazione del dolore, in Properzio il quale dipinge Amore come un nemico armato dal quale nessuno può allontanarsi senza ricevere ferite:” Et merito hamatis manus est armata sagittis, et pharetra ex umero Gnosia utroque iacet,/Ante ferit quoniam, tuti quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit ” (II, 12, 11- 12), giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai due omeri pende una faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo vediamo il nemico né alcuno scampa immune da quella ferita. Il poeta ne è già stato colpito al punto che il dio fa una guerra continua dentro il suo sangue:” Assiduusque meo sanguine bella gerit” (v. 16). Amore dovrebbe vergognarsi di tanto accanimento e scagliare i suoi dardi contro qualcun altro:” Si pudor est, al’io traice tela tua ” (v. 18). Oramai è l’ombra sottile di Properzio, non più la persona che busca bastonate:”non ego, sed tenuis vapulat umbra mea” (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che almeno l’umbra non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.
La differenza tra Orazio e gli elegiaci è che questi non cercano di attenuare la violenza di Eros ma accettano tutti gli aspetti dolorosi della passione.
Nell’Ode I 33 di consolazione a Tibullo, Orazio allega all’amore una parola chiave della poesia amorosa che è dolere , patire il dolor, la sofferenza amorosa consigliando all’amico di evitarla. Vediamo la prima stofe ( asclepiadea terza):” Albi, ne doleas plus nimio memor/immitis Glycerae, neu miserabilis/decantes elegos, cur tibi iunior/laesa praeniteat fide ” (vv. 1-4), Albio non dolerti più troppo memore della crudele Glìcera e non andare cantando lamentosi distici perché, violata la fedeltà, uno più giovane prevale su te con il suo splendore.
Immitis Glycerae presenta un rapporto ossimorico tra l’aggettivo e la dolcezza contenuta nel nome della donna.. Questo ossimoro anticipa il successivo saevo cum ioco (v. 12). Il motivo della donna immitis è ricorrente nella poesia elegiaca: nel corpus Tibullianum uno dei componimenti di Ligdamo indica un rapporto di necessità tra la padrona crudele e l’amore:”Nescis quid sit amor, iuvenis, si ferre recusas/immitem dominam coniugiumque ferum ” (III, 4, 73-74), non sai cosa sia l’amore , giovane, se rifiuti di soffrire una padrona crudele e un accoppiamento feroce.
Tornando all’Ode oraziana (I, 33) il verbo decantare del v. 3 allude al ripetuto, continuo piagnisteo della poesia elegiaca e così pure miserabilis= miserabiles (v. 2). Nella seconda strofe c’è un poliptoto che significa la singolare catena d’amore nella quale chi ama non è riamato:”Insignem tenui fronte Lycorida/Cyri torret amor, Cyrus in asperam/declinat Pholoen: sed prius Apulis/iungentur caprae lupis,//quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic visum Veneri, cui placet imparis/Formas atque animos sub iuga aenea/Saevo mittere cum ioco ” (vv. 5-12), l’amore per Ciro brucia Licorida notevole per la fronte piccola, Ciro è incline all’aspra Foloe: ma le capre si accoppieranno con i lupi apuli prima che Foloe pecchi con un amante brutto. Così è parso giusto a Venere cui sembra opportuno sottoporre a gioghi di bronzo aspetti e anime differenti con scherzo crudele. E’ il tovpo” dell’amore che insegue chi fugge e viceversa. Lo tratteremo più avanti. In torret (v. 6) ritroviamo la comunissima metafora del fuoco. L’accoppiamento di capre e lupi è un esempio di adynaton (cosa impossibile). Orazio in ogni caso non soffre troppo poiché ha capito e si è rassegnato alla tragica legge del crudele gioco erotico per la quale amiamo chi non ci ama e non amiamo chi ci ama. Sembra che capire questo, e magari riderci sopra, sia l’antidoto al dolore:”Ipsum me melior cum peteret Venus,/Grata detinuit compede Myrtale/Libertina, fretis acrior Hadriae/Curvantis Calabros sinus ” (vv. 13-16), me pure, quando mi cercava un amore più degno, tenne avvinto con ceppi graditi Mìrtale liberta, più violenta dei flutti dell’Adriatico che incurva i golfi salentini. Il giogo amoroso è accettato volentieri dal poeta.
Del resto i caratteri forse non erano troppo impares poiché Orazio nell’Ode III 9 viene definito dall’amante Lidia “improbo/iracundior Hadria ” (vv. 21-22), più collerico dell’Adriatico in tempesta.
In ogni modo il rapporto amoroso è difficile quanto la traversata dell’Adriatico in tempesta. Ma vale la pena affrontarlo poiché ci aiuta a scoprire l’identità: come scrivere un libro, impresa che “non cessa mai di essere una cosa folle, eccitante, la traversata di un oceano su un minuscolo canotto, un volo solitario attraverso il Tutto[23]“.
Il tradimento della fede da parte della donna ricordato nell’Ode I 33 è topico nelle situazioni amorose dei poeti elegiaci i quali ricevono ferite da questa attitudine dell’amante.
Invano le korivnqiai gunai’ke” del Coro della Medea avevano protestato contro questo tipo di giudizio malevolo comune dei poeti maschi: i canti dei poeti antichi smetteranno di ripetere la storia della mia malafede (“ta;n ejma;n uJmneu’sai ajpistosuvnan “, v. 422). In effetti già Omero nell’XI dell’Odissea aveva fatto dire ad Agamennone finito nell’Ade dopo essere stato trucidato dalla moglie:”oujkevti pista; gunaixivn” (v. 456), poiché non c’è più credibilità per le donne. Poi Esiodo nelle Opere aveva scritto: chi si fida di una donna, si fida dei ladri (v. 375). Perciò il fratello dell’autore, Perse, doveva stare attento a non lasciarsi ingannare da una donna pugostovlo”, dal deretano vezzoso, che mentre fa moine seducenti mira al granaio (vv. 373-374).
Una femmina oraziana che incarna il tradimento è l’etera Barine.
Nell’Ode II 8 Orazio afferma che gli dèi non puniscono gli spergiuri in amore, come se il campo erotico fosse estraneo alla religione e alla morale. Sembra la trasposizione scherzosa di quello che Tucidide fa dire agli Ateniesi nel dialogo con i Meli: riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione, e l’umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura (“dia; panto;” uJpo; fuvsew” ajnagkaiva””) dove sia più forte, comandi, V, 105, 2.
In amore, come in guerra e in molti altri campi, i rapporti tra gli umani sono puri rapporti di forza. Barine non viene punita per i suoi spergiuri, non diventa più brutta, anzi.
Vediamo le prime due strofe saffiche.
“Ulla si iuris tibi peierati/poena, Barine, nocuisset umquam,/dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui,/ /crederem:sed tu simul obligasti/perfidum votis caput, enitescis/pulchrior multo iuvenumque prodis/publica cura ” ( Ode, II, 8, vv. 5-8), Barìne, se la pena del giuramento violato ti avesse mai nociuto, se diventassi una dal dente nero o più brutta per una sola unghia, ti crederei: ma tu appena hai impegnato la tua vita perfida con i voti, brilli molto più bella e vieni avanti, pubblico tormento per i giovani.-peierati poena:”in nessun’altra cosa come in amore si usa e si abusa a cuor leggero del giuramento. Ma gli antichi, che erano attaccati con tutta l’anima a una credenza che aveva tanta parte nella loro religione, nel diritto e nella vita comune, corsero ai ripari per ingannar se stessi: in amore sì, poiché lo si vede ogni giorno avvenire senza conseguenze, è lecito giurare falso senza pericolo, nel resto no”[24].
Perfidum è il consueto[25] aggettivo che indica la rottura del foedus e obligare è coerentemente un verbo del linguaggio giuridico. Enitescis costituisce l’ajprosdovkhton che contrasta con la punizione mancata dell’annerimento dei denti in conseguenza dello spergiuro (dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui “, vv. 2-3, se diventassi più brutta per la dentatura annerita o almeno per una sola unghia).
” Orazio, negando che Barine abbia anche soltanto un tal neo, la glorifica perfetta: menzognera sì ma perfetta. Noi non possiamo immaginare che le parole del poeta carezzino, più che non feriscano, l’orecchio dell’ascoltatrice: donne di tal fatta non possono soffrire che si rinfaccino loro difetti fisici, o, peggio, l’età, ma sanno bene che mestiere fanno e non si dolgono se lo si ricorda loro con i debiti riguardi”[26].
Il publica cura del v. 8 sovrappone la terminologia politica a una situazione erotica. “Orazio rincara la dose: essa non solo non ha sofferto della fede mancata, anzi a ogni giuramento falso divien più bella, ed esce per le vie accompagnata da un corteo sempre maggiore di giovani: nel publica cura si sente l’ironia, che però si rivolge molto più contro gli adoratori che non contro la bella donna, la quale fa, e ha ragione, i suoi interessi”[27].
Il tovpo” del giuramento amoroso tradìto.
Pasquali cita varie testimonianze della sua affermazione per la quale solo in amore è lecito spergiurare. Alcune le abbiamo già viste nei capitoli precedenti; qui aggiungo il Simposio di Platone dove Pausania fa notare che i più pensano che gli stessi dèi siano indulgenti verso gli spergiuri amorosi:”ajfrodivsion ga;r o{rkon ou[ fasin einai” (183b), infatti dicono che non c’è giuramento d’amore. Seguo qualche altra indicazione dell’autore di Orazio lirico :” Tibullo non ne fa uso se non in quella sua Ars amandi (I 4, 21) posta in bocca a Priapo” (p. 480). Vediamone due distici:”Nec iurare time: Veneris periuria venti/irrita per terras et freta summa ferunt.// Gratia magna Iovi; vetuit pater ipse valere,/iurasset cupide quidquid ineptus amor ” (vv. 21-24), non aver paura di giurare: gli spergiuri di Venere i venti li trascinano annullati per le terre e in cima ai flutti. Dobbiamo essere molto grati a Giove; il padre ha personalmente vietato che avesse valore qualunque giuramento avesse bramosamente fatto uno spropositato amore. Del cattivo esempio del padre onnipotente in fatto di adultèri e tradimenti abbiamo già detto. Pasquali fa ancora notare che “Ovidio imita questo passo di Tibullo nell’ a. a. I 633 sgg”[28].
Vediamo qualche distici anche del magister Naso:”Iuppiter ex alto periuria ridet amantum/et iubet Aeolios inrita ferre Notos.// Per Styga Iunoni falsum iurare solebat/Iuppiter: exemplo nunc favet ipse suo ” (Ars Amatoria ,I, 631-634), Giove dall’alto sorride agli spergiuri degli amanti e ordina che i venti di Eolo li portino via senza effetto. Sullo Stige Giove era solito giurare il falso a Giunone: ora favorisce personalmente chi segue il suo esempio. Ovidio, fa notare Pasquali nella nota citata sopra, “aveva già adoperato il tovpo” in forma un po’ diversa in due passi degli Amores, assai somiglianti tra loro: I 8, 85 nec, siquem falles, tu periurare timeto: commodat in lusus numina surda Venus“[29] , e se ingannerai qualcuno tu non esitare a spergiurare: per i giochi amorosi Venere rende sordi gli dèi. L’altro passo chiede indulgenza per gli spergiuri onesti:” Tu, dea, tu iubeas animi periuria puri/Carpathium tepidos per mare ferre Notos ” (Amores , II, 8, 19-20), tu, dea, tu ordina che gli spergiuri di un animo puro li portino via i tiepidi venti del sud attraverso il mare Carpatico. La dea naturalmente è Venere, il mare Carpatico è l’Egeo chiamato così dall’isola di Carpato situata tra Creta e Rodi. Mare, isole e venti meridionali, tiepidi evocano vacanze e sensualità.
Anche in Anna Karenina c’è un “codice di norme”, quello di Vrònskij, che ammette lo spergiuro amoroso:” Le norme stabilivano senz’ombra di dubbio che bisognava pagare un baro, ma non obbligavano a pagare un sarto; che agli uomini non bisognava mentire, ma si poteva con le donne; che non bisognava ingannare nessuno ma un marito si poteva ingannare; che non si potevano perdonare le offese, ma che si poteva offendere, e così via”[30].
Vediamo altre due strofe dell’Ode II 8 di Orazio:” Expedit matris cineres opertos/fallere et toto taciturna noctis/signa cum caelo gelidaque divos/morte carentis.//Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident/simplices Nymphae, ferus et Cupido/ semper ardentis acuens sagittas/cote cruenta ” (vv. 9-16), ti giova ingannare le ceneri sepolte di tua madre e le silenti costellazioni della notte con l’intero cielo e gli dèi immuni dal gelo della morte. Ride di questo, lo affermo, la stessa Venere, ridono le Ninfe ingenue e il feroce Cupido che aguzza sempre i dardi ardenti sulla cote cruenta.- matris cineres opertos (coperti dalla tomba) fallere: il giuramento sulle ossa e le ceneri dei genitori è particolarmente grave: lo usa Properzio per rendere indubitabile la sua dedizione (gravitas) a Cinzia fino alla morte e oltre:”ossa tibi iuro per matris et ossa parentis/ si fallo, cinis heu sit mihi uterque gravis ” (II, 20, 15-16), te lo giuro sulle ossa di mia madre, sulle ossa di mio padre, se ti inganno siano opprimenti per me le ceneri di entrambi. Se venisse meno la gravitas di Properzio interverrebbe negativamente quella della cenere. Ma forse il poeta sa o teme di essere lui stesso gravis per Cinzia.-carentis=carentes.-
“La scena della terza strofa, il giuramento per la tomba della madre sotto il cielo stellato è romantica e atta a ispirare terrori misteriosi. Orazio riprende qui uno spunto che aveva trattato nella sua romantica giovinezza[31] (epod. XV 1):”nox erat et caelo fulgebat l’una sereno inter minora sidera, cum tu magnorum numen laesura deorum, in verba iurabas mea“, era notte e la luna brillava nel cielo sereno tra gli astri minori, quando tu, pronta a violare la potenza degli dèi grandi, giuravi sulle mie parole (vv. 1-4) Si tratta di Neera che giura, falsamente a Orazio “fore hunc amore mutuum ” (v. 10). Ma Flacco saprà reagire eroicamente: “nec semel offensae cedet constantia formae/si certus intrarit dolor ” (vv. 15-16, un esametro e un dimetro giambico), e la costanza non cederà alla bellezza una volta rivelatasi odiosa.
Il non cedere è caratteristico dell’eroe: lo stesso Orazio definisce Achille incapace di cedere[32] . E il rivale felicior , più fortunato cui il poeta si rivolge con un quicumque es (v. 17), chiunque tu sia, come il coro o un personaggio della tragedia greca a Zeus (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885) e come Enea a Mercurio (Eneide IV, 577), presto piangerà anche lui l’amore passato da un’altra parte e il poeta a sua volta riderà:” Heu heu! translatos al’io maerebis amores/Ast ego vicissim risero ” (vv. 23-24). L’ultimo distico applica all’amore l’idea dell’orbis che ogni cosa porta in giro, in tutti i sensi.
–Ridetrident : il poliptoto a cornice e inquam rafforzano questo distacco sorridente dalla vicenda amorosa, ben diverso dagli scoppi di gelosia e dalle maledizioni con le quali reagiscono ai tradimenti e agli spergiuri Catullo e gli elegiaci. Faccio l’esempio di Properzio: nel primo libro (pubblicato attorno al 28 a. C.) l’amante geloso ricorda a Cinzia, la quale lo fa soffrire con la sua leggerezza (levitas) e la sua perfidia, che lo spergiuro può provocare la vendetta divina:”desine iam revocare tuis periura verbis,/Cyntia, et oblitos parce movere deos ” (15, 25-26), smettila di tirare fuori di nuovo gli spergiuri con le tue parole, Cinzia, evita di irritare l’oblio dei numi. Nel secondo libro, redatto tra il 28 e il 26, sembra di trovare una replica a questa ode di Orazio:”non semper placidus periuros ridet amantes/Iuppiter et surda neglegit aura preces./vidistis toto sonitus percurrere caelo,/fulminaque aetheria desiluisse domo?/non haec Pleiades faciunt neque aquosus Orion,/nec sic de nihilo fulminis ira cadit;/periuras tunc ille solet punire puellas,/deceptus quoniam flevit et ipse deus ” (II, 16, 47-54), non sempre Giove ride calmo degli amanti spergiuri e con orecchie sorde trascura le preghiere. Hai visto i tuoni trascorrere per tutto il cielo e i fulmini saltati giù dalla dimora eteria? Questi non sono effetti delle Pleiadi né del piovoso Orione, né così cade dal niente l’ira del fulmine; allora quello suole punire le ragazze spergiure, poiché anche lui stesso, un dio, pianse ingannato.
E’ questo il ribaltamento del gioco sofistico che abbiamo spiegato nel capitolo precedente. Anzi, secondo Pasquali “l’ultimo verso par quasi una risposta alla elegia citata dal primo libro di Tibullo (I 4, 21) pubblicato appunto in quello stesso torno di tempo: come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il cattivo esempio, così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è caduto”[33]. Properzio in un’altra elegia del medesimo libro fa dipendere la malattia di Cinzia non tanto dal caldo canicolare quanto dal fatto che la fanciulla non ha rispettato gli dèi:” venit enim tempus, quo torridus aestuat aer,/ incipit et sicco fervere terra Cane./sed non tam ardoris culpa est neque crimina caeli,/quam totiens sanctos non habuisse deos ” (II, 28, 5-6), è venuto il tempo nel quale l’aria ribolle torrida, e la terra comincia a bruciare per la Canicola assetata. Ma la colpa non è tanto del caldo né delitto del cielo, quanto non avere considerati santi gli dèi. Il tovpo” degli spergiuri si trova anche in un’altra elegia di Tibullo, quella contro il fanciullo Maratho (I, 9). Il poeta all’inizio utilizza il motivo della sera numinis vindicta , la punizione divina che tarda ma arriva contro gli spergiuri:” Ah miser, et siquis primo periuria celat,/sera tamen tacitis Poena venit pedibus!” (vv. 3-4), ah sciagurato, se qualcuno in un primo momento nasconde gli spergiuri, la punizione arriva comunque anche se tardi con piedi silenziosi. “Pure Tibullo ha inteso dire, e spera sia vero, che spergiurare è lecito ai belli, ma per una sola volta: parcite, caelestes; aequum est impune licere/numina formosis laedere vestra semel “[34] (vv. 5-6), risparmiatelo, Celesti, è giusto che ai belli sia lecito, una sola volta tradire impunemente il vostro nume. Tra l’altro il tradimento del ragazzo è inquinato e aggravato dall’oro, la “comune bagascia del genere umano”; l’universale mezzana che “profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea”[35]. Ma leggiamo il latino:”Admonui quotiens:”Auro ne pollue formam;/saepe solent auro multa subesse mala./Divitiis captus siquis violavit amorem,/asperaque est illi difficilisque Venus ” (vv. 17-20), l’ho avvisato tante volte: non inquinare la bellezza con l’oro; spesso sotto l’oro sogliono essere posti molti mali. Se qualcuno ha profanato l’amore sedotto dalle ricchezze, per lui Venere è dura e ostile. “Questa è un’altra delle variazioni dell’antico motivo, adoprato con tutta libertà dai poeti, secondo ne viene loro il destro: lo spergiuro contro l’amore, se uno vi si induce per denaro, è il meno perdonabile di tutti”[36].
Ma in questa ode di Orazio nota Pasquali, è tutto” scherzo: Venere, le Ninfe del suo corteggio, Cupido il quale pur si compiace di aguzzare dardi ardenti sur una cote, che, a forza di sfregarsi ad essi, si macchia di sangue, non solo perdonano ma si divertono dello spergiuro”[37].-simplices :”Le Ninfe sono dette simplices, perché esse che per lo più si vendicano atrocemente di chi le offende impossessandosi di lui, rendendolo kavtoco”, soggetto, numfovlhpto” [38], posseduto dalle ninfe appunto, impazzandolo, questa volta perdonano: faciles Nymphae risere [39] , scrive Virgilio (ecl. III, 9)”[40].
–ferus et =et ferus. “La posposizione dell’et è un’eleganza neoterica, di origine alessandrina”[41]. Ferus deriva dalla radice indoeuropea *dher- che ha dato esito, in greco qhr- da cui qhvr, qhrov”, animale selvatico e qhvra, caccia; in latino fer- da cui, oltre ferus, fera, ferinus, ferox. Perfino la ferocia di Cupido armato di frecce insanguinate, della fiamma di Efesto, e incline ad un’ ira simile a quella dei flutti[42] si dissolve in una risata.-ardentis=ardentes.-cote: in allitterazione con cruenta, è la pietra per affilare.
Leggiamo la penultima strofa:” Adde quod pubes tibi crescit omnis,/servitus crescit nova, nec priores/impiae tectum dominae relinquunt,/saepe minati ” (vv. 17-20), aggiungi che i giovani crescono tutti per te, per te crescono nuovi schiavi, né quelli di prima lasciano la casa dell’empia padrona benché lo abbiano minacciato spesso.- servitus: variante del servitium, sempre alla donna padrona.-dominae: abbiamo visto quanto sia presente questa parola nel linguaggio amoroso dei latini, mentre non ce n’è una corrispondente in quello dei Greci. La donna imperiosa e poco pia invece è molto presente nella letteratura (e nella vita) italiana: trova infatti un mercato ricco di poveri maschi che non hanno elaborato la matriarca, spesso una vera e propria strega:”Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo”[43]. Questo è Mattia Pascal compresso tra la suocera la moglie e la madre prima di “morire”.
Leggiamo l’ultima strofa:” Te suis matres metuunt iuvencis,/te senes parci miseraeque, nuper/virgines, nuptae, tua ne retardet/aura maritos” (vv. 21-24),
le madri temono te per i loro vitelloni, te i vecchi parsimoniosi e le povere ragazze appena sposate, che il tuo profumo ritardi i mariti.-matres metuunt : c’è l’adattamento alla pericolosa milizia dell’amore del tovpo” epico e tragico delle madri che temono per i figli andati in guerra. Non solo le guerre dunque sono detestate dalle madri (Cfr. Ode I, 1, 24-25:” bellaque matribus/ detestata).
Il tovpo” delle madri e delle compagne sbigottite dalla bellezza suprema della donna fatale si trova pure nell’ ode All’amica risanata di Foscolo:” tornano/ i grandi occhi al sorriso/insidïando; e vegliano/per te in novelli pianti/trepide madri e sospettose amanti” (vv. 16-18). A volte del resto queste fatalone sono un bluff: l’innamorato a vita di Màrquez “diffidava del tipo sensuale, quelle che sembravano di mangiarsi crudo un caimano e che di solito a letto erano le più passive”[44].-aura: Pasquali, dal quale mi permetto di dissentire, la interpreta non come l’odore ma “il venticello che, spirando dalla donna bella, ritarda i mariti avviati verso casa”[45]. Pasquali sostiene che anche questa ode con il timore delle madri del v. 21 attesta le maggiori possibilità di un matrimonio d’amore nella società romana del tempo di Augusto rispetto a quella ellenistica rispecchiata dalla commedia latina ( plautina in particolare: vengono menzionate l’Aulul’aria, la Cistell’aria e il Trinumnus ) e che l’ultima strofa suppone “una società” nel senso moderno”. In altre parole le signore romane erano più libere delle donne ellenistiche le quali “non partecipavano né a banchetti né a conversazioni se non erano regine o etere”[46]. Una affermazione che non sembra congruente con il personaggio di Barine. Forse il filologo vuol dire che le matrone potevano subire uno sfavorevole giudizio comparativo da parte dei loro uomini quando partecipavano ai banchetti magari in compagnia di tali affascinanti etere, cosa che per le spose greche non era possibile come fa notare Cornelio Nepote (100-27 a. C.) nella Praefatio alle Vitae :”quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium? aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur? quod multo fit aliter in Graecia. nam neque in convivium adhibetur nisi propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis appellatur, quo nemo accedit nisi propinqua cognatione coniunctus “, chi infatti tra i Romani si perita di portare la moglie al banchetto?o quale matrona non occupa il primo posto della casa e non si aggira nella parte più frequentata? Ciò avviene molto diversamente in Grecia. Infatti non è ammessa se non ai banchetti dei parenti né può trattenersi se non nella parte più interna della casa , che si chiama gineceo, dove nessuno entra se non è legato da stretta parentela.
Questa distinzione entra nel tovpo” di origine erodotea del relativismo culturale: nella stessa Praefatio al Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium Cornelio Nepote afferma che dalla sua opera si può imparare:”non eadem omnibus esse honesta atque turpia “, che non sono uguali per tutti gli atti onorevoli e turpi, tant’è vero che a Sparta le vedove, anche nobili, partecipano ai banchetti “mercede “, per denaro. Come si vede un costume indicativo, decisivo per la vita di tutti, come la condizione della donna, può variare nel giro di non molti chilometri.
Quanto alla congruenza con questo capitolo possiamo dire che la partecipazione di mogli, mariti, e amanti degli uni e delle altre ai banchetti apre spazi alla gelosia di tutti contro tutti e alle ferite delle schermaglie amorose come vedremo in Lucrezio e come sappiamo bene.
Chi si intende non poco di schermaglie e battaglie amorose è Ovidio.
Negli Amores scrive:”Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis amans “(I, 9, 1-2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato. “La ripetizione del primo emistichio dell’esametro nel secondo emistichio del pentametro, che ha qui lo scopo di dare enfasi alla sententia sottolineando il concetto, è un tratto tipico dello stile ovidiano…la sua frequenza in Ovidio è forse da attribuire all’influenza della figura retorica della conduplicatio e all’effetto musicale che tutte le figure di ripetizione donano al testo”[47]. Nel teatro di Plauto “le metafore militaresche ricorrono anche con grande frequenza in connessione con la sfera erotica (militat omnis amans! ), gli “assalti” divengono assalti amorosi, le “spade” falli priapescamente sguainati, le “prigionie” e le sconfitte prigionie e sconfitte d’amore”[48].
Ovidio, fa pure notare il Conte, opera un “rovesciamento della tradizione elegiaca precedente” nella quale “l’amore con la sua forza irresistibile sottrae il poeta ai negotia della vita civica chiudendolo in uno spazio sostitutivo dei valori della comunità”. Gli elegiaci infatti “dichiarano il loro essere prigionieri (e prigionieri consapevoli) della nequitia , dunque il loro non essere buoni cittadini, e propongono un sistema di valori alternativo a quello socialmente approvato”. Ovidio ribalta tale tradizione affermando che l’amore “riscatta il poeta dall’ignavia e dalla segnities perché l’amore è guerra, e richiede e sviluppa nell’innamorato le stesse qualità fisiche e psicologiche che l’esercizio della guerra richiede e sviluppa nel soldato. L’amante-questo l’assunto dell’elegia, paradossale se si pensa all’antimilitarismo dei primi elegiaci-è perfettamente uguale al soldato e come quello dotato di forza, intraprendenza, attivismo. In questa identificazione tra sfera galante e sfera militare, il repertorio tematico della militia amoris con tutto il suo lessico militare conosce un utilizzo a pieno campo, senza avere più tuttavia quella intenzione antifrastica che lo distingueva nell’elegia di Tibullo e di Properzio; e la tesi viene portata avanti adottando una delle tecniche che si studiavano nelle scuole di retorica del tempo, quella della comparatio ( confrontando due diverse realtà, se ne mostrano somiglianze e divergenze)”[49].
Quella erotica è una guerra nella quale al poeta non dispiacerebbe morire:”Felix, quem Veneris certamina mutua perdunt;/di faciant, leti causa sit ista mei ” (Amores, II, 11, 29-30), fortunato quello che mandano in rovina le reciproche lotte di Venere, gli dèi facciano che questa sia questa la causa della mia morte!
Nell’Ars amatoria il poeta magister di erotismo insegna che Amore è ferus , selvaggio (I, 9), crudele come Achille, saevus [50] uterque puer (I, 18), e chi gli si accosta deve accettare di armarsi come per una battaglia (miles in arma venis , I, 36) o almeno come per andare caccia. L’uomo al pari del cacciator che sa bene dove tendere le reti ai cervi, (scit bene venator, cervis ubi retia tendat , I, 45) deve imparare a conoscere i luoghi frequentati dalle donne: portici, templi, fori, fontane, ma soprattutto i teatri ( sed tu praecipue curvis venare theatris , I, 89, ma tu soprattutto vai a caccia nei curvi teatri ) dove il figlio di Venere fa spesso le sue battaglie e chi ha osservato lo spettacolo di ferite, ha una ferita:”Illa saepe puer Veneris pugnavit arena /et ,qui spectavit vulnera, vulnus habet ” I, 165-166.
L’anfiteatro dunque è un luogo di battaglie e ferite raccomandato per gli incontri erotici che hanno una componente conflittuale come i ludi del circo. Le donne più raffinate si precipitano ai giochi più frequentati:”Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet” (I, vv. 99-100), vengono per osservare, vengono per essere loro stesse osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore.-spectatumspectentur ut (=ut spectentur): poliptoto con due costruzioni della finale: il supino indica uno scopo più generico; ut+ il congiuntivo è maggiormente connotato dalla volontà.
Contro il teatro.
In Madame Bovary il curato di Yonville sembra condividere l’opinione di Ovidio sul lenocinio dei teatri, i quali però, dato il punto di vista critico, autorizzato da “tutti i Santi Padri”, vengono sconsigliati:”So anch’io” obiettò il curato, “che esistono buone opere, buoni autori, tuttavia, non fosse altro, tante persone di sesso diverso riunite in un locale seducente, ornato di pompe mondane, e poi tutti quei travestimenti pagani, tutto quel belletto, tutti quei candelabri, tutte quelle voci effemminate, tutto insomma deve ingenerare alla fin fine un certo libertinaggio dello spirito e suggerirti pensieri disdicevoli, tentazioni impure. Almeno questa è l’opinione di tutti i Santi Padri. Infinese la chiesa ha condannato gli spettacoli, significa che aveva la sua ragione di farlo: occorre sottometterci ai suoi decreti”[51]. Tertulliano (160 ca-220ca d. C) nel De spectaculis (del 200 ca d. C.) predica contro teatri e circhi in quanto tutta la messinscena degli spettacoli trae la sua essenza ex idolatria (IV, 3) dall’idolatria. Già nel precedente Apologeticum (197 d. C.) il teologo afferma che i sensi puri dei cristiani non hanno nulla in comune con la follia del circo né con l’impudicizia del teatro (cum impudicitia theatri ) né con la crudeltà dell’arena (cum atrocitate arenae) né con la vanità del portico (38).
Del resto anche Seneca aveva condannato l’efferatezza dei giochi circensi quali mera omicidia ( ep. 7), omicidi veri e propri, e prima di lui Platone aveva biasimato gli spettacoli troppo frequenti e la conseguente cattiva teatrocrazia[52] madre della licenza.
Ancora una volta il cristianesimo appare “un platonismo per il popolo”[53] .
Questa linea platonico-cristiana di avversione per i teatri si riscontra fra i puritani del Seicento: il Lord Protector Cromwell (1599-1658) fece chiudere i teatri durante la sua tirannide e, per quanto riguarda la presenza di tale ostilità nel Nuovo Mondo, sentiamo La lettera scarlatta di Hawthorne, pubblicata nel 1850 ma ambientata nella Boston puritana del XVII secolo:”inutilmente si sarebbe immaginato di vedere quel popolo abbandonarsi ai divertimenti popolari che erano in uso in Inghilterra sotto la regina Elisabetta o sotto re Giacomo. Niente spettacoli teatrali, né musiche di sonatori ambulanti, né canzoni di menestrelli, né trucchi di giocolieri, né lazzi di saltimbanchi. Il fondo del carattere di questa gente-s’è detto-era triste, e tutti questi professionisti dell’allegria sarebbero stati scacciati non soltanto dalla legge, ma dal sentimento popolare che conta assai più della legge”[54]. Sulla protagonista del romanzo una donna bella e fine, marchiata e messa al bando da questa gente tetra, torneremo più avanti.
Ora torniamo però alla componente combattiva, o almeno agonistica, che dai ludi circensi si riflette nei cercatori di incontri amorosi, e che sembra comunque riguardare ogni rapporto erotico.
“Eros si associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo, nelle Opere e Giorni , colloca “alle radici della terra” (v. 19)”[55].
Anche nel grande amore di Anna Karenina e Vronskij a un certo punto entra la cattiva Eris, ossia lo spirito della competizione distruttiva dovuta al fatto che lui era in allarme per la propria autonomia minacciata dall’amante; ella a sua volta:” sentì che, a fianco dell’amore che li univa, fra loro si era insediato un certo malvagio spirito di dissidio e che lei non poteva scacciarlo dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio”[56]. Perfino le espressioni di approvazione diventano sospette e allarmanti quando l’amore, in uno solo dei due, è in fase calante:” C’era qualcosa di offensivo nel fatto che egli avesse detto:”Questo sì che va bene”, come si dice ai bambini quando smettono di fare i capricci; e ancor più offensivo era quel contrasto fra il tono di colpa che aveva lei e quello sicuro di sé di lui: e per un istante Anna sentì sollevarsi dentro di sé il desiderio di lotta; ma, fatto uno sforzo su se stessa, lo soffocò e accolse Vrònskij con la stessa allegria di prima” (p. 746). Tuttavia la simulazione non regge:” anche sapendo che si rovinava, non poté non fargli vedere quanto lui avesse torto, non poteva sottomettersi” (p. 747),
Capita spesso, quasi sempre purtroppo, che gli amanti diventino nemici.
Ne Le nozze di figaro di Mozart-Da Ponte (del 1786) Marcellina in un’aria (IV, 5) lamenta l’ostilità degli uomini verso le donne. Sono gli unici maschi del mondo a odiare le femmine della loro specie:” Il capro e la capretta/son sempre in amistà./L’agnello all’agnelletta/ la guerra mai non fa./ Le più feroci belve/per selve e per campagne/lascian le lor compagne/in pace e in libertà./ Sol noi, povere femmine,/che tanto amiam quest’uomini/trattate siam dai perfidi/ognor con crudeltà”.
In D’Annunzio la donna non poche volte è la nemica, come Ippolita Sanzio lo è di Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte (del 1894) di cui cito la conclusione :” Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti”.
Cito anche, per dare un esempio meno noto, alcuni versi di una poesia, di uno dei massimi poeti ungheresi del Novecento, Endre Ady (1877-1919):” Sono le nostre ultime nozze:/Ci strappiamo la carne a colpi di becco/e cadiamo sul fogliame d’autunno” ( Nozze di falchi sul fogliame secco) [57].
Fa rabbrividire, forse perché non è del tutto falsa, una sentenza tragica del misogino suicida C. Pavese“Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco”[58]. E pure, con un pessimismo meno esteso ma più personalizzato:”Sono tuo amante, perciò tuo nemico”[59]. Più avanti c’è invece una riflessione cosmica che può spiegare questa ostilità interna alla coppia:” Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte”[60].
Il suicidio è la conseguenza di tale impostazione contro natura poiché gli umani, e soprattutto le femmine e i maschi umani dovrebbero provare simpatia e amore reciproci, come affermava Seneca :” Natura nos cognatos edidit cum ex isdem et in eadem gigneret. Haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit “. (Epist. ad Luc. 95, 52), la Natura ci ha messi al mondo come parenti, siccome ci ha fatti nascere con gli stessi elementi e per gli stessi fini. Questa ci ha ispirato un amore reciproco e ci ha fatti socievoli. Innaturale è dunque l’odio tra gli uomini; innaturalissimo quello tra i maschi e le femmine umane. Il medico del Macbeth, vedendo la regina malata e udendola sussurrare parole orrende, fa la sua diagnosi:”Unnatural deeds Do breed unnatural troubles” (V, 3), atti innaturali generano turbamenti innaturali. Innaturale qui è stato il delitto generato dall’ambizione.
Un bel frammento di Menandro ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che in natura “niente è tanto congeniale come l’uomo e la donna, a guardarci bene”. Come poeta d’amore il massimo autore della commedia nuova[61] non può trascurare o biasimare tale inclinazione reciproca.
L’inimicizia delle donne nei confronti degli uomini ha avuto, almeno in passato, la genesi che Seneca attribuisce a quella degli schiavi per i padroni:”non habemus illos hostes, sed facimus (Epist. ad Luc. , 47, 5), non li abbiamo nemici, ma li rendiamo tali.
C’è un romanzo di M. Kundera, non uno dei più conosciuti, che ha un breve capitolo intitolato “La lotta”; ed è lotta tra i sessi che viene presentata così:” Neanche lei pensava al piacere e all’eccitazione. Si diceva: non ti lascerò, non mi scaccerai, lotterò per tenerti. E il suo sesso che si muoveva su e giù si era trasformato in una macchina da guerra che lei aveva messo in moto e guidava. Si diceva che quella era la sua ultima arma, l’unica che le era rimasta, ma onnipotente. Al ritmo dei suoi movimenti ripeteva fra sé, come il basso ostinato in una composizione musicale: lotterò, lotterò, lotterò, e credeva di vincere…Il sesso di Laura si muoveva con forza su e giù. Laura lottava. Lottava per Bernard. Ma contro chi? Contro colui che stringeva a sé e poi di nuovo respingeva, per costringerlo ad assumere un’altra posizione. Questa ginnastica estenuante sul divano e sul tappeto, che li bagnava di sudore, che li lasciava senza fiato, assomigliava alla pantomima di una lotta spietata: lei lottava e lui si difendeva, lei dava ordini e lui ubbidiva”[62].
La storia di Didone.
Nella storia virgiliana di Didone il dio Amore è associato al dolore attraverso ferite, incendi, fiamme, follia, colpa e rovina.
Fin dal primo canto Venere invia il figlio Cupido a Cartagine : “ut faciem mutatus et ora Cupido/ pro dulci Ascanio veniat donisque furentem/ incendat reginam atque ossibus implicet ignem ” (Eneide I , 658-660) affinché, mutato nel volto e nell’aspetto, vada al posto del dolce Ascanio, con i suoi doni infiammi la regina alla follia e faccia penetrare nelle ossa il fuoco d’amore.
L’ardore erotico che arriva alle ossa è un locus reperibile già in Teocrito:”wj” ejk paido;” [Arato” uJp& ojstevon ai[qet& e[rwti” (VII, 1O2), (sa Aristi v. 99) come Arato arda fin sotto le ossa per amore di un ragazzo.
Del resto non diciamo anche noi (almeno lo dicevamo noi ragazzi pesaresi tanti anni fa): “la amo fino all’osso?”.
Il fuoco d’amore è attestato fin da Saffo che anzi inaugura il topos della cottura amorosa:”o[ptai” a[mme” (fr. 38 Voigt), tu mi cuoci.
Così, ancora nel VII idillio di Teocrito, c’è Licida ojpteuvomenon (v. 55), cotto da Afrodite per Ageanatte.
Questo fuoco di Virgilio non è di cottura né purificatore, ma deleterio, velenoso, ingannevole:”occultum inspires ignem fallasque veneno ” (I, v. 688), infondile un fuoco occulto e ingannala con il veleno, ordina Cipride al figlio. L’amore è causa di infelicità, è pestifero, mortale, e Didone innamorata di Enea è predestinata alla rovina:” Praecipue infelix, pesti devota futurae,/expleri mentem nequit ardescitque tuendo ” (I, 712-713), sopra tutti l’infelice, consacrata alla rovina imminente, non sa saziare il cuore e s’infiamma guardando.
L’infelicità connessa all’amore prima ancora che questo si realizzi si trova pure nella storia di Medea delle Argonautiche di Apollonio Rodio: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore (“daivmwn ajlginovei””, IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va’ allora e sopporta in ogni modo, per quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, al punto che l’autore rivolge un’apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini (“Scevtli& [Erw”, mevga ph’ma, mega stuvgo” ajnqrwvpoisin” (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l’accecamento odioso nell’animo di Medea ( oi’Jo” Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale” a[thn”, v. 449).
La negazione della gioia secondo la Wolf non è implicita nell’amore in sé ma al contrario deriva dall’odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo monologo ricorda di avere sentito da Medea:”Ma tu, ascolta bene quello che ti dico, non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragileNon ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria”[63].
Amore dunque per diversi autori è dolore, disgrazia, accecamento.
Abbiamo già visto che Catullo usa la parola pestis in nesso allitterante con pernicies per definire il proprio amore doloroso dal quale chiede agli dèi di liberarlo come da una malattia non meritata (76, 20-22). Nella parola pestis è già implicita l’idea ancora tanto concl’amata dell’Aids, chiamata la peste del secolo quando negli incidenti stradali muoiono ottomila persone all’anno e chissà quante altre di cancro dovuto ai gas delle macchine.
Ma se i rapporti umani, in primis quelli amorosi, non venissero sporcati, calunniati, annichiliti, gli uomini non comprerebbero tante macchine
“In Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si riattacca ad Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell’Eneide ci mostra come egli utilizzi e fonda suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all’estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea.”[64].
E’ quella che Musil definisce la “catena di plagi”[65] che lega le grandi figure del mondo artistico l’una all’altra.
Su Catullo come primo anello latino di questa catena che rende malato l’amore sentiamo P. Fedeli:”Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d’amore: basterà ricordare la definizione dell’amore come dolor (2 7) ardor (2 8) cura (2 10; 68 51), ma anche come morbus (76 25) , come pestis e pernicies che s’insinua nelle membra simile a un torpor (76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione dell’amata come desiderium (2 5); dell’innamorato come vesanus (7 10) miser (8 1; 51 5) e dell’innamorata che si strugge come misella (31 14); dell’innamoramento come equivalente dell’ineptire (8 1), del perdite amare (45 3) dell’amore deperire (35 12), del tabescere (68 55) dell’ardere (68 53)”[66].
L’ardore e il fuoco a dire il vero sono già presenti negli amorazzi dei giovani della commedia:”Sperabam iam defervisse adulescentiam :/ gaudebam. Ecce autem de integro! ” fa Micione negli Adelphoe (v. 151-152) a proposito del nipote, speravo che fossero sbolliti quegli ardori giovanili: me ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.
L’amore in ogni caso secondo questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce, consuma, brucia. “Deve” fare male poiché chi lo vive senza sensi di colpa è meno intimidibile e ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai tempi di Augusto come ai nostri. Abbiamo già sentito Orwell. Ora leggiamo sullo stesso motivo D. H. Lawrence (1885-1930):”C’è un desiderio incoffessato, implacabile, dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il mistero della bellezza. () La scienza ha una misteriosa avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l’uomo sociale ha inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell’istinto di riprodursi. E allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sessoLa sventura della nostra civiltà deriva dall’odio morboso che proviamo per il sesso“[67].
Wilhelm Reich considera il terrorismo sessuale inflitto ai bambini come un’arma che ammorba la vita erotica e nello stesso tempo annienta per sempre la loro indipendenza:”L’inibizione morale della sessualità naturale del bambino, la cui ultima tappa è una grave limitazione della sessualità genitale del bambino piccolo, rende quest’ultimo pauroso, timido, timoroso dell’autorità, ubbidiente, “buono” ed “educabile” in senso autoritario: l’inibizione morale paralizza, perché ormai ogni impulso libero e vivo è affetto da grave paura e provoca, attraverso la proibizione del pensiero sessuale, una generale inibizione del pensiero e una incapacità critica; in breve il suo obiettivo è la creazione di un suddito che si adatti all’ordine autoritario e lo subisca nonostante la miseria e l’umiliazione”[68].
Non solo il cristianesimo si è adoperato per l’infibul’azione mentale delle nostre donne.
La fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime.
Tante volte deriva della storia personale e, quando è espressa da autori maschi, deve essere collegata alla paura delle donne. Faccio un esempio che accosta, addirittura, Aristofane a Manzoni. Nelle Rane il personaggio Eschilo si vanta di non avere mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee puttane (povrna”, v. 1043) e anzi di non avere mai creato una donna in amore (” ejrw’san pwvpot& ejpoivhsa gunai’ka”, v. 1044). Il personaggio Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del rivale in effetti non c’è nulla di Afrodite (1045), ossia non c’è grazia.
Ebbene lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :” Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n’è seicento volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera impudente l’andarlo fomentando con gli scritti”. A queste parole dell’autore aggiungo alcune frasi prese da una tesi di abilitazione all’insegnamento secondario di una giovane laureata della SSIS di Bologna:”Il carattere di Lucia è architettato sulla base d’un sistema che uccide il pensieroLe sue aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza nel lettore di cuore sano; essa appare o insipida o egoista e tutta la maestria della disposizione non basta a infondere sangue a quella creazioneLucia fa olocausto di sé sull’altare di un sistema”[69].
Questo maniaco dell’antisesso, si noti, è un moderato e uno che si dice cristiano. Eppure il Cristo disse bene della peccatrice :”Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem minus dimittitur, minus diligit ” (Luca, 7, 47), le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha amato molto, quello invece cui si perdona meno, ama meno. E’ una di quelle splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o fraintese dai furfanti bigotti i quali adulterano le parole sante. A tale categoria appartiene “la vecchia Bovary” la quale, quando il farmacista propose di chiamare sua nipote Madeleine “protestò aspramente contro quel nome di peccatrice”[70].
Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:” I libertini, queste Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di perdono:”Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà perdonato, perché si è molto divertito”[71]. Per quanto riguarda la bellezza della figura di Maddalena, “Maria Magdalene ” (Luca, 24, 10) consiglio vivamente la visione di quella di Masaccio col manto rosso sangue, i lunghi capelli biondi e le braccia alzate a V, come a significare la prossima vittoria sopra il dolore della morte (Crocifissione del 1426, Napoli, Museo di Capodimonte).
La storia dolorosa di Didone riprende dall’incipit del quarto canto dell’Eneide :”At regina gravi iamdudum saucia cura/volnus alit venis et caeco carpitur igni ” (vv. 1-2) ma la regina, già da tempo ferita da pesante affanno, /ravviva nelle vene la piaga ed è divorata da un fuoco nascosto.-at: la congiunzione avversativa connette il primo verso di questo canto all’ultimo del terzo con il quale Virgilio dichiara concluso il racconto di Enea, capace, come Odisseo, di sedurre attraverso le parole il cui lungo fluire ha messo in agitazione la regina mentre ha dato finalmente quiete all’eroe che ha raccontato se stesso:”Conticuit tandem factoque hic fine quievit” (III, 718), tacque infine e posto qui un termine si riposò. Nel primi versi del quarto canto si può già leggere il preludio della fine tragica nelle “metafore comuni del sermo amatorius (ferita, fuoco, malattia, veleno): esse appartengono tutte, oltre che a una tradizione letteraria antica e diffusa, a un altrettanto antica e diffusa psicologia popolare, che interpreta l’esperienza amorosa in termini prevalentemente pessimistici, e la giudica negativamente (l’amor è, insomma, amor insanus). Al primo verso, costruito su una struttura a chiasmo (a-b/b-a), il secondo contrappone una doppia allitterazione (volnusvenis; caeco carpitur)”[72].
“Nel libro I è soprattutto l’humanitas che caratterizza Didone; una humanitas divenuta carattere e sensibilità oltre che coscienza morale, consistente soprattutto nella capacità, da parte di chi ha molto sofferto, di comprendere i dolori degli altri e nella disposizione a soccorrerli”[73]. Il verso espressivo di questo tw/’ pavqei mavqo” virgiliano è:” non ignara mali miseris succurrere disco “, I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Questa humanitas , echeggiata ancora dalle prime parole del Decameron :”Umana cosa è l’aver compassione degli afflitti”[74], non verrà contraccambiata da Enea.
Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e della scuola :”E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica”[75].
“All’inizio del libro IV Didone è già immersa nella sua passione tormentosa ed è profondamente mutata; ma Virgilio non s’è preoccupato di farci seguire e capire a fondo il mutamento e dell’humanitas del libro I è difficile ritrovare tracce nel libro IV: il nuovo punto di partenza del dramma è la sofferenza della donna ferita d’amore…la metafora della ferita per significare l’amore…proviene dalla poesia greca, specialmente da quella alessandrina, ed è spesso associata con l’immagine di Cupìdo, il figlio di Venere, che ferisce con le sue frecce. (da una freccia del dio, per es. , è ferita Medea nella scena dell’innamoramento in Apollonio Rodio III 275 sgg…L’aggettivo (saucia ) ha una sua tradizione di pathos erotico[76]“, da Ennio, già citato, a Catullo cui Virgilio allude :”multiplices animo volvebat saucia curas “, 64, 250, volgeva ferita nell’animo molti pensieri affannosi. Si tratta, naturalmente, di Arianna. La Penna-Grassi menzionano pure Lucrezio:”idque petit corpus, mens unde est saucia amore ” (IV, 1O48), ed essa (la voluntas eicere , il desiderio di eiaculare dove si indirizza la dira libido , la brama funesta) cerca quel corpo da cui la mente è ferita d’amore. All’amore in Lucrezio dedicheremo diverse pagine più avanti.
Per quanto riguarda igni (v. 2) “il poeta passa facilmente dalla metafora della ferita, a quella, ancora più diffusa, del fuoco…E’ notevole che Apollonio Rodio nella scena dell’innamoramento (III 286 s.) unisca già le due immagini:”la freccia (scagliata da Eros) alla giovinetta bruciava sotto il cuore simile a fiamma”[77].
“Multa viri virtus animo multusque recursat/gentis honos haerent infixi pectore voltus/verbaque nec placidam membris dat cura quietem” (vv. 3-5), il gran valore dell’eroe e la grande gloria della stirpe le ricorrono al pensiero, le sembianze e le parole le stanno ficcate nel cuore e l’affanno non concede alle membra un riposo tranquillo.
Questi primi versi, prefigurando la catastrofe finale, presentano l’amore come tormento: le sembianze e le parole di Enea, invece di procurare gioia alla regina, sono infissi nel petto come dardi dolorosi e Didone, al contrario di Enea, non trova riposo. Diverso, sproporzionato è dunque l’investimento, e questa è la prima causa che crea dolore negli amanti, tragicamente in uno dei due. Gli strumenti seduttivi di Enea, oltre la virtus raccontata e connessa pure etimologicamente al vir che ne è dotato[78], sono l’aspetto bello (voltus, non per niente Enea è figlio e protetto di Venere che lo ha pure imbellito[79]) e le parole (verba). Sono gli eterni mezzi del seduttore; gli stessi che usa Odisseo, anche lui infatti abbellito dalla sua dea che è Atena[80].
L’imbellimento è la pienezza della propria identità.
La somiglianza più alta dell’essere umano è quella con gli dèi immortali. La consegue Odisseo (qeoi’si e[oike, Odissea , VI, 243) quando Atena lo imbellisce per renderlo più gradito a Nausicaa (Odissea , VI, vv. 229 e sgg.). Questo assimilarsi a dio costituisce per la creatura dotata la più alta forma di assimilazione a se stesso, il massimo della sua identità;”Quando è privo di ogni charis , l’essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios . Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se stessi, che costituisce l’identità di ciascuno e si manifesta nell’apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte. Tra i due poli opposti del non rassomigliare a nulla e del rassomigliare agli dèi, essa si situa in posizioni variabili a seconda del prestigio o della celebrità di cui uno gode, della paura e del rispetto che uno ispira…La grazia e la bellezza del corpo, facendo vedere chi siete, danno la misura della vostra time , della vostra dignità o della vostra infamia”
Viceversa:”A volte capita che anche gli uomini tentino di fare ciò che gli dèi possono realizzare facilmente, ma in peggio, quando cercano di distruggere nel cadavere di un nemico odiato ogni rassomiglianza del morto con lui stesso. Oltraggiando il suo corpo, sfigurandolo, strappandogli la pelle, smembrandolo, lasciandolo imputridire al sole o divorare dagli animali, si vuol far scomparire ogni traccia della sua figura e della sua antica bellezza per non lasciare di lui che orrore e mostruosità. Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo-si dice aeikizein , rendere aeikes o aeikelios , non simile”[81]. Per comprendere questa riflessione bisogna ricordare che aj-eikhv” , è formato sulla radice eijk-/oijk-/ijk- come e[oika, “sono simile”, quindi significa “indegno” e “dissimile”, ossia, secondo Vernant, indegno di se stesso e dissimile da se stesso
L’amore è dolore, affanno, o disgusto, ed è anche colpa: subito dopo la regina, parlando con la fida sorella Anna, celebra l’eccezionalità dell’ospite troiano e aggiunge che se non le fossero venuta in odio i letti e la fiaccole nuziali (si non pertaesum animi taedaeque fuisset, v. 18) forse solo per l’ospite troiano avrebbe potuto soccombere alla colpa:”huic uni forsan potui succumbere culpae ” (v. 19).
“Le vedove in Roma, pur essendo loro concesso dalla legge un nuovo matrimonio, ritenevano degno d’onore mantenersi univirae, cioè donne che avevano un solo marito”[82]. Questo naturalmente secondo gli antiqui mores al cui ripristino Virgilio vuole contribuire.
La fiaccola del resto è latrice di significato simbolico ambivalente: evoca le nozze ma anche i funerali, come risulta da questo verso di Properzio dove Cornelia dice :”viximus insignes inter utramque facem” (IV, 11, 46), sono vissuta nella luce tra l’una e l’altra fiaccola (quella delle nozze e quella del rogo funebre). Tale fax ambigua ritroveremo nei Remedia amoris di Ovidio (v. 38).
C’è da notare che da Virgilio non viene altrettanto incolpato l’amore omosessuale: Niso ardeva per il bell’Eurialo “amore pio ” (Eneide , V, 296) di un amore santo.
Poco dopo Didone aggiunge che dopo la morte di Sicheo solo Enea ha scosso i suoi sensi e ha colpito l’animo in modo da farlo vacillare:”Adgnosco veteris vestigia flammae ” (v. 23), riconosco i segni dell’antica fiamma. Se ne ricorderà Seneca nella Medea la cui nutrice vedendo la furia della moglie tradita dice:”irae novimus veteris notae ” (v. 394), conosco i segni dell’antica ira, poi Dante facendone una traduzione letterale nel Purgatorio (“conosco i segni dell’antica fiamma”, XXX, 48). Ogni autore conosce la tradizione e se ne avvale come base aggiungendo del suo. Così l’edificio cresce.
Dare retta a un impulso amoroso viene vissuto dalla regina come una violazione del pudore, (Pudor , v. 27) considerato al pari di una divinità la cui offesa sarebbe meritevole di morte, una punizione che la “spudorata” si infliggerà da sola.
Pudor (da pudeo) e aijdwv” da aijdevomai, mi vergogno.
“Pudor (è) senso morale per cui si prova scrupolo e ripugnanza davanti a tutto ciò che nega i valori morali e religiosi. E’ affine all’ aijdwv” dei Greci, ma ha vitalità molto maggiore: la Pudicitia era una divinità oggetto di un culto importante; al culto della Pudicitia patricia la plebe aveva affiancato e contrapposto un culto della Pudicitia plebeia “[83]. Valerio Massimo nel proemio del VI libro invoca la Pudicitia:”virorum pariter ac feminarum praecipuum firmamentum “, solido fondamento nello stesso tempo per donne e uomini. Ella appunto è stata onorata come una dea:”Tu enim prisca religione consecratos Vestae focos incolis, tu Capitolinae Iunonis pulvinaribus incubas[84]“, tu infatti abiti i focolari consacrati a Vesta dall’antico culti, tu giaci sui cuscini di Giunone Capitolina.
Di fatto il latino ha assunto non solo la funzione di lingua dei signori, come viene rilevato da Renzo ne I promessi sposi , una funzione oramai tramontata, ma anche quella, tuttora attuale di lingua del pudor : quando in italiano si vogliono evitare termini sessuali pesanti si ricorre alla parola latina. Può bastare il solo esempio di fellatio .
Il pudore (aijdwv” ) è considerato già da Esiodo uno dei pilastri (l’altro è Nevmesi”, la giustizia distributiva) del vivere umano e civile: quando se ne andranno dalla terra non ci sarà più scampo dal male (Opere, 200-201).
L’ aijdwv” , la vergogna, ossia la riservatezza e il ritegno contaddistinguono il giovane beneducato dal petulante sfacciato nelle Nuvole di Aristofane dove il discorso giusto prescrive al ragazzo di essere “th'” aijdou'”…ta[galm& “(v. 995), l’immagine del ritegno. Al tempo dell’ajrcaiva paideiva (961, l’educazione antica) infatti la castità (swfrosuvnh, 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l’amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
Nel mito di Prometeo del Protagora di Platone (322b): senza aijdw'” e divkh, “virtù altrettanto morali quanto politiche”, distribuite a tutti non esisterebbero le città:”Hermes è incaricato di portarle agli uomini; ma, nella distribuzione, deve fare l’opposto di quello che aveva fatto Prometeo: non dare a ciascuno una capacità differente, ma le stesse a tutti egualmente e indistintamente”[85].
Grande apprezzamento del pudore quale virtù di base, Senofonte esprime nella Ciropedia quando annette al vizio capitale dell’ingratitudine quello dell’impudenza che anzi considera madre di tutte le turpitudini:”eJvpesqai de; dokei’ mavlista th’/ ajcaristiva/ hJ ajnaiscuntiva: kai; ga;r auJvth megivsth dokei’ ei’jnai ejpi; pavnta ta; aijscra; hJgemwvn”(I, 2, 7), pare che all’ingratitudine di solito si accompagni l’impudenza: questa infatti sembra essere la guida più grande verso tutte le brutture. “E qui ci torna in mente l’importanza data da Platone e da Isocrate all’aidòs , senso di onore e di pudore, per l’educazione dei giovani come per la conservazione di ogni ordine sociale”[86].
Isocrate nell’Areopagitico (48) tra l’altro elogia i giovani che rifuggivano la piazza (” e[feugon th;n ajgoravn”) al punto che, se talvolta erano costretti ad attraversarla, si vedeva che lo facevano con molto pudore e riservatezza (“meta; pollh'” aijdou'” kai; swfrosuvnh” ejfaivnonto tou’to poiou’nte””). Il pudore insomma è il retaggio dell’antica educazione nobiliare che questi autori del IV secolo rimpiangono vorrebbero vedere ripristinata. Del resto il pudore viene rimpianto anche da Dante tra le virtù del buon tempo antico:”Fiorenza dentro dalla cerchia antica…si stava in pace, sobria e pudica”[87].
Anche Orazio annette grande valore al ritegno quando, nella Satira I 6 esprime gratitudine al padre “libertino” il quale lo seppe mantenere “pudicum,/qui primus virtutis honos ” (vv. 82-83), riservato, che è il primo grado della virtù.
Virgilio dunque dà voce agli scrupoli sessuali che trattengono regina, mentre la sorella Anna con la voce del buon senso le consiglia di non opporsi anche a un amore gradito (“placitone etiam pugnabis amori? “, v. 38) e dunque naturale, ma tale modo reale e razionale di vedere eros viene smontato dal poeta. Quanto è davvero, profondamente, razionale e reale è pure mitico. Lo affermo sulla scorta del film Medea di Pasolini dove il centauro che educa Giasone adolescente gli dice:” Te ne andrai in un paese lontano, di là dal mare. Qui farai esperienza di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione; la sua vita è molto realistica come vedrai, perché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico”. Il mito infatti cerca le origini, e chi non le conosce non è cosciente della realtà. “La nostra origine è nei miti: tutti i miti sono di origine”[88]. Inoltre il mito ci dà indicazioni sulla nostra vita psichica:”la psicologia mostra i miti in vesti moderne, mentre i miti mostrano la nostra psicologia del profondo in vesti antiche”[89]. Altra considerazione sui grandi significati del mito si trova nel libro di Morin più volte citato:”Il mito non è la sovrastruttura della nazione: è ciò che genera la solidarietà e la comunità; è il cemento necessario a ogni società e, nella società complessa, è il solo antidoto all’atomizzazione individuale e all’irruzione distruttrice dei conflittiL’antico internazionalismo aveva sottostimato la formidabile realtà mi”[90].
Simile a quello di Anna è il consiglio della nutrice di Fedra che, con ragioni del resto assai diverse da quelle di Didone, lotta contro la propria passione nell’Ippolito di Euripide :” ouj lovgwn eujschmovnwn-dei’ s&, ajlla; tajndrov””, vv. 490-491, tu non hai bisogno di discorsi speciosi ma di quell’uomo. Così il tenente Mahler del film Senso di Visconti:”è molto meglio prendersi il piacere dove si trova”. Le proposte delle nutrici spesso sono convincenti quanto quelle dei seduttori di professione:”nutr?cum et paedagogorum rettul?re mox in adulescentiam mores “[91], ben presto i ragazzi riproducono nella giovinezza i costumi di nutrici e pedagoghi.
“Dal teatro attico, più che da Apollonio, proviene il personaggio di Anna, la sorella della regina, che tiene accanto a lei il posto, press’a poco, di confidente: più che al personaggio, molto scialbo, di Calciope, la sorella di Medea, in Apollonio, Anna fa pensare a Ismene, la sorella di Antigone , nella tragedia di Sofocle o a Crisotemi, la sorella di Elettra , nella tragedia di Euripide: come questi personaggi, ella, pur con tutto il suo affetto e la sua dedizione, resta in fondo estranea al pathos e ai tormenti della sorella e si muove, quindi, in un’atmosfera di umanità più comune e banale che, pur non potendosi dire meschina, resta nettamente al di sotto della sublimità tragica. E’ tuttavia significativo che la parte della confidente sia affidata alla sorella della regina, non ad una nutrice, personaggio ben noto al teatro attico”[92].
Fuoco ferita e follia tutti insieme tormentano Didone durante la successiva cerimonia religiosa con cui la regina cerca la pace:”quid vota furentem,/ quid delubra iuvant? Est mollis flamma medullas/interea et tacitum vivit sub pectore volnus./ Uritur infelix Dido totaque vagatur/urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta” (IV, vv. 65-69) a che giovano i sacrifici, a che i templi a chi è fuori di sé? divora i teneri midolli la fiamma intanto e si ravviva in silenzio la ferita sotto il petto. Brucia l’infelice Didone e vaga fuori di sé per tutta la città, quale cerva dopo che è stata scagliata la freccia.-Est= edit. La radice deriva dall’indoeuropeo *ed- da cui discendono pure il greco [esqivw< *ejjjd-qivw l’italiano inedia, l’inglese to eat , il tedesco essen .-mollis=molles.-Uritur: c’è un consiglio dell’apostolo Paolo alle vedove che contiene questo verbo, con questa diatesi:”Dico autem innuptis et viduis:”Bonum est illis si sic maneant sicut et ego; quod si non contineant, nubant. Melius est autem nubere quam uri” (Ai Corinzi , I, 7, 9), dico però a quanti non sono sposati e alle vedove: è bene per loro che stiano così come sto io, ma se non si contengono, si sposino. E’ meglio infatti sposarsi che ardere (krei’tton gavr ejstin gamh’sai hj; purou’sqai).
Possiamo fare una riflessione tutta nostra: se l’amore è fuoco e il matrimonio lo spenge, il matrimonio nega l’amore.
L’amore causato da una freccia che provoca una ferita la quale arde come una fiamma è un aition e una situazione che si trova già nelle Argonautiche di Apollonio Rodio: Eros scaglia contro Medea un dardo poluvstonon (III, 279), penoso; quindi la freccia ardeva nella ragazza sotto il cuore, simile a una fiamma (“bevlo” d& ejnedaiveto kouvrh/-nevrqen uJpo; kradivh/, flogi; ei[kelon”, III, 286-287). “Il libro IV, com’è ben noto, è il libro dell’Eneide in cui la poesia ellenistica e la poesia neoterica sono più presenti e operanti: Virgilio è stato continuamente stimolato da Apollonio Rodio e da Catullo e li ha “emulati”. Apollonio Rodio offriva nel III libro delle Argonautiche (dove narrava come la giovanissima Medea si innamorasse di Giasone e gli desse con la sua arte magica un aiuto decisivo per la conquista del vello d’oro) un esempio difficilmente pareggiabile di finezza e delicatezza psicologica nel seguire il primo nascere di una passione d’amore, il suo incerto rivelarsi, il contrasto fra la passione e il senso del pudore e dell’onore, il trionfo selvaggio della passione; e all’acume dell’analisi univa senso profondo del pathos e intensità lirica nell’espressione dei sentimenti. Ma Medea è all’inizio una giovinetta in cui la passione germina per la prima volta. Didone è una donna matura che ha già sperimentato l’amore, il matrimonio, la perdita tragica del marito, e al marito morto si sente legata da un vincolo religioso di fedeltà: se Apollonio è attento alle prime incerte manifestazioni della passione, Virgilio…nel IV libro parte già dalla fase in cui la passione è furore irrazionale (importante nel libro il richiamo di immagini dionisiache che spezza tutte le resistenze)”[93].
L’immagine della freccia che trafigge la cerva quale correlativo venatorio del dardo d’amore è una ” virgiliana comparatio ” che impressionò Petrarca schiavo e malato d’amore portandolo a identificarsi con la creatura colpita, ossia, in definitiva, con Didone:”Huic ego cerve non absimilis factus sum. Fugi enim, sed malum meum ubique circumferens “[94], io sono diventato non dissimile a questa cerva. Sono fuggito infatti, ma portando il mio male dappertutto in giro con me. Poco più avanti Petrarca cita Orazio per significare l’impossibilità di liberarsi dal dardo amoroso:”celum non animum mutant, qui trans mare currunt “[95], cambiano il cielo non l’animo quelli che corrono al di là del mare.
Per quanto riguarda la dipendenza di Virgilio da Catullo segnalo due versi del Liber : “ignis mollibus ardet in medullis ” (45, 16), arde il fuoco nelle tenere midolle, e “cum penitus maestas exedit cura medullas “( 66, 23), quando una pena profonda ti consumò le afflitte midolla.
La catena prosegue con la Didone delle Heroides di Ovidio il quale descrive questo suo bruciare per Enea illustrandolo in maniera particolareggiata con due paragoni, il secondo dei quali prefigura il suicidio per amore:”Uror, ut inducto ceratae sulpure taedae;/ut pia fumosis addita tura rogis “(VII, 25-26), brucio come fiaccole coperte di cera e impregnate di zolfo; come i santi incensi gettati sui roghi fumosi.
Il dardo d’amore nell’Eneide è come una canna mortale ficcata nel fianco:”haeret lateri letalis harundo ” (IV, v.73).
Il sentimento amoroso è dunque connesso al dolore, alla morte e al senso di colpa. La causa è il terrore dell’istinto che è sintomo di decadenza e di calo del turgore vitale.
“combattere gli istinti-questa è la formula della décadence ; fintanto che la vita è ascendente , felicità e istinti sono uguali”[96].
Di questa regola abbiamo un’iterata formulazione latina in Cicerone:”primum ut appetitus rationi pareat…praestantissimum est appetitum obtemperare rationi “(De Officiis , I, 141), la prima regola è che l’istinto obbedisca alla ragione…la regola più importante è che l’istinto si sottometta alla ragione. Purché l’istinto non venga criminalizzato o soppresso infatti :”l’umanità non si riduce affatto all’animalità; ma senza animalità non c’è umanità”[97].
Rimasta sola nella casa vuota la digraziata regina si tormenta:”sola domo maeret vacua ” (v. 82) o in altri momenti inganna se stessa trattenendo in grembo Ascanio “infandum si possit fallere amorem ” (v. 85), per vedere se possa illudere l’indicibile amore.
Amore è infamia e follia. Può diventare anche crudeltà, nel caso che la donna abbia a portata di mano creature deboli con cui prendersela:”Saevus Amor docuit natorum sanguine matrem/commaculare manus. Crudelis tu quoque, mater./Crudelis mater magis, an puer improbus ille? “, il crudele Amore insegnò alle madri a contaminare le mani col sangue dei figli. Crudele anche tu madre. Crudele la madre di più o quel figlio malvagio? canta Damone nell Ecloga VIII (vv. 47-49) con riferimento a Medea, a Venere e a Cupido.
L’amore, in quanto connotato per natura da furor e improbitas , non dovrebbe riguardare la “razza padrona” degli optimates quali vengono definiti da Cicerone nel Pro Sestio del 56 a. C. :” Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti “, 45, sono ottimati tutti quelli che non fanno del male, né sono malvagi né squilibrati per natura, né impacciati da difficoltà domestiche.
Anche Giunone, benevola e protettiva verso la regina di Cartagine, individua l’amore di lei come ardore e furore:”ardet amans Dido traxitque per ossa furorem ” ( IV, 101), arde d’amore Didone e ha contratto nelle ossa il furore.
Furens nell’Eneide è pure Cassandra della quale Corebo era acceso da folle amore:”insano Cassandrae incensus amore “(II, 343), cosa che gli costò la vita poiché si trovava a Troia la notte dell’incendio avendo voluto portare aiuto a Priamo in quanto aspirava a diventare suo genero:” infelix, qui non sponsae furentis praecepta /audierit “( II, 345-346)), infelice che non aveva dato ascolto alle profezie della fidanzata fatidica . La profetessa di sventura ricompare un poco più avanti (II, 405):”ad caelum tendens ardentia lumina frustra “, drizzando al cielo gli occhi ardenti invano.
Anche in questo caso ardore e pazzia vanno insieme, in quella profetica come in quella amorosa.
Altra furens è la Sibilla cumana:”ea frena furenti /concutit et stimulos sub pectore vertit Apollo ” (VI, vv. 1OO-101), quei morsi alla furente li scuote Apollo e sferra sotto il petto colpi di sperone. La pazzia con ira e rabies secondo Giovenale rendono meno esecrabili, rispetto ai delitti delle matrone romane perpetrati per denaro o per il potere, i crimini di Medea e Procne:”et illae/grandia monstra suis audebant temporibus, sed/non propter nummos. minor admiratio summis/ debetur monstris, quotiens facit ira nocentem /hunc sexum et rabie iecur incedente feruntur/praecipites (VI, 644-649), anche quelle ai loro tempi osavano grandi mostruosità, ma non per denaro. Meno stupore si deve alle mostruosità somme, tutte le volte che è l’ira a rendere assassino questo sesso ed esse sono trascinate a precipizio dalla rabbia furiosa che brucia il fegato.
La follia erotica si diceva è assimilabile a quella religiosa, come già in Platone il quale nel Fedro ricorda che il tema dell’irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.
Il filosofo tuttavia non considera negativamente questa “frenesia divina che è molto più saggia della saggezza del mondo”[98]. Anzi Socrate vuole dimostrare:”wj” ejp& eujtuciva/ th’/ megivsth/ para; qew’n hJ toiauvth/ maniva devdotai” (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna. C’è da notare che maivnomai, “sono pazzo”, maniva, “follia” e mavnti” , profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
Si ricorderà che pure nella Storia del genere umano di Leopardi l’ardore amoroso non è un fatto negativo (“rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue”).
Il fuoco non è infernale nella visione escatologica di Pindaro: nell’isola dei beati ” a[nqema de; crusou’ flevgei” (Olimpica II, 79), fiori d’oro bruciano, e non lo è nelle Rane di Aristofane dove il Coro degli iniziati ai misteri nella Parodo canta:” flogi; fevggetai leimwvn–govnu pavlletai gerovntwn “(v. 344-345) di fiamma il prato sfavilla, balza il ginocchio dei vecchi.
Nell’Eneide invece il bruciare della regina Didone innamorata, prima ancora che l’amore venga consumato e che fallisca, rende la donna miserrima (v. 117) secondo la qualificazione della stessa dea che la protegge.
Il desiderio amoroso viene realizzato durante la tempesta e a questo punto il male diviene irreversibile e letale:”Ille dies primus leti primusque malorum/ causa fuit “(v. 169-170), quel giorno fu il primo della morte e il primo dei mali, e ne fu la causa; anche perché Didone non si preoccupa della fama , ossia dell’infamia che gliene deriverà, in quanto pensa a un amore coniugale, senza contare che quel sant’uomo di Enea non aveva tempo per stare a lungo con lei.
Il desiderio non trova un limite nella vergogna che viene momentaneamente repressa ma non superata da Didone: il conflitto tra queste due forze contrastanti è drammaticamente sentito dalla Medea vergine di Apollonio Rodio che il pudore (aijdwv”) tratteneva , mentre un desiderio possente (qrasu;” iJvmero” ) spingeva (Argonautiche , III, 653). “Apollonio non è interessato agli sviluppi pragmatici della storia, e privilegia invece la dinamica psichica”[99].
La Medea di Apollonio ondeggia a lungo in preda alle contraddizioni: prima impreca contro Giasone (III, 466), poi contro il pudore e la fama (” ejrrevtw aijdwv” , ejrrevtw ajglai?h “, III, 785-786). Poi però pensa di nuovo a cosa dirà la gente, a quale sarà la sua vergogna (ai’jsco”, v. 797), quale la sua disgrazia (a[th, v. 798). Sballottata tra il desiderio e il terrore, la fanciulla arriva ad augurarsi di morire. “I tre monologhi raffigurano, con una rete di rispondenze interne, i momenti cruciali di questo iter psichico, e si basano su un’intensa dialettica tra forze della repressione e forze del represso; non si tratta però, semplicisticamente, di una dialettica fra mondo esterno e mondo interno, ma di uno scontro tutto interiore. E’ questa forse la maggiore novità della psicologia apolloniana, rappresentare cioè la repressione come componente imprescindibile del campo psichico, una componente interiorizzata che dà all’eros una potenza ancora maggiore. Se il primo monologo contiene all’inizio un “vada alla malora” (ejrrevtw: v. 466) riferito a Giasone, il terzo usa la stessa espressione rivolta invece al pudore e alla fama (III 785-786): si tratta in entrambi i casi di negazioni freudiane, che affermano con violenza espressiva la violenza delle due forze che angosciano Medea, il desiderio e il pudore, cioè l’amore per Giasone e la fedeltà al padre”[100].
Questo turbamento è naturale in una ragazza senza esperienza.
Assai meno naturali sono turbe del genere in una donna matura ed esperta.
Se poi la Fama è un monstrum horrendum pieno zeppo di occhi, piume, lingue, bocche, orecchie (vv. 181-183), se è una dea foeda (v. 195), una divinità oscena, non è retta, nobile e meritevole di un premio Didone che non se ne cura?
Invece la disgraziata verrà punita.
“Se gli dèi olimpici non sono certo accusati e condannati si manifesta nel libro IV…un’altra presenza divina, che è, invece, tanto ripugnante quanto terribile, la presenza di un mondo demoniaco inferiore che, anche se talora asservito a quello celeste, ne è diverso per natura: da questo mondo proviene la Fama, divinità maligna e sinistra (173-195), il cui fascino demoniaco si avverte, anche se l’abilità letteraria di Virgilio l’abbia un pò sciupato”[101].
La lussuria della regina scatena l’ira di Iarba, pretendente respinto, e la complicità di Enea provoca la collera di Giove che considera legittimo e santo l’ardore sacro della gloria (“si nulla accendit tantarum gloria rerum “, v. 232); impuro e deleterio (ancora una volta!) quello dell’amore. Il figlio di Venere dunque “naviget ” (v. 237), navighi, non ami! Quindi il re degli dèi manda Mercurio per rinfocolare i sensi di colpa. Appena vede Enea il messaggero infatti lo assale (“Continuo invadit “, v. 265) rimproverandolo per il suo crimine.
L’eroe troiano davanti a tanto rimprovero nemmeno cerca di difendere l’amore:”obmutuit amens/arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit “(vv. 280-281), restò muto, fuori di sé, gli si drizzarono i capelli per il terrore e la voce si arrestò nella gola.
Il v. 280 è formulare nell’epica virgiliana: riecheggia II 744:”Obstpui steteruntque comae et vox faucibus haesit “, mi paralizzai, si rizzarono i capelli e la voce rimase attaccata alla gola. E’ la reazione di Enea davanti all’umbra , più grande del naturale, di Creusa perdutasi durante la notte della presa di Troia.
Questo verso torna identico a III 48 quando Enea si terrorizza sentendo il lamento di Polidoro venire da una bacchetta[102] .
La formula del IV canto torna di nuovo in XII v. 868 e questa volta riguarda Turno paralizzato dal presagio della propria morte.
Ma Enea deve compiere altre imprese grandi e meravigliose, sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti lo scalda un ardore legittimo e davvero degno di un eroe:”Ardet abire fuga ” (v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per prepararla furtivamente, riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più dolci.
La regina però lo capisce da sola (“quis fallere possit amantem? “, v. 296, chi potrebbe ingannare un’amante? ), lei che temeva tutto anche se era tranquillo:”omnia tuta timens” (v. 298). L’ossimoro che accosta parole di significato contrastante evidenzia quanto di contraddittorio c’è nell’anima di questa donna innamorata e ansiosa. L’allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi.
Per giunta la Fama, impia , porta la brutta notizia alla donna già sconvolta (furenti , v. 298). Allora scoppia di nuovo l’incendio della pazzia e dell’amore:”Saevit inops animi totamque incensa per urbem/ bacchatur “, vv. 300-301, ella infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.
Quindi la disgraziata affronta Enea al grido di “perfide ” (305), che echeggia il lamento dell’Arianna abbandonata di Catullo[103] , prima lo aggredisce rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la propria morte, invocandone il senso dell’onore, la gratitudine dovuta, e cercando di impietosirlo:” Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? ” (vv. 305-308), hai sperato, perfido persino di dissimulare un così grande misfatto, e di poter and’artene dalla mia terra senza dir niente? non ti trattiene il nostro amore né la destra data una volta né Didone pronta a morire di morte crudele? A proposito della data dextera si ricorderanno della Medea di Euripide i già citati vv. 21-22:”ajnakalei’ de; dexia’”-pivstin megivsthn, reclama il sommo impegno della mano destra.
Vediamo altri tre versi:” per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem ” (vv. 316-319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per te c’è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c’è qualche posto per le preghiere. Anche questi contengono e suscitano echi . Il primo “è un'”allusione” a Catullo 64, 141 sed conubia nostra, sed optatos hymenaeos : ciò spiega le “preziosità” metriche di gusto neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di parola, cesura trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con tutte le preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più “tragico”[104].
Il primo emistichio del v. 317 al lettore di Dante ricorda la captatio benevolentiae di Virgilio a Ulisse e Diomede:”s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,/s’io meritai di voi assai o poco”[105]. Infine il dulce rammentato da Didone a Enea (v. 318) ricorda quello che Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace quando, nella tragedia di Sofocle, tenta di dissuaderlo dal suicidio:” ajndriv toi crew;n–mnhvnhn prosei’nai, terpno;n ei[ tiv pou pavqh/: cavri” cavrin gavr ejstin hJ tivktous& ajei–oJvtou d& ajporrei’ mnh’sti” eu’j peponqovto”,-oujk aj;n levgoit& e[q& ou’Jto” eujgenh;” ajnhvr” (Aiace , vv. 520-524), per l’uomo certo è doveroso che rimanga un ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo l’ha provata: infatti grazia genera grazia, sempre. Chiunque perda il ricordo di avere ricevuto del bene, non può più essere chiamato nobile.
Virgilio non utilizza la sentenza finale per non togliere nobiltà al suo eroe, ma chi crede nel valore della gratitudine sente che nel comportamento di Enea nei confronti di Didone c’è qualcosa di vile e volgare.
Infatti l’ingratitudine è un vizio capitale secondo diversi autori e la gratitudine, viceversa, un grande valore.
Esiodo mette la gratitudine (cavri” , Opere , v. 190) con il pudore (aijdwv”, v. 192) tra i valori negati dall’estrema decadenza dell’ età del ferro : allora gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh d& ejn cersiv , v. 192), se ne andranno Aijdwv” appunto e Nevmesi” , la giusta distribuzione; quindi “kakou’ d& oujk e[ssetai ajlkhv” (Opere , 201) non vi sarà più scampo dal male.
Nella Ciropedia di Senofonte leggiamo che un motivo serio di punizione e disonore tra i Persiani è l’ajcaristiva :”kai; oJ;n aj;n gnw’si dunavmenon me;n cavrin ajpodidovnai, mh; ajpodidovnta dev, kolavzousi kai; tou’ton ijscurw'”. Oi[ontai ga;r tou;” ajcarivstou” kai; peri; qeou;” aj;n mavlista ajmelw'” e[cein kai; peri; goneva” kai; patrivda kai; fivlou””(I, 2, 7), e quello di cui sanno che potendo contraccambiare un favore, non lo contraccambia, lo puniscono severamente. Credono infatti che gli ingrati trascurino completamente gli dei, i genitori, la patria e gli amici. “Come cosa caratteristica dei Persiani-osserva Jaeger- Senofonte rileva che l’ingratitudine è severamente punita in questo tribunale, in quanto essa appare come origine dell’impudenza e pertanto di ogni malvagità”[106]. L’ingratitudine invero è biasimata come vizio capitale già da Penelope saggia ( “perivfrwn”) quando rimprovera gli Itacesi dicendo all’araldo:”ajll& oJ me;n uJmevtero” qumo;” kai; ajeikeva e[rga–faivnetai, oudev tiv” ejsti cavri” metovpisq& eujergevwn”( Odissea , IV, 694-695), il vostro animo appare evidente e indegne le vostre azioni, e non c’è più gratitudine alcuna dei benefici.
Nei Memorabili , Socrate fa notare al figlio Lamprocle che particolarmente grave è considerata ad Atene l’ingratitudine verso i genitori, e per questa mancanza di riconoscenza sono previste delle pene, mentre negli altri casi, la città si limita a disprezzare coloro i quali ricevendo del bene non mostrano gratitudine:”periora’/ tou;” eu’j peponqovta” cavrin oujk ajpodovnta””(II, 2, 13).
Anche Cicerone pone la gratitudine in prima fila tra i doveri:”nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est ” (De Officiis , I, 47), nessun dovere in effetti è più necessario della gratitudine.
L’ingratitudine è il marchio della persona volgare: Nietzsche nel 1864 (a vent’anni) scrisse una Dissertazione su Teognide di Megara simpatizzando con le teorie del lirico antico. Lo colpì fortemente il biasimo espresso per l’ingratitudine dell’animo plebeo:”Teognide ritiene che non c’è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai[107]. Quindi cita alcuni versi della Silloge (105-112) che riporto in traduzione mia :
“E’ un favore del tutto vano fare del bene ai vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare, non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l’affetto per tutti i favori di prima si versa per terra./I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono (“oiJ d&ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte””, v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito”. Contro l’ingratitudine tuona Re Lear, the l’unatic King: o ingratitudine, demonio dal cuore di marmo, più orrenda del mostro marino quando ti manifesti in una figliola! (I, 4).
Ancora qualche parola sulla cavri” che significa non solo gratitudine ma anche altre cose nobili e belle : nell’Olimpica I di Pindaro è “il fascino che foggia tutte le dolcezze per i mortali e, portando onore, procura pure che spesso l’incredibile divenga credibile (vv. 30-32).
Plutarco nel dialogo Amatorius , dà questa definizione di cavri”, autorizzata da alcuni più antichi scrittori:”cavri” ga;r ou’jn, w’j Prwtovgene”, hJ tou’ qhvleo” uJvpeixi” tw’/ a[rreni kevklhtai pro;” tw’n palaiw’n “[108], la compiacenza infatti o Protogene è chiamata dagli antichi la condiscendenza della femmina al maschio.
Ma tra i nostri amanti non può esserci più nulla di buono poiché compiacenza e condiscendenza devono essere reciproche mentre Enea non vuole saperne di Didone, nemmeno quando questa arriva a dire ” Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset/ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula/luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et deserta viderer “(vv. 328-330), se almeno fosse stato da me concepito un figlio tuo prima della tua fuga e nella mia reggia giocasse un piccolo Enea che per lo meno ti riproducesse nel viso, certo non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata. Sull’aggettivo parvulus sentiamo un’altra riflessione di La Penna-Grassi:”Lo stile epico rifiuta i diminutivi, propri del sermo familiaris , comuni nelle nugae catulliane, ma già meno frequenti nell’elegia. Nell’Eneide sono stati contati sette diminutivi, ma probabilmente questo è l’unico vero diminutivo affettivo: con molta finezzaVirgilio ha sentito che l’umanità dolente della sua eroina non poteva essere sempre “controllata” colla misura della sublimità epica. La concessione ha, tuttavia, i suoi limiti: Virgilio ha probabilmente nella memoria un passo di un epitalamio di Catullo (61, 216 ss.), dove il poeta augura che presto un Torquatus…parvulus dal grembo della madre tenda le mani al padre e gli sorrida; ma proprio il confronto con Catullo mostra che la tenerezza materna di Didone manca di ogni leziosità”[109].-deserta:”è ancora voce che appartiene al linguaggio erotico-elegiaco: così Catullo c. 64, v. 57, descriveva Arianna abbandonata da Teseo (desertam in sola miseramharena, “abbandonata, misera, su una spiaggia deserta”[110].
Ma l’eroe è chiamato altrove dal destino e non vuole sentire altra fiamma che quella del fatum . Enea “rappresenta, come ognuno dei personaggi dell’Eneide , un punto di vista soggettivo che lo individua; ma rappresenta insieme la volontà del Fato di cui è portatore…Nella sua funzione di oggettività egli è dalla parte del Fato-e del poeta che del Fato narra la realizzazione”[111].
Salvo l’affetto per la donna che sta abbandonando (ci mancherebbe!), egli ha doveri più forti verso gli dèi, il padre e il figlio. Sono gli argomenti classici degli amanti (uomini e ora anche tante donne) che nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia. Apollo attraverso vari oracoli gli ha ordinato di raggiungere l’Italia:”hic amor, haec patria est ” (v. 347), questo è l’amore, questa è la patria. Inoltre l’eroe riceve rimproveri dall’immagine turbata del padre morto, ovviamente in somnis , nei sogni, in tutti: quotiens umentibus umbris-nox operit terras, vv. 351-352, ogni volta che la notte con umide ombre copre le terre, poi anche il figlio lo ammonisce e l’interprete degli dèi mandato da Giove per quel suo iniquo procrastinare il compimento del destino. Sicché conclude:”Desine meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor ” (vv. 360-61), smetti di infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco l’Italia di mia volontà. “Querellis voce che ci porta di nuovo nel mondo dell’elegia erotica (vedi, per esempio, Catullo, c. 64, v. 130 e v. 195, dove querellae sono i “lamenti” di Arianna abbandonata), è un termine che si presta molto bene a un’riassunto’ del contrasto in atto: da un lato le “lamentele” di una donna innamorata, dall’altro la coercizione del fato, che impone il sacrificio dei propri sentimenti privati. Le ultime parole di Enea, racchiuse in un emistichio ( uno dei numerosi versi incompiuti del poema) esprimono appunto il senso dell’invincibile pressione esercitata su di lui: è contro il suo cuoreche Enea porta avanti la sua missione”[112]. Ma noi sappiamo che quella dell’amore, quando c’è, è la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amori ” Ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all’Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama.
Auerbach trova addirittura grottesco il fatto che Dante nel Convivio interpreti “la separazione di Enea da Didone come allegoria della temperantia“[113]. Sentiamo Dante:”chiamasi quello freno TemperanzaE così infrenato mostra Virgilio, lo maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piaceree usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l’Eneida scritto è!” (Convivio, IV, 26).
Quel “non sponte “, ripreso dall'”invitus regina tuo de litore cessi ” del VI canto (v. 460), contro la mia volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia, rende bene l’idea, anche se non voluta da Virgilio, della vigliaccheria dell’uomo.
Leopardi nello Zibaldone manifesta antipatia per Enea, sia pure a causa di una sua presunta perfezione:”Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo…e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec.” (2)Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d’animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l’amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch’egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell’idea che Virgilio ci fa concepir del suo eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogoE così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effettia riguardo d’Enea e della sua passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulatoanzi serba quasi un così alto silenzio, che e’ non mostra essa passione se non indirettamente e p. accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità da quel ch’ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion dell’amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v’è cosa più amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere (3611) appo i lettori alla stima non solo, ma all’interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, di cuore”.
A noi di tale “eroe” dà fastidio piuttosto la doppiezza e ci piace metterlo a confronto con il Prometeo incatenato di Eschilo che attribuisce dignità al suo peccato:” io sapevo tutto questo:/di mia volontà , di mia volontà ( eJkw;n eJkwvn) ho commesso la trasgressione, non lo negherò”(vv. 265-266).
Si può pensare anche all’ Edipo di Sofocle che si punisce da solo colpendosi gli occhi per non vedere gli orrori che pure ha commesso inconsapevolmente:” Apollo, era Apollo o amici/colui che portò a compimento queste cattive cattive mie queste mie sofferenze/Però di sua mano nessuno li colpì/tranne me infelice”( Edipo re , vv.1329-1332)
L’ affermazione di Prometeo tra l’altro fornisce una legittimazione all’ira di Zeus e argomenti a Nietzsche per distinguere “la natura ariana” da quella “semitica” fin dal mito di Prometeo il quale :”per la dignità che conferisce al misfatto, è in uno strano contrasto col mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, la lusinga menzognera, la facilità a lasciarsi sedurre, la cupidigia, insomma tutta una serie di passioni prevalentemente femminili vengono considerate come l’origine del male. Ciò che invece contraddistingue il concetto ariano è la sublime idea del peccato attivo come specifica virtù prometeica”[114]. Una virtù che a Enea manca.
Didone non accetta le scuse e, infiammata (“accensa ” v. 364), rimprovera all’amante in partenza una malafede e un’ingratitudine, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura”Nusquam tuta fides ” (v. 372). Torniamo sulla già pluritratta fides e sentiamo ancora La Penna-Grassi:” fides è propriamente quella garanzia che si dà col foedus , specialmente collo stringere la destra (cfr. v. 307) e la cui violazione è punita dagli dèi. Didone si riferisce soprattutto alla fides data da Enea col vincolo del matrimonio. Probabile che Virgilio avesse in mente Euripide, Med. 412 s. “Gli uomini vogliono solo frodi, la fede giurata per gli dèi non si regge più”; ancora più probabile l’eco di Catullo 64, 143 s. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,/nulla viri speret sermones esse fideles (ancora una volta si può misurare la differenza di tono: Catullo è più elegiaco, più effusivo, Virgilio più tragico nella sua concisione)”[115].
Quindi la regina, infiammata (accensa , 364) investe Enea accusandolo di crudeltà disumana. Esprime perfino sfiducia perfino in Giove e Giunone che non tutelano la fides :”Nusquam tuta fides ” (v. 373), la quale in nessun luogo è sicura. La donna sente che il fuoco d’amore è diventato un incendio di odio:” Heu furiis incensa feror (v. 376), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie! Poi congeda l’amante che la sta abbandonando maledicendolo:” i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas; audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos ” (vv. 381- 386), va’, insegui l’Italia coi venti, cerca un regno attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere, berrai tra gli scogli la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra dall’anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto gli abissi.
Si noti che ventis e undas significano l’instabilità pericolosa della ricerca che corrisponde all’inaffidabilità dell’anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che colpiranno il traditore facendogli bere quell’acqua dove erano stati scritti i suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte e la fama che l’ha infamata da viva la compenserà portandogliene la sospirata notizia. Anima è il soffio vitale: deriva dall’indoeuropeo *anem- che ha dato come esito in greco ajnem- da cui a[nemo”, vento e in latino anim- da cui, oltre anima, animus, animo, coraggio, animal, animosus.
“Nella nuova battuta di Didone (365-387) l’ira proprompe con violenza, variata non più dalla preghiera, ma solo dal sarcasmo: è qui che Didone può ricordare meglio il volto selvaggio della Medea di Euripide, che pure sa unire allo sfogo di una passione furente le sottigliezze di una logica ironica e sarcastica: come Medea, Didone si sente vittima dell’ingiustizia e senza protezione divina contro l’ingiustizia. Dalla battuta, emerge chiaramente che il furor d’amore è divenuto furor di odio senza confini e che il mondo dei valori di Enea resta del tutto estraneo all’animo di Didone”[116].
Ma il pio eroe deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l’amore:”At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa tamen divom exsequitur classemque revisit ” (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con le parole, gemendo molto e scosso nell’animo da grande amore, esegue nondimeno gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.
Pius Aeneas è una formula che torna una ventina di volte nel poema. Qui l’epiteto pius “riappare dopo un lungo intervallo (l’ultima volta in I 378). Poiché gli epiteti virgiliani sono spesso coerenti con la situazione, anche qui il legame va cercato. Pius esprime il rispetto e l’amore dei valori morali e religiosi, soprattutto devozione alla famiglia, alla stirpe, alla patria, agli dèiQui l’aggettivo può essere sentito in legame col dolore che egli prova per Didone; ma più probabilmente prevale (forse senza escludere l’altro) il legame col rispetto degli ordini divini”[117].
Secondo Conte, Enea deve giungere alla “spoliazione di sé” per realizzare il suo scopo:”La pietas di Enea potrebbe essere vista, se mi si concede, in termini di ossimoro, come insensibile sensibilità, ossia una partecipazione al dolore di personaggi perduti o vinti durante il cammino, ma al tempo stesso un vietarsi ad essa in nome del valore della meta da raggiungere”[118]. Personalmente, almeno in questo caso, assimilo la pietas di Enea all’ipocrisia del furfante bigotto. La assimilo pure al culto della peiqarciva (disciplina) di Creonte che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, ed ella morendo rivendica la pietà come virtù propria:”:”O rocca della terra di Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l’unica superstite della stirpe regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà ” ( Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la motivazione dell’abbandono di Calipso da parte di Odisseo:” ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh ” (Odissea , V, 153), poiché la ninfa non le piaceva più. La pietas tanto celebrata da Virgilio viene smontata da Orazio quando afferma che essa, nemmeno se attestata dal sacrificio di un toro al giorno, porterà una sosta alle rughe né alla vecchiaia che incalza né alla morte invitta:”nec pietas moram/rugis et instanti senectae/adferet indomitaeque morti ” (Odi, II, 14, 2-4). Parimenti nel quarto libro delle Odi il poeta avverte il nobile Torquato che né la stirpe né la facondia né la pietas potranno restituirlo alla vita una volta che sarà morto e Minosse avrà dato sul suo conto giudizi inappellabili:”Cum semel occideris et de te splendida Minos/fecerit arbitria,/Non Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas ” (vv. 21-24). Altrettanto inefficace si rivela la pietas dei Meli di Tucidide quando rispondono agli Ateniesi che saranno in grado di resistere alla loro superprepotenza :”o{ti o{{sioi pro;” ouj dikaivou” ” (V, 104), in quanto da pii opposti a persone ingiuste.
Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti identifica la “commendata” pietà con il contraccambio della devozione amorosa, e la malvagità con lo sprezzante rifiuto dell’offerta d’amore. Questa storia anzi mostra che tale crudeltà “è dalla divina giustizia rigidamentevendicata”[119].
“Ma cos’è la pietà ? Nel dialogo Eutifrone, nonostante l’incalzante dialettica cui la pietà viene sottoposta, non rimaniamo soddisfatti (forse perché oggi soffriamo per la sua particolare mancanza). A partire da questa assenza attuale possiamo arrivare a dire che la “pietà ” è il saper trattare adeguatamente con l’altronel breve dialogo Eutifronela pietà (to; o{sion) viene dapprima definita come rapporto adeguato con gli dèi, per essere da ultimo riconosciuta come virtù, vale a dire, un modo di essere dell’uomo conforme al giusto”[120]. Non così nelle Baccanti di Euripide dove il Coro nel Primo Stasimo invoca la Pietà come una divinità eccelsa che porta giù in terra le ali d’oro, perché, udite le parole empie di Penteo contro Dioniso, scenda sulla terra a punirlo:” J Osiva povtna qew’n,-
J J Osiva d ‘ a{ kata; ga’n-crusevan ptevruga fevrei”,-tavde Penqevw” ajivvvei” ;” (vv. 370-373). Ma torniamo al pio Enea.
Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull’amore la maledizione indirizzata a Enea dall’amante abbandonata:”Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (v. 412), malvagio Amore, a cosa non spingi i petti mortali!
E’ un’apostrofe contro l’amore che viene messo allo stesso livello dell’auri sacra fames , la maledetta fame dell’oro che ha spinto il re di Tracia a sgozzare l’ospite Polimestore:”Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! ” (Eneide , III, 56-57). “L’apostrofe in Europa è vecchia come la poesia: Omero la usa spesso (si pensi all’allocuzione di Crise agli Atridi all’inizio dell’Iliade, che richiama con evidenza l’immagine di uno che preghi con le braccia alzate)”[121].
Simile apostrofe accusatoria di Eros è quella già citata di Apollonio Rodio (IV, 445).
Didone fa un’ultima prova “ne quid inexpertum frustra moritura relinquat ” (v. 415) per non lasciare nulla di intentato, destinata com’è a morire invano. Quello dell’amore è un piano inclinato e scivoloso che conduce inevitabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I canto, v.712). Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere l’ultima grazia (extremam…veniam , v. 435) di un rinvio:”tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere ” (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire. L’intervallo si deve comunque concedere anche ai ragazzini nelle scuole (danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria , I, 8) ma Enea rimane inesorabile:”fata obstant “, v. 440, i destini si oppongono e la dura volontà dell’eroe si conforma alla necessità che ha le mani d’acciaio.
La sua mente rimane immota come le radici di una quercia scossa dal vento.
Didone soffre, ha visioni e ode voci che accrescono il senso di colpa, quindi decide che si è meritata la morte. Nemmeno la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l’affanno dell’abbandonata:”Nox erat et placidum carpebant fessa soporem/corpora per terras silvaeque et saeva quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant curas et corda oblita laborum[122])/At non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae rursusque resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu ” (vv. 522-532), Era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti, sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle campagne ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa (calmavano gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche). Ma la Fenicia infelice nell’animo non si libera mai nel sonno e non accoglie la notte negli occhi o nel petto: raddoppiano gli affanni e l’amore, insorgendo di nuovo, infuria e fluttua in un grande ribollimento di ire.
Ecco dunque il contrasto tra la quiete della natura e l’agitazione della creatura che si sente in colpa. La tragedia in effetti nasce sempre da un cozzo tra l’uomo e l’universo ai cui ritmi invece tutti devono adeguarsi. I modelli di questo notturno sono diversi. Il più antico e suggestivo è quello di Alcmane lirico corale, di lingua dorica, del VII secolo:” Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e anche le gole/e le specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere montane e la stirpe delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo; /dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali” (fr. 58 D.).
Questo frammento probabilmente faceva parte di un partenio recitato durante una festa notturna, e, da poesia di occasione, è divenuto un topos con un lungo seguito nella letteratura europea , tanto che non è il caso di fare l’elenco delle imitazioni. Si può notare che non mancano echi di formule omeriche, come del resto è di derivazione epica l’osservazione attenta del mondo della natura. Tale attenzione è conseguenza di un rapporto vivo con il mondo ed è rivolta alla quiete e all’armonia di un cosmo da cui l’uomo non è ancora escluso. Il contrasto rilevato da Virgilio invece si trova in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il desiderio del sonno a tutti ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di Giasone:” quindi la notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i marinai fissarono l’Orsa Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche viandante e custode di porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva una madre di bambini morti; né c’era più abbaiare di cani per la città, né chiasso sonoro: il silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il dolce sonno non prese Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le mancava Giasone e temeva la possente forza dei tori”(Le Argonautiche , III, 744-753). Già in questo poeta alla natura forte e sana del lirico arcaico è succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili sofferenti pascoliani.
Nella Didone di Virgilio questo dolore indeterminato diviene odio per la vita causato dal senso di colpa. Didone infatti non “si assolve” mai (neque umquam solvitur ).
Anzi si accusa da sola: ” Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae, talis nec tangere curas/ Non servata fides cineri promissa Sychaeo ” (vv. 550-552), non mi è stato possibile passare la vita senza nozze e colpa come le bestie, e non toccare tali affanni: non è stata osservata la fedeltà promessa al cenere di Sicheo.-talis=tales. Vedremo l’antitesi di questo triste e letale “tradimento” postumo nella fabula milesia, compresa nel Satyricon (111-112), della “Matrona di Efeso”, una vedov’ella che poche ore dopo la morte del marito si tolse le gramaglie, e tutto il resto, senza rimorsi né ubbìe, dando retta a un soldato che oltretutto dovette appendere il cadavere dello sposo amato al posto di quello di un ladrone sottratto a una croce e affidato alla sua sorveglianza.
Le bestie, rimugina Didone, non si sposano né si sentono in colpa per l’accoppiamento. “Il mos ferarum , il modo di vivere delle fiere, è richiamato non come un modo di vivere inferiore, indegno dell’uomo, ma come un modo di vivere innocente: le fiere si accoppiano liberamente, promiscuamente, ma, appunto perché non hanno legami matrimoniali stabili e non ne sentono l’esigenza, sono innocenti. E’ ben probabile che Virgilio tenga presente la descrizione dell’umanità primitiva del V libro di Lucrezio (925 ss. ) e in particolare 932 volgivago (errando da ogni parte) vitam tractabant more ferarum : ma si sa quanto sia ambiguo l’atteggiamento di Lucrezio verso questo stato ferino; ferino, sì, ma più puro di quello attuale e forse anche meno infelice (opportunamente il Page confrontava anche con Ovidio, Fast. II 291 vita feris similis , che si riferisce alla vita primitiva e felice degli Arcadi). Il fraintendimento consiste soprattutto nell’interpretare more ferae come condanna morale dello stato ferino. Tale fraintendimento si trova già in Quintiliano (IX 2, 64), che, in conseguenza, era portato a sentire nel passo una contraddizione spiegabile coi sentimenti di Didone: da un lato ella si lamenterebbe del matrimonio, ma dall’altro lascerebbe prorompere il proprio sentimento e riconoscerebbe che una vita senza nozze sarebbe una vita da bestie”[123]. Quintiliano cita il v. 550 e metà del 551 aggiungendo un punto interrogativo e considerandoli un esempio della figura dell’emphasis :” Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae?” L’enfasi è spiegata:”cum ex aliquo dicto latens aliquid eruitur…Quamquam enim de matrimonio queritur Dido, tamen huc erumpit eius adfectus, ut sine thalamis vitam non hominum putet, sed ferarum ” (Institutio oratoria , IX, 2, 64), quando da qualche detto scaturisce qualcosa di nascosto…sebbene infatti Didone si lamenti del matrimonio, tuttavia la sua passione prorompe là dove ella ritiene che la vita senza nozze sia non da uomini ma da bestie.
Quale che sia l’interpretazione di Quintiliano, nel testo di Virgilio il letto e la colpa sono strettamente congiunti e la presenza dell’uno significa quella dell’altra.
Ella dunque è colpevole, mentre Enea è innocente poiché obbedisce agli ordini degli dèi che vengono ribaditi da Mercurio. Il quale gli appare in sogno e gli dice pure che Didone è risoluta a morire (“certa mori “, v. 564), ma questo non ha importanza né per l’uomo né per il dio. Ella infatti rivolge nel petto inganni e una sinistra scelleratezza :”illa dolos dirumque nefas in pectore versat “(v. 563). L’allitterazione in dolos dirumque sottolinea entrambe le colpe della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il desiderio cammuffato, suggerisce l’inganno e il misfatto, trova anche il modo di discolpare il dormiente proiettando sulla regina tutto il male che egli stesso è già preparato a perpetrare contro di lei.
Bisogna solo evitare di essere danneggiati dalla femmina “varium et mutabile semper “, v. 569. Dopo queste parole l’immagine onirica tornò nell’oscuro e ribollente crogiolo dell’inconscio, ovvero, con le parole di Virgilio:”sic fatus nocti se immiscuit atrae ” (v. 570), dopo avere parlato così, si mescolò alla notte oscura. Il sogno però non si era mascherato abbastanza bene, sicché Enea si svegliò terrorizzato:”Tum vero Aeneas subitis exterritus umbris/corripit e somno corpus sociosque fatigat ” (vv. 571-572), allora sì che Enea, spaventato dall’apparizione improvvisa, strappa il corpo dal sonno e incalza i compagni. A questo punto è necessaria un’occhiata alla teoria freudiana di cui mi sono avvalso per interpretare la visione onirica di Enea.
La follia metodica dei sogni.
Alcuni versi riferiti si prestano all’interpretazione di Freud il quale sostiene che “ogni sogno si rivela come una formazione psichica densa di significato”[124] e che nella follia onirica, come in quella di Amleto, c’è un metodo. L’autore de L’interpretazione dei sogni riconosce il suo debito alla letteratura classica:”Non diversa era l’opinione degli antichi sulla dipendenza del contenuto onirico dalla vita” (p. 20). Quindi cita un episodio di Erodoto, grosso modo, e, in latino dei versi di Lucrezio:”Et quo quisque fere studio devinctus adhaeret,/aut quibus in rebus multum sumus ante morati/atque in ea ratione fuit contenta magis mens,/in somnis eadem plerumque videmur obire:/causidici causas agere et componere leges,/induperatores pugnare ac proelia obire,/nautae contractum cum ventis degere bellum,/nos agere hoc autem et naturam quaerere rerum/semper et inventam patriis exponere chartis “, De rerum natura , IV, 962-970 ( gli ultimi tre versi non compaiono nella citazione freudiana), e generalmente la passione cui ciascuno è strettamente legato, o ciò su cui ci siamo molto intrattenuti prima, e in quel meditare si è più trattenuta la mente, i medesimi pensieri ci sembra di incontrare nei sogni di solito: agli avvocati trattano cause e confrontano leggi, i generali combattono e affrontano battaglie, i marinai continuano la guerra ingaggiata coi venti, noi facciamo quest’opera, e indaghiamo la natura sempre, e, scopertala, la esponiamo in carte latine. Intanto vediamo l’etimologia di somnium : la radice sopn- >somn- deriva dall’indoeuropeo *supn-che ha dato come esito in greco uJpn- da cui u{pno” .
Queste immagini oniriche di Enea dunque secondo Lucrezio corrispondono ai suoi pensieri e desideri diurni
Ma torniamo all’inventore della psicoanalisi che in verità utilizza molto i classici.
Spesso il sogno è l’appagamento mascherato di un desiderio rimosso; in altre parole le idee latenti nel presentarsi si mascherano, quindi, per conoscerle, bisogna cavar loro la maschera. Allora bisogna tenere conto della condensazione per cui “ogni situazione porta la traccia di due o più reminiscenze della vita reale…non è neanche raro che il processo del sogno si diverta a formare un’immagine composta con due idee contrastanti; per esempio una giovane donna sogna di portare un ramo fiorito, quello dell’angelo nei quadri dell’Annunciazione (simbolo d’innocenza; questa giovane si chiama Maria). Soltanto, in questo caso, il ramoscello porta dei fiori bianchi e carnosi simili alle camelie. (Il contrario dell’innocenza: la signora dalle camelie)”[125].
La condensazione onirica tra l’altro, aggiungo, può spiegare gli ibridi mostruosi della mitologia e della letteratura.
Poi, sempre per risalire alla parte latente, e vera, si deve considerare lo spostamento psichico o spostamento nel sogno:”tutto ciò che vi era di essenziale nelle idee latenti è rappresentato nel sogno da particolari secondari”[126]. Per giunta le idee latenti si manifestano travestite, attraverso immagini:”Tali idee non ci si presentano sotto la forma verbale più riassuntiva possibile, con la quale noi abbiamo l’abitudine di concretare i nostri pensieri, ma il più delle volte trovano un mezzo simbolico per esprimersi, il mezzo di cui si serve il poeta che nella sua opera fa uso di raffronti e di metafore”(p. 67). Il sogno infatti si rappresenta “con una serie di immagini visive” (p. 68) che derivano da idee alimentate dai ricordi che hanno lasciato maggiore impressione e “la cui origine risale addirittura alla prima infanzia”. Le idee latenti, dicevamo, si camuffano perché la coscienza non le ammette e i sogni, che si formano con lo stesso procedimento dei sintomi nevrotici e dei lapsus, “sono realizzazioni velate di desideri inibiti“(p. 102).
Subito dopo Freud suddivide i sogni “dal punto di vista di realizzazione di desideri...in tre categorie: in primo luogo sta il sogno che senza camuffamenti rappresenta un desiderio non inibito. E’ questo il sogno di tipo infantile che diviene sempre meno frequente man mano che il fanciullo cresce…In secondo luogo abbiamo il sogno camuffato che rappresenta un desiderio inibito. La maggior parte dei nostri sogni è di questo tipo ed ecco perché non possono venir compresi senza l’analisi…Infine viene il sogno che esprime un desiderio inibito senza travestimento o con un travestimento molto ridotto. Quest’ultimo sogno è sempre accompagnato da una sensazione di angoscia che lo costringe all’interruzione” (p. 103).
E’ il caso del sogno di Enea il quale comunque obbedisce subito, senza nemmeno chiedersi da dove venga quell’ombra: se dal cielo, da se stesso, o dall’inferno:”Sequimur te, sancte deorum, /quisquis es, imperioque iterum paremus ovantes ” (vv. 576-577), seguiamo te, santo tra gli dèi, chiunque tu sia, e obbediamo di nuovo al tuo comando, festanti. La formula liturgica sancte deorum (v. 576) completata da quel quisquis es (v. 577) derivato dai tragici e rivolto agli dèi (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885) lascia spazio all’unica interpretazione della provenienza divina dell’ordine cui dunque bisogna obbedire.
Quanto all’ultima parola del verso, si può accostare a Georgiche I, 423 (ovantes gutture corvi , i corvi che festeggiano a squarciagola il ritorno del sole) e inferirne che Didone era diventata noiosa, e che lasciare tale amante per Enea era una festa. Per quale altro motivo infatti realisticamente e umanamente si lascia un’amante (e pure un amante)?
Omero, lo abbiamo già accennato, senza tante impalcature moralistiche e menzogne imperiali dice che Odisseo desiderava lasciare Calipso, la quale lo trovò mentre piangeva semplicemente poiché questa femmina, umana o divina che fosse, non gli piaceva più :” e lo trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la ninfa” (Odissea , V, vv.151-153). La storia virgiliana di Didone comunque, secondo Auerbach, è più vicina al gusto moderno:”Nel grande evento mondiale egli intrecciò, non sempre felicemente nei particolari, ma in complesso in modo indimenticabile e costitutivo per l’Europa, il primo grande romanzo d’amore spirituale nella forma fino ad oggi valida: Didone soffre un dolore più profondo che Calipso, e la sua storia è l’unico brano di grande poesia sentimentale che il medioevo abbia conosciuto”[127].
Insomma Enea fugge a tutto spiano: estrae dal fodero la spada fulminea (vaginaque eripit ensem /fulmineum , v. 579) e taglia le gomene. Tale ardore che sostituisce quello amoroso prende contemporaneamente tutti i Troiani i quali danno di piglio ai remi e fuggono a precipizio”idem omnis simul ardor habet, rapiuntque ruuntque ” (v. 581).
La spada e il fulmine dovrebbero essere simboli erotici se non addirittura fallici: il grande seduttore Alcibiade si era fatto incidere sullo scudo Eros fulminatore[128] invece degli stemmi gentilizi.
Inserisco una scheda su un personaggio che può costituire l’altra faccia o la parte in ombra del “pio” Enea: Alcibiade, il grande esteta e seduttore, visto in parallelo con Don Giovanni e con il dandy decadente.
Il grande avventuriero ateniese è inseribile, sostiene Baudelaire, nella breve lista dei rappresentanti del dandismo dell’antichità, “il dandismo è un’istituzione vaga, bizzarra come il duello; antichissima, perché Cesare, Catilina, Alcibiade ce ne forniscono degli splendidi tipi”[129]. Poco più avanti il poeta francese dà una definizione del dandismo:” è l’ultimo raggio di eroismo nei periodi di decadenza...è un sole che tramonta; come l’astro che declina, è superbo, senza calore e pieno di malinconia”.
Vediamo la malinconica fine di questo prototipo del dandy .
Plutarco racconta che dopo la caduta di Atene (404 a. C.) Alcibiade ebbe paura dei Lacedemoni che dominavano la Grecia e si recò da Farnabazo, in Frigia, coltivandone l’amicizia e ricevendone onori:”qerapeuvwn aJvma kai; timwvmeno””[130]. Cornelio Nepote afferma che Alcibiade conquistò Farnabazo a tal punto con la sua signorilità che nessuno lo superava nell’intrinsichezza con il satrapo:”quem quidem adeo sua cepit humanitate, ut eum nemo in amicitia antecederet “[131].
Attraverso l’humanitas riconosciamo in Alcibiade un altro aspetto del dandy di Baudelaire:”Che questi uomini si facciano chiamare raffinati, zerbinotti, bellimbusti, l’ions o dandys, tutti derivano da una medesima origine; tutti partecipano del medesimo carattere di opposizione e di rivolta; tutti sono dei rappresentanti di ciò che vi ha di meglio nell’orgoglio umano, di questo bisogno, troppo raro presso gli uomini di oggi, di combattere e distruggere la trivialità”[132]. Andrea Sperelli del Piacere di D’Annunzio può trovare un antenato in Alcibiade, soprattutto in quello della decadenza:”il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio…. Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le passioni gravitano”[133]. L’esteta di D’Annunzio pensa di sé:”Io sono camaleontico , chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l’unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch’io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC . Sia fatta la volontà della legge”[134]. Plutarco aveva scritto di Alcibiade che per accalappiare le persone era capace di imporsi trasformazioni più rapide e radicali del camaleonte (“ojxutevra”…tropa;” tou’ camailevonto””), il quale infatti non è creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di assumere il colore bianco, mentre per quest’uomo, che passava con uguale disinvoltura attraverso il bene e il male, non c’era niente di inimitabile né di non provato:” jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw’n ijovnti kai; ponhrw’n oJmoivw” oujde;n h’jn ajmivmhton oujd& ajnepithvdeuton”: a Sparta viveva da sportivo (gumnastikov”), si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv”), perfino austera (skuqrwpov”); in Ionia invece appariva raffinato (clidanov”), gaudente (ejpiterphv”), indolente (rJav/qumo”); in Tracia si ubriacava (mequstikov”) e andava a cavallo ( iJppastikov”); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto e nel lusso la magnificenza persiana(“uJperevballen o[gkw/ kai; poluteleiva th;n Persikh;n megaloprevpeian”[135]). Insomma assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o per dirla con Cornelio Nepote era “temporibus callidissime serviens “[136] abilissimo nell’adattarsi alle circostanze.
Aspetti del carattere simile a questo e ad altri di Alcibiade, Cicerone attribuisce a Catilina nell’orazione Pro Caelio (del 56 a. C.) :” Illa vero iudices, in illo homine admirabilia fuerunt, comprehendere multos amicitia, tueri obsequio, cum omnibus communicare quod habebat, servire temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore corporis, scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare suam naturam et regere ad tempus atque huc et illuc torquere et flectere, cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum libidinosis luxuriose, vivere “. (13). Quei famosi aspetti invero, giudici, fecero stupire in quell’uomo: afferrare molti con l’amicizia e conservarli con la compiacenza, mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire incontro alle circostanze critiche di tutti i suoi amici con il denaro, la sua influenza, la fatica corporale, e se ce n’era bisogno anche con il delitto e l’ardimento, modificare la sua indole e indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e piegarla di qua e di là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali allegramente, con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i criminali temerariamente, con i libidinosi dissolutamente.
Alcibiade quindi anticipa Catilina, Sperelli, e anche l’esteta-seduttore di Kierkegaard , il seduttore sensuale ed estensivo, don Giovanni, “l’incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione della carne da parte dello spirito proprio della carne”[137] che vive di preda e ama “il casuale, l’accidentale”, poiché “il sensuale è il momentaneo. Il sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è raffinato, tanto più sa trasformare l’istante del godimento in una piccola eternità”[138].
Alcibiade del resto affascinava anche con la parola quindi rappresenta pure il seduttore intellettuale, quello intensivo che “si serviva degli individui soltanto come incitamento per gettarli poi via da sé, così come gli alberi si scrollano delle foglie: lui ringiovaniva, le foglie appassivanoL’attimo è bello e nell’attimo la donna è tutto, e di conseguenze io non me ne intendo”[139].
Tali uomini, don Giovanni e Faust, sono gli erotici. Essi capiscono che la donna è un inganno degli dèi, comprendono che ella desidera essere sedotta e loro vogliono godere dell’inganno senza essere ingannati:”Questi erotici sono i felici. Essi vivono in modo più voluttuoso degli dèi, perché banchettano sempre soltanto con ciò che è più pregiato dell’ambrosia e bevono ciò che è più soave del nettare. Essimangiano soltanto l’esca, senza essere mai presi. Gli altri uomini abboccano, nel modo in cui i contadini pranzano con l’insalata di cetrioli, e sono presi”[140].
Onorato dunque da Farnabazo per la sua finezza e la sua quasi illimitata capacità di piacere, Alcibiade al tramonto ha ancora modo di soddisfare la passione massima del dandy :” una specie di culto di se stesso, che può sopravvivere alla ricerca della felicità che si trova negli altri, nella donna, per esempio; che può sopravvivere anche a tutto ciò che si chiama illusione. E’ il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati. Un dandy può essere uno scettico, può essere un uomo sofferente, ma, in quest’ultimo caso, egli sorriderà come il lacedemone morsicato dalla volpe”[141].
Intanto gli Ateniesi, oppressi dalla tirannide dei Trenta, capivano, mentre piangevano ripensando agli errori commessi e alle proprie follie, la più grande delle quali consideravano la seconda ira contro Alcibiade (“wJ’n megivsthn ejpoiou’nto th;n deutevran pro;” jAlkibiavdhn ojrghvn”[142]). Allontanandolo di nuovo per una colpa non sua, si erano privati del comandante migliore, un uomo dissoluto, ma capace e insostituibile come stratego. Qui viene in mente un altro esteta antico, il Petronio di Tacito che come proconsole in Bitinia, poi come console “vigentem se ac parem negotiis ostendit “[143], si rivelò energico e all’altezza dei suoi compiti.
La fiducia nelle capacità di Alcibiade anzi era così forte che nei suoi concittadini rimaneva una vaga speranza che la potenza di Atene non sarebbe andata del tutto perduta fino a quando quell’uomo geniale fosse stato vivo. Già una volta, pensavano gli Ateniesi, Alcibiade li aveva aiutati, e se ne avesse avuto le possibilità, lo avrebbe fatto ancora. Né questo sognare dei più era assurdo (“a[logon”[144]), se anche i Trenta si preoccupavano di lui e davano la massima importanza a ciò che egli faceva. I tiranni diretti da Crizia erano i nemici naturali del nostro esteta, in quanto uomini volgari; una volgarità messa bene in rilievo da Lisia quando, nell’orazione Contro Eratostene, racconta come Melobio, uno dei Trenta, appena entrato in casa di Polemarco, strappò gli orecchini d’oro dalle orecchie di sua moglie (“gunaiko;” crusou'” eJlikth’ra”…Mhlovbio” ejk tw’n w[twn ejxeivleto”[145]).
Sappiamo da Tucidide che Alcibiade non faceva a meno del denaro e dei beni materiali, anzi egli aveva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze (VI, 15, 3); ma i miseri quattrini per lui erano solo un mezzo. Diamo ancora la parola a Baudelaire:” Se ho parlato del denaro, è perché il denaro è indispensabile a coloro che si fanno un culto delle loro passioni; ma il dandy non aspira al denaro come a una cosa essenziale; un credito indefinito gli potrebbe bastare: egli lascia volentieri questa banale passione agli uomini volgari”[146]. Costoro non si intendono di bellezza che si manifesta attraverso la semplicità di cui Alcibiade si dimostrò capace quando viveva a Sparta, primeggiando anche in quella energica, sobria, frugale semplicità ( eujtevleia) che del resto faceva parte pure dello stile alto degli Ateniesi come ebbe a dire il Pericle di Tucidide (II, 40, 1).
Anche questo aspetto della distinzione ateniese, e di Alcibiade, trova una corrispondenza nel dandy baudelairiano:”il dandismo non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell’eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi, desiderosi sopra tutto di distinzione , la perfezione della toeletta consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior modo di distinguersi“[147]. Altrettanto afferma Tacito del suo elegantiae arbiter [148], come abbiamo visto. Abbiamo pure visto che il collegamento semplicità-aristocrazia viene fatto anche da diversi autori moderni.
Alcibiade preoccupava Crizia che lo conosceva bene per essere stato suo condiscepolo alla “scuola” di Socrate, e perciò mise in allarme gli Spartani che pure non ne ignoravano le capacità.
Sicché Lisandro, il vincitore della grande guerra fratricida del Peloponneso, ricevette l’ordine di eliminarlo da parte degli efori, sia che volessero fare cosa gradita ad Agide, sia che pure loro ne temessero l’intelligenza e l’attitudine per le cose grandi:” ei[te kajkeivnwn fobhqevntwn th;n ojxuvthta kai; megalopragmosuvnhn tou’ ajndrov””[149] . Il dandy moderno è antidemocratico ed è visto con sospetto dalla democrazia che tutto livella:”Ma purtroppo la marea crescente della democrazia, che tutto invade e tutto pareggia, avvolge nell’oscurità giorno per giorno questi ultimi rappresentanti dell’orgoglio umano e versa fiotti di oblio sulle tracce di questi prodigiosi mirmidoni”, afferma Baudelaire[150]; e D’Annunzio ne Il piacere denuncia “il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente”; un nubifragio sotto il quale “va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte” (p. 38). Alcibiade fu allontanato due volte dal popolo, che pure lo considerava stratego straordinario come abbiamo visto, poi venne combattuto dagli oligarchi e perseguitato dai Trenta tiranni. Agli uomini eccezionali invero nessun regime è favorevole poiché tutti hanno una componente tirannica e tendono a livellare le teste secondo il suggerimento di Trasibulo, tiranno di Mileto a Periandro tiranno di Corinto:” oiJ uJpetivqeto Qrasuvboulo” tou;” uJperovcou” tw’n ajstw’n foneuvein “[151], gli suggeriva di ammazzare quelli che si distinguevano tra i cittadini.
Non tutta la letteratura è favorevole agli uomini straordinari.
Nelle Baccanti di Euripide il Coro nel Primo Stasimo canta che Dioniso odia chi non si prende cura di tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari:'”ajpevcein prapivda frevna te;;;;;;-perissw’n para; fwtw’n”(vv.427-428).
Nell’Antigone è Ismene, la sorella in un primo tempo timorosa e sottomessa agli ordini di Creonte ad affermare:”obbedirò a coloro che sono arrivati al potere. Infatti il/fare cose straordinarie (to; ga;r perissa; pravssein) non ha senso, proprio nessuno” (vv. 67-68)-
In Delitto e castigo di Dostoevskij, “gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un pò, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d’essere straordinari” (p.290). Di questi vorrebbe far parte il giovane assassino Raskòlnikov il quale afferma che :”Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e via discorrendo, tutti sino all’ultimo sono stati dei delinquenti, già per il semplice fatto che ponendo una nuova legge, per ciò stesso infrangevano la legge antica, venerata dalla società e trasmessa dai padri; inoltre certamente non si arrestarono nemmeno dinanzi al sangueVale anzi la pena di osservare che la maggior parte di questi benefattori e fondatori della società umana furono dei terribili spargitori di sangue. Insomma, io dimostro che tutti gli uomini, e non solamente i grandi, ma anche quelli che escono sia pur di poco dalla comune carreggiata, che sono cioè, in qualche misura, capaci di dire qualcosa di nuovo, devono immancabilmente, per la loro stessa natura, essere (più o meno s’intende) dei criminali”. Ma questo ragazzo che per dimostrare la sua straordinarietà ammazza due vecchie deve riconoscere di non essere fatto della quella pasta di quegli uomibi e di essere solo “un pidocchio estetizzante”[152].
Sbaglia anche il Duvskolo” Cnemone di Menandro quando non vuole essere considerato uno dei tanti:”nomivzeq& eJvna tina;/oJra’n me tw’n pollw’n”(484-485), fate conto di vedere in me uno dei tanti se non do un esempio per tutti quanti vengono a disturbarmi, esclama arrabbiato. Ma più avanti anche lui si ricrederà. Viceversa Moschione, irresoluto ma non disonesto, nel monologo iniziale della Samia si presenta come uno dei tanti:”tw’n pollw’n ti” w[n”(v. 11).
Nella letteratura russa c’è l’abulico Oblomov , l’archetipo dell’inetto Zeno, che non sopporta di essere confuso con “gli altri” e ha un ecceionale scatto autoritario quando il servo Zachàr osa dire:”Io pensavo che gli altri non sono peggio di noi e cambiano casa”, ripeté con orrore:”Gli altri non sono peggio!..ecco cosa sei arrivato a dire! Adesso lo so che sono per te un qualunque altro!” . Quindi:”Vattene! Non ti voglio più vedere!” esclamò Oblomov imperiosamente, indicando l’uscio. “Ah! Gli altri! Gli altri, benissimo![153].
Tra le tante espressioni favorevoli agli uomini straordinari ne riporto una di Seneca:”fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unumiste homo non est unus e populo, ad salutem spectat ” (epist., 10, 1 e 3), evita la folla, evita la compagnia di poche persone e anche quella di una solaquesto non è uno dei tanti, mira alla salvezza dell’anima.
Infine Madame Bovary detesta la mediocrità del marito in tutte le manifestazioni di lui, comprese quelle erotiche:”si persuase facilmente che nella passione di Charles per lei non vi era nulla di eccessivo” ; quindi si ripeteva:”Dio mio, ma perché mai mi sono sposata?” (p. 36).
Straordinario fu Alcibiade, e fece paura anche ai suoi stessi compagni di partito: aveva passioni più grandi di quanto consentissero le sue ricchezze, sia per l’allevamento dei cavalli, sia per le altre spese, e molti lo temevano per le sue stravaganze, per la grandezza e l’eccentricità delle sue vedute, ci racconta Tucidide[154]. D’Annunzio ricorda questa descrizione di antimediocrità quando in Maia gli pone la domanda:”E qual gioia/ti parve più fiera?”, quindi gli attribuisce la risposta:”La gioia/d’abbattere il limite alzato“.
Allora Lisandro mandò un messaggio a Farnabazo il quale incaricò del misfatto alcuni parenti suoi. Alcibiade ebbe dei sogni premonitori, ma, lo abbiamo imparato da Tacito e ancor più dall’esperienza personale, ” quae fato manent , quamvis significata, non vitantur “[155], ciò che spetta al destino, sebbene rivelato non si evita.
Le versioni della sua morte sono due: in ogni caso egli morì con una donna e per fuggire alle fiamme che possono evocare la sua vita tumultuosa. Chi fosse questa donna, non ha importanza. Fu certo l’ultima di una serie molto lunga comprendente etere, schiave prigioniere di guerra, ragazze di buona famiglia e regine, come la moglie del re spartano Agide, sedotte tutte dalla “genialità della sensualità”, dalla “potenza demoniaca della sua sensualità“[156] si può dire di lui come fa Kierkegaard di Don Giovanni, l’erotico che mangia l’esca senza farsi all’amo.
Questa volta però Alcibiade si lasciò prendere; forse perché egli tendeva non solo al piacere ma anche al potere[157], e se il primo scopo,con qualche sforzo, poteva ancora raggiungerlo, il secondo oramai gli era sfuggito per sempre.
Plutarco dunque racconta che, secondo alcuni, i sicari diedero fuoco alla casa dove egli abitava, in Frigia, con l’etera Timandra. Alcibiade si lanciò fuori e gli assassini, non osando avvicinarsi, lo colpirono vilmente da lontano, finché la vittima designata cadde. Timandra, nei limiti delle sue possibilità, gli diede onorevole sepoltura. In questa versione c’è una donna, una cortigiana che si occupa delle esequie del seduttore. Nell’altra, la presenza femminile è la causa della morte di questo don Giovanni antico. “Sua passion predominante”, si ricorderà il libretto di Da Ponte, “è la giovin principiante”[158].
Ebbene il figlio di Clinia avrebbe sedotto una ragazza di buona famiglia e i fratelli di lei, non sopportando l’offesa, diedero fuoco alla casa e lo uccisero mentre ne saltava fuori attraverso il fuoco (“dia; tou’ puro;” ejxallovmenon”,Vita di Alcibiade , 39, 9). Queste fiamme mi danno l’occasione per un’ultima citazione di Baudelaire:”il carattere della bellezza del dandy consiste soprattutto in quell’aria fredda che gli viene dalla ferma risoluzione di non commuoversi; si direbbe un fuoco latente che si lascia indovinare, che potrebbe ma non vuole divampare”[159]. Anche Don Giovanni, alla fine dell’opera, scompare nel fuoco:”Da quel tremore insolito…/Sento…assalir…gli spiriti…/Donde escono que’ vortici/ di foco pien d’orror!…Cresce il fuoco, compariscono diverse furie, s’impossessano di Don Giovanni, e seco lui sprofondano”[160]. Quella exacerbatio cerebri di cui parla S. Kierkegaard nel Diario del seduttore [161], o piuttosto quel fuoco interno, prima di spegnersi, fuoriesce, divampa e uccide l’uomo. Cornelio Nepote ci informa che allora egli aveva circa quarant’anni (“Alcibiades circiter quadraginta natus diem obiit supremum “[162]), ma nel 404 doveva averne qualcuno di più. Stava comunque declinando quella sua giovinezza e follia che sembrava essere oltre i limiti naturali”(hJ ejmh; neovth” kai; a[noia para; fuvsin dokou’sa ei’jnai”[163] ) vantata da lui stesso di fronte al popolo prima della spedizione in Sicilia. Alcibiade aveva fatto “della giovinezza il proprio cavallo di battaglia”[164]. Viene da pensare che un personaggio come Alcibiade, il giovane leone allevato[165] in casa dell’altro leone[166] che aveva fatto di Atene la scuola dell’Ellade[167], non potesse sopravvivere né alla potenza di Atene né alla propria giovinezza. Lord Henry avrebbe potuto rivolgere anche a lui, nei momenti d’oro ricordati da Tucidide, le parole dette a Dorian Gray:”Sì, gli dèi furono benigni con voi, Gray. Ma gli dèi, dopo breve tempo rivogliono i loro doni. Avete soltanto pochi anni da vivere veramente. Quando la vostra gioventù se ne sarà andata, avrete perduto anche la vostra bellezza, e vi renderete conto d’un tratto che non ci sono più vittorie per voi, o che dovete accontentarvi di quelle banali vittorie che la memoria del vostro passato renderà più amare delle sconfitte. Ogni mese che passa vi avvicina a qualche cosa di orrendo. Il tempo è geloso di voi, e si accanisce sui vostri colori di giglio e di rosa. Le vostre tinte appassiranno, le guance si faranno cave, si appannerà il vostro sguardo. Soffrirete tremendamente…Godete della vostra giovinezza finché la possedete! Non sprecate il tesoro dei vostri giorni ascoltando la gente noiosa, cercando di consolare i predestinati all’insuccesso, donando la vostra vita agli incolti, ai mediocri, ai volgari…Vivete! Vivete la meravigliosa vita che è in voi! Nulla deve andar perduto per voi. Cercate continuamente nuove sensazioni. Non abbiate paura di nulla…Un nuovo edonismo! Di questo ha bisogno il nostro secolo. Potreste esserne il simbolo visibile. Nulla è vietato alla vostra persona. Il mondo è vostro, per una stagione…Perché la vostra gioventù durerà un tempo così breve-così breve! Gli umili fiori di prato avvizziscono, ma rifioriranno ancora. Quest’altro giugno l’acacia sarà d’oro, come è ora…Ma noi non torniamo mai alla nostra giovinezza. L’onda di gioia che pulsa in noi a vent’anni, si fa tarda. Le membra non ci ubbidiscono più, i sensi si consumano. Diventiamo ripugnanti fantocci, perseguitati dal ricordo delle passioni di cui abbiamo avuto timore e delle squisite tentazioni alle quali non avemmo il coraggio di cedere. Gioventù! Gioventù! Non c’è nulla al mondo che valga la giovinezza!”[168].
Probabilmente fu per non sopravvivere agli ultimi bagliori della sua giovinezza, per non arrivare all’età del Casanova di Arthur Schnitzler il quale “a cinquantatre anni, quando “il fulgore interiore ed esteriore andava lentamente spegnendosi” era “spinto a vagare per il mondo non più dal giovanile piacere dell’avventura, ma dall’inquietudine dell’avanzante vecchiaia”[169] che Alcibiade volle morire in quell’ultimo fuoco, lanciato per l’ultima volta dall’ Eros fulminatore[170] che si era fatto incidere sullo scudo invece degli stemmi gentilizi.
Segue, nell’Eneide , il punto di vista della regina che è opposto a quello di Enea. Appena sveglia Didone si accorge dell’abbandono, si infuria e vorrebbe attaccare il fuoco, che la divora, a Enea, per distruggerlo:”ferte citi flammas, date tela, impellite remos! ” (v. 594), portate, svelti le fiamme, spiegate le vele, spingete i remi! Per lei le azioni di Enea sono tutt’altro che pie:”nunc te facta impia tangunt? ” (v. 596), soltanto ora ti colpiscono le scelleratezze? domanda a se stessa.
Quindi torna la denuncia della perfidia:”En dextra fidesque! ” (v. 597), ecco la fedeltà dell’impegno! C’è il rimpianto di non avere usato il suo fuoco per provocare una conflagrazione generale:”faces in castra tulissem/implessemque foros flammis [171] natumque patremque/cum genere extinxem[172], memet super ipsa dedissem ” (vv. 604-606), avrei potuto portare le fiaccole nell’accampamento, e riempire di fiamme le corsie delle navi e il figlio e il padre annientare con tutta la razza, e me stessa avrei potuto gettare sopra di loro. Se non nella vita potevano essere uniti almeno nella morte.
Segue una maledizione per la cui attuazione sono chiamate a raccolta potenze celesti e infere. Anzitutto il sole:”Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras ” (v. 607), Sole che con le tue fiamme rischiari tutte le opere della terra. Il sole che vede tutto come divinità suprema è un tovpo” della letteratura greca che prosegue in quella europea[173].
Gli altri numi invocati sono Giunone, la dea pronuba che è stata “interpres curarum et conscia ” (v. 608), intermediaria e al corrente delle pene di Didone; Ecate, la divinità infernale “nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes ” (609) invocata a ululati nei trivi notturni per le città; Hecate triformis torna nella preghiera nera della Medea di Seneca (v. 7): ” Un po’ tutta Didone è una filigrana di Medea”.
Vengono poi chiamate le Furie vendicatrici e tutti gli dèi di Elissa morente “Dirae ultrices et di morientis Elissae” (v. 610). La regina li prega di rivolgere prima o poi la loro potenza contro quell’infandum caput (v. 613) quella testa esecranda, abominevole.
Questo è una altro tovpo” interessante: l’uomo è la sua testa. Ricorro ancora all’Antigone il cui primo verso fa:” w’j koino;n aujtavdelfon jIsmevnh” kavra”, o capo davvero fraterno di Ismene, sangue mio.
L’espressione non è una perifrasi qualsiasi, né una semplice sineddoche come annotano i commenti rammentando anche, di solito, ” il sacro capo/ del tuo Parini” di Foscolo[174].
La testa significa l’acropoli della persona: un’immagine coniata da Platone[175], e ripresa da Cicerone nelle Tusculanae disputationes :”Plato…rationem in capite sicut in arce posuit ” (I, 10), Platone collocò la ragione nel capo come in una rocca.
Di tale termine nel senso pregnante qui indicato, Sofocle fa largo uso (p. e. Edipo re , vv. 40, 950, 1207,1235), sempre in momenti critici, per segnalare che si vuole chiamare in causa la parte più importante e significativa dell’uomo.
Al capo, e al viso ci si rivolge per ottenere la comprensione o l’intelligenza senza la quale tutto diviene doloroso. E’ l’espressione del volto, e in questo particolarmente degli occhi, che suscita sentimenti forti e duraturi. Abbiamo visto che Thomas Mann ne La montagna incantata spiega l’amore del protagonista per una compagna di sanatorio come attrazione quasi esclusiva per il volto quale portatore della spiritualità della persona. La testa di Enea ha suscitato prima l’amore e l’adorazione, quindi l’esecrazione e l’abominio dell’amante abbandonata. Sfrondando l’intellettualismo che secondo Saul Bellow[176] soffoca La montagna incantata , l’idea è la stessa in Virgilio e in T. Mann.
La testa anche odiosa, oppure indebolita e portatrice di significati poveri, significa pur sempre la quintessenza dell’uomo.
Per esempio, nell’Odissea , Ulisse per evocare i morti supplica molto le loro teste esangui ( polla; de; gounouvmhn nekuvwn ajmenhna; kavrhna, XI, 29). Queste sono svigorite e dotate di coscienza solo crepuscolare, eppure continuano a rappresentare persona.
Didone dunque si uccide maledicendo Enea gli augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra, la morte prematura e la mancanza del sepolcro in mezzo alla sabbia:”sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena ” (v. 620)
Vengono prefigurate le guerre puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi:”nullus amor populis nec foedera sunto ” (624), nessun amore né alleanza ci sia mai tra i due popoli, secondo la disposizione testamentaria della regina.
Quindi viene evocata la figura di Annibale:”exoriare [177] aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempora vires ” (vv. 625-627), sorgi tu dalle mie ossa, un vendicatore che segua col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, in avvenire, in qualunque momento si offriranno le forze. Questa grande fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra contro i Romani di quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una definizione di G. De Sanctis. Quindi, sempre nell’auspicio di Didone, “la lotta mortale si amplia in un quadro grandioso, che coinvolge gli uomini, la storia, la natura. Il quadro è solennemente semplificato dalla concisione espressiva, di gusto, si direbbe, tacitiano, che con l’accostamento di ciascun acc. al suo dat. fa risaltare terribilmente la lotta e il suo carattere implacabile[178]“: “Litora litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque ” (vv. 628-629), auguro che i lidi contro i lidi, le onde contro i flutti, le armi contro le armi combattano loro stessi e i discendenti. L’ultimo verso (629) è ipermetro”l’ultima sillaba, -que , è in più e si elide con la prima del verso seguente, haec . Giustamente gli interpreti hanno cercato una funzione espressiva nella eccezionalità metrica. Con più finezza di tutti il Pascoli sente che il verso “esprime il traboccare e qualche cosa che non ha fine”…La guerra continua in un futuro infinito, infinito come l’odio prorompente, traboccante della regina”[179].
Interessante è anche il v. 631 dove Virgilio dice che Didone cercava di spezzare al più presto la luce odiosa (” invisam quaerens quam primum abrumpere lucem ” ).
E’ possibile ravvisare l’antitesi della morte cercata dall’uomo dotato di grandezza eroica (“ta; hJrwika; megevqh”) che l’Anonimo Sul Sublime (IX, 10) individua nell’Iliade riportando una preghiera di Aiace il quale chiede a Zeus di morire nella luce per vedere ed essere visto mentre compie qualche nobile impresa:
“Zeu’ pavter (fhsivn), ajlla; su; Jru’sai uJp& hjevro” ui’Ja” jAcaiw’n,-poivhson d& ai[qrhn, do;” d& ojfqalmoi’sin ijdevsqai:-ejn de; favei kai; o[lesson”(Iliade , XVII, 645-647), Zeus padre (dice), libera dalla caligine i figli degli Achei, fai il sereno, concedi agli occhi di vedere: poi nella luce annientaci pure. Aiace, commenta l’Anonimo, nella luce cerca una possibilità di impiegare il suo valore per trovare in ogni modo un sudario degno della sua virtù (“wJ” pavntw” th'” ajreth'” euJrhvswn ejntavfion a[xion”, IX, 10) e morire kalw'” nobilmente.
Anche negli Annales di Ennio c’è un combattente che muore cercando la luce con gli occhi:”Oscitat in campis caput a cervice revulsum,/semianimesque micant oculi lucemque requirunt ” (vv. 483-484 Skutsch) apre la bocca nei campi la testa staccata dal collo, e semivivi brillano gli occhi cercando la luce.
Del resto non solo gli occhi dell’eroe o del milite gregario, ma quelli dell’uomo comunque “cercan morendo-il Sole[180]“; così il moribondo di Foscolo; così Osvald che alla fine degli Spettri di Ibsen invoca il sole.
Didone invece vuole spezzare la luce: sale furibonda i gradini del suo alto rogo e snuda la spada di Enea, dono richiesto non per questo uso: ” altos /conscendit furibunda rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus ” (vv. 646-647). Non è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle tracce di Freud:” Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato all’erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali, picche”[181]. A maggior ragione questa spada nata come segno d’amore.
Meno malizioso del mio il commento di Conte:”A conclusione di una serie di azioni dal ritmo serrato, viene ora il gesto di sguainare la spada appartenuta all’eroe troiano: il narratore puntualizza che si tratta di un dono dei momenti felici dell’amore (e che la notazione rivesta una qualche importanza ce lo dice già la cura formale del passo, dove un iperbato si accavalla a un’anastrofe in uno spazio davvero ristretto). Bene: noi sappiamo che in ogni racconto c’è una sorta di legge, quella della motivazione compositiva, per cui nessun oggetto deve rimanere inutilizzato e nessun episodio deve restare senza conseguenze: succede così che questo oggetto, regalato un tempo come segno d’amore, diventa ora-inevitabilmente-strumento di morte per chi lo ha ricevuto. E’ il motivo dei doni fatali a chi li riceve, sviluppato dalla tragedia greca e però già noto in Omero: Aiace si uccide con la spada regalatagli da Ettore”[182].
Didone si uccide conservando comunque il senso della propria grandezza poiché se non è possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una forma o in un’altra, la grandezza dell’eroismo:”Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub terras ibit imago ” (vv. 653-654), ho vissuto e compiuto il percorso che la Fortuna mi aveva assegnato, e ora grande l’ombra mia andrà sotto terra. Magna ha valore predicativo.
La Fortuna
La fortuna corrisponde alla Tuvch la cui presenza è molto forte in gran parte della letteratura ellenistica, cominciando anzi da Euripide con il quale si trasformano o tramontano gli dèi tradizionali, mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua, cangiante e capricciosa: l’infausta tuvch è subentrata ai fausti dèi. La regina protagonista dell’ Ecuba la considera una dei tiranni di un’umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste, sanguinarie, idolatre:”non c’è tra i mortali chi sia libero:/infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte”(vv. 864-865). L’uomo cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla fortuna. La sua salvezza e la sua libertà stanno nel considerarla con calma ironica.
Nello Ione , che prelude più di ogni dramma di Euripide alla commedia di Menandro, il riconoscimento del figlio da parte della madre avviene per casi fortuiti, per mezzo di questa tyche oramai spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è costantemente maligna: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre le rivolge un’apostrofe:”O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li getti nella sventura, poi doni loro il successo/ Tuvch…”(vv.1512-1514). La Fortuna è pure la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato il giovane ricco che vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella, risponde all’ obiezione del padre:”Non voglio prendermi insieme un genero e una nuora pezzenti”(v. 795), con l’affermazione che tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo ma della Sorte che, come ha dato, può togliere.
Polibio nelle sue Storie torna spesso a parlare della Fortuna indicandola quale grande potenza che manovra le vicende umane a proprio arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re macedone sconfitto e umiliato, ed esortava i presenti a non esaltarsi troppo per i successi a non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e, in generale, a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente (“mhvte kaqovlou pisteuvein mhdevpote tai'” parouvsai” eujtucivai””, XXIX 20 1). L’ammonizione finale di Emilio Paolo è interessante e può tornare utile a chi non vaneggia: La differenza tra gli imbecilli e i saggi consiste nel fatto che i primi imparano a spese degli insuccessi propri, gli altri a spese del prossimo (“tou’to ga;r diafevrein e[fh tou;” ajnohvtou” tw’n nou’n ejcovntwn, diovti sumbaivnei tou;” me;n ejn tai'” ijdivai” ajtucivai” paideuvesqai, tou;” d& ejn tai'” tw’n pevla””, XXIX 20 4). Si può aggiungere che i veri imbecilli non imparano mai.
Polibio ricorda anche le parole di Demetrio Falereo, scrittore, filosofo peripatetico e uomo politico che governò Atene per Cassandro dal 317 al 307. Ebbene egli scrisse un trattato Sulla Tyche , e dalla distruzione dell’impero persiano da parte di Alessandro inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che tutto continua a mutare contro ogni nostro calcolo (“panta para; to;n logismo;n to;n hJmevteron kainopoiou’sa”, XXIX 21, 5).
Nel libro XXIII lo storiografo di Megalopoli, riflettendo sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde battuto, più che dai Messeni, dalla Fortuna la quale può sostenere un essere umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono coloro che, raramente abbandonati dalla Fortuna, anche se quella una volta cambia parere, subiscono disavventure di modesta entità (“ka[n pote metanoh’/, metrivai” peripesovnta” sumforai'””, 12, 6).
Un altro esempio di mutevolezza della Fortuna Polibio lo ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra Punica nel Peloponneso furono rimesse alla luce(“eij” to; fw'””) le statue dello stratego Licorta[183] e riposte al buio (“kata; to; skovto””, XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi si capì che la funzione della Tyche è quella di rovesciare le situazioni e sottomettere i legislatori alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui invero la Fortuna non sembra indifferente alla Giustizia. Un’ultima riflessione polibiana sulla Fortuna si trova nella conclusione delle Storie dove l’autore si augura di non cambiare condizioni né disposizione d’animo, dato che vede la Tuvch pronta a invidiare gli uomini e spiegare tutta la sua forza soprattutto nei casi in cui uno crede di avere conseguito il massimo della felicità e del successo nella vita . In quest’ultima riflessione la Fortuna sembra simile alla divinità erodotea la quale, invidiosa e perturbatrice (I, 32), non permette a Policrate di Samo, o a Creso di Lidia, o a Serse di Persia, di rimanere a lungo sui vertici della ricchezza e del potere.
Un riconoscimento dell’onnipotenza della Fortuna si trova nella Vita di Demetrio (35) di Plutarco il quale, a proposito delle alterne vicende del grande avventuriero, fa questo commento :”Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[184]: “Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi”.
La riflessione sulla mutevolezza della sorte non è soltanto ellenistica o post-euripidèa: si pensi al discorso di Solone a Creso in Erodoto quando il saggio ateniese dice al pacchiano re barbaro che l’uomo è del tutto in balia del caso (pa’n ejsti a[nqrwpo” sumforhv, I 32); oppure, risalendo ancora molto più indietro, si ricordi Archiloco il quale rivolge un’ammonizione “fatalistica” a se stesso in questi termini: animo (qumevv), animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini (“mh; livhn / givgnwske d& oi’Jo” rJusmo;” ajnqrwvpou” e[cei”, fr. 67aD. ) .
Passiamo alla letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome radicalizzandola nella consolazione indirizzata alla madre Elvia dall’esilio in Corsica[185]:”nec secunda sapientem ev?hunt, nec adversa demittunt” (Ad Helv. , 5, 1), i successi non esaltano il saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto ciò che viene dall’esterno e non dipende da noi è di poca importanza:”leve momentum in adventiciis rebus est “. Bisogna stare sempre all’erta contro gli attacchi della fortuna:”Illis gravis est, quibus repentina est: facile eam sust?net qui semper expectavit ” (5, 3), è terribile per quelli sui quali giunge imprevista: le resiste facilmente chi ne aspetta sempre l’attacco.
Tacito invece nelle Historiae ( I, 18), lo abbiamo visto, afferma che quanto spetta al destino non si evita nemmeno se veniamo preavvisati, mentre negli Annales Lo stesso storiografo del resto dichiara di non sapere se le vicende umane si svolgano regolate dal fato e da una necessità immutabile oppure vadano a caso:” mihi…in incerto iudicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur ” (VI, 22) .
Concludiamo con Il Principe : Nel penultimo capitolo Machiavelli volendo stabilire “Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere” attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla capacità dell’uomo: ” iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”[186]. Pertanto non bisogna “iudicare” che non si debba “insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte”. Infatti la fortuna”dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”.
Didone riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l’avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea :”Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,/ulta virum poenas inimico a fratre recepi:/heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae ” (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le nostre coste! “I tre perfetti statui, vidi, recepi scandiscono orgogliosamente le sue res gestaeUlta è participio congiunto con valore temporale, inimico a fratre anastrofe. L’esclamazione successiva felix, heu nimium felix è, in termini sintattici, l’apodosi ellittica del seguente periodo ipotetico dell’irrealtà”[187]
Il rimpianto della non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la tragica storia d’amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1 e ss.), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche , IV, 32-33), a quella di Ennio (246-9 Vahlen 2) e, con influenza chiaramente visibile, all’Arianna dell’opus maximum di Catullo”utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes ” (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso!
La versione virgiliana appare più semplice e più ricca di pathos.
“Un modo sottile di richiamare le proprie radici culturali è nella poesia di Virgilio quella che Pasquali ha chiamata “arte allusiva”. Il poeta, riecheggiando un passo o un verso o parte di un verso di un poeta greco o latino, presuppone che il lettore riconosca il passo riecheggiato e talvolta confronti l’originale colla rielaborazione di Virgilio, che talvolta innova e affina l’originale: infatti il poeta dell’età augustea non “imita”, ma “emula” i poeti da cui si ispira, gareggia con essi”[188].
Infine Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un annunzio di futuri danni:”Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis ” (661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e porti con sé i presagi della mia morte. Conte fa notare l’iperbato in enjabement di crudelisDardanus.
Quindi l’atto del suicidio:”Dixerat, atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus. It cl’amor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem” (vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta.
Vedremo che questo suicidio “per ferro” sarà imitato da Ovidio nei Remedia amoris (v. 19) quando il poeta di Sulmona vuole insegnare una via di uscita non all’amore comunque ma a quello per persone indegne, ossia portatrici di morte invece che di vita e di gioia.-spumantem: prefigura la schiuma di sangue che, secondo la profezia della Sibilla del sesto canto, arrosserà il Tevere:” Bella, horrida bella/et Thybrim multo spumantem sanguine cerno” ( vv. 86-87), guerre, guerre raccapriccianti e il Tevere spumeggiante di molto sangue io vedo.-bacchatur: al v.301 era la donna abbandonata che baccheggiava infiammata per la città messa in moto dalla Fama spietata, ora è la stessa Fama che, presa la fiaccola da Didone, smania attraverso Cartagine sconvolta.
La morte della regina prefigura la distruzione della sua città:”Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether,/non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum ” (vv. 667-671), gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l’etere risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o l’antica Tiro crollasse, entrati i nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.
Didone che muore furente preannunzia la fine del suo Stato per una sorta di responsabilità collettiva del capo e per l’assimilazione possibile della donna non solo alla terra, come abbiamo visto, ma anche alla città. Così una città può far pensare a una donna.
Lo afferma Tolstoj a proposito di Mosca:”Ogni russo, guardando Mosca, prova la sensazione di trovarsi al cospetto di una madre, ogni straniero, guardandola e ignorandone il carattere materno, deve però almeno sentirne la femminilità: questo accadde anche a Napoleone…”Una ville occupèe par l’ennemi ressemble à una fille qui a perdu son honneur ” pensava”[189].
In effetti anche la sorella Anna identifica la morte di Didone con la fine della città con il popolo e i maggiorenti:”Extinxti te meque, soror, populumque patresque/Sidonios urbemque tuam ” (vv. 682-683), hai annientato te e me, sorella, e il popolo e i patrizi sidoni e la tua città.-Extinxti: forma sincopata per extinxisti. “Populumque patresque: il Danielino afferma che qui si accenna alle parti in cui era ordinata la cittadinanza cartaginese (oltre alla regia potestas, populus e optimates), ma certo il nesso suggerisce al lettore di Virgilio anche il familiare S. P. Q. R., e dunque si tratta, come altrove, di un riferimento alla realtà romana”[190]. Si può quindi pensare alla costituzione mista.
Didone muore senza dire altre parole; invece è la ferita che stride profonda nel petto:”infixum stridit sub pectore volnus ” (v. 689). Le ferite spesso parlano: non sempre sono ” dumb mouths “[191] , bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. “Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste “intensità sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono “cicatrici”, ferite, che segnano la nostra vita”[192].
Gli occhi erranti cercano, finalmente, la luce e la donna manda un ultimo gemito quando l’ebbe trovata. L’episodio si conclude con parole, se non di speranza come il secondo coro dell’Adelchi , certo di pietà per la donna che ” nec fato merita nec morte peribat/misera ante diem, subito accensa furore “(v. 697), moriva né per il destino suo né per morte meritata, infelice, prima del tempo, accesa da un subitaneo furore.
Ancora fuoco e follia.
“Nonostante la presenza corale del popolo, nonostante l’affetto e l’assistenza affettuosa della sorella, Didone è sola nella sua infelicità. La profondità della sua ferita non può essere compresa né da Enea né dagli altri; e l’aggravarsi del dramma dall’innamoramento alla rottura, al maturare del disegno del suicidio, al suicidio stesso, è nello stesso tempo un accentuarsi della solitudine, l’ampliarsi di un allucinante deserto. In questo modo di interpretare e cantare l’amore Virgilio restava fedele a un filo costante della sua sensibilità: già nella seconda ecloga, già nelle Georgiche l’amore, questo furore cosmico irrazionale, è infelicità e solitudine: ciò resta vero e importante, anche se nell’Eneide può avere avuto il suo peso la considerazione che rappresentare l’amore come piacere e gioia era indegno della dignità epica e tragica”[193].
All’inizio del canto successivo (V), Enea voltandosi a guardare Cartagine dalla sua flotta che prende il largo[194] vede brillare le mura, ed egli con gli altri fuggiaschi, intuiscono, pur senza saperlo, che quei bagliori sinistri provengono dal rogo di Didone:” Quae tantum accenderit ignem causa latet ; duri magno sed amore dolores polluto notumque, furens quid femina possit ,/triste per augurium Teucrorum pectora ducunt ” ( vv. 5- 7),
è oscuro il motivo che ha acceso un fuoco così grande; ma inducono il cuore dei Teucri a un funesto presagio i tremendi dolori di un grande amore violato e il fatto che è noto di che cosa sia capace una donna sconvolta dalla passione. La fiamma dell’amore è diventata il fuoco del rogo.
Vediamo qualche altro caso, in letteratura, dove all’amore sono connessi, il fuoco tragico e distruttivo , la follia e la rovina.
L’amore che infiamma il Nerone di Tacito per Poppea (flagrantior in dies amore Poppeae , Annales , XIV, 1) sarà una delle cause che scateneranno il giovane imperatore spingendolo fino al matricidio. Agrippina a sua volta brucia, ma il suo ardor è smania di conservare il potere che è il fine (come per Alcibiade) mentre l’incesto è solo un mezzo:” Tradit Cluvius ardore retinendae Agrippinam potentiae eo usque provectam ut medio diei, cum id temporis Nero per vinum et epulas incalesceret, offerret se saepius temulento comptam et incesto paratam ” (Annales XIV, 2) Cluvio[195] racconta che Agrippina per smania di conservare il potere era arrivata al punto che in pieno giorno quando Nerone si scaldava col vino e il banchetto, si offriva a lui ubriaco diverse volte ornata in modo seduttivo e pronta all’incesto.
Anche Anna Karenina , la quale è un’adultera che inganna e tradisce un marito vivo, è collegata al fuoco nelle varie fasi del suo amore:”Il suo viso splendeva d’un vivido fulgore, ma questo fulgore non era allegro: ricordava il fulgore terribile di un incendio in mezzo a una notte oscura; vedendo il marito, sollevò la testa e, come svegliandosi, sorrise”[196]. Questa è la fase ascendente della sua relazione con Vronskij. Alla fine, nell’epilogo tragico la fiamma diventa quella di un cero funebre:”E la candela alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era nell’oscurità, crepitò, cominciò a offuscarsi e si spense per sempre” (p. 772).
Il fuoco amoroso di Orazio invece si spegne amabilmente, nel canto di Fillide, l’ultima fiamma, che manda un calore già lontano :”Age iam, meorum/finis amorum./(Non enim posthac alia calebo/femina),condisce modos, amanda/voce quos reddas; minuentur atrae/carmine curae ” (Odi , IV, 11), su, estremo dei miei amori, (infatti non brucerò più per altra donna), impara bene i ritmi da ripetere con voce amabile; si schiariranno con i versi i foschi affanni.
Torniamo al tema della ferita. E’ notevole che nel V canto volnus è conseguenza di una gara cruenta di pugilato:”duro crepitant sub volnere malae ” (v. 436), crepitano le mascelle sotto i colpi cruenti. Si possono accostare i due diversi tipi di ferita pensando al fr. 27D. di Anacreonte (-pro;” [Erwta puktalivzw”, voglio fare a pugni con Eros.
Passiamo al VI canto. La regina si trova tra coloro “quos durus amor crudeli tabe peredit ” (442) che un amore spietato divorò con consunzione crudele. Neanche la morte basta a dissolvere la sofferenza d’amore degli umani:”curae non ipsa in morte relinquont ” (v. 444), gli affanni neppure nella morte li lasciano. e vediamo che il volnus di Didone non si cicatrizza nemmeno dopo il suicidio :”recens a volnere Dido-errabat silva in magna ” (VI, 450-451, Didone errava nella gran selva, con la ferita fresca. L’accoppiata recens vulnus è utilizzata da Seneca nella Consol’azione indirizzata Ad Helviam Matrem (del 42 d. C.) dall’esilio in Corsica:”Gravissimum est ex omnibus quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor ” (III, 1), la più grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo corpo, lo ammetto, è la ferita recente. Enea vede l’ex amante suicida come immagine sfocata:”Quam Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,/demisit lacrimas dulcique adfatus amorest ” (vv. 451-455), appena l’eroe troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, oscura, come chi all’inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore. L’immagine ha il suo modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese (Le Argonautiche , IV, 1478-1480). Eracle è l’eroe tradizionale del poema, contrapposto a Giasone: ebbene questa immagine “che verrà splendidamente reimpiegata da Virgiliosuggella definitivamente l’irrecuperabilità di Eracle all’universo argonautico”[197].
Enea cerca di scusarsi dicendo che lui non voleva (invitus ) ma sono stati gli ordini degli dèi (iussa deum ), gli stessi che lo costringono (cogunt ) ad attraversare le ombre, a spingerlo con la loro autorità suprema (imperiis egere suis ); egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la partenza. L’eroe fa un discorso imbarazzato (456-466) con il quale tenta di mitigare la donna ancora ardente e cerca di spengere quel fuoco con le proprie lacrime:”Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque ciebat “, vv. 467-468), con tali parole Enea cercava di placare l’animo infiammato che biecamente guardava e faceva cadere le lacrime.
“L’humanitas di Enea ha nel IV libro dei forti limiti che solo nell’incontro con Didone nell’oltretomba…saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo ciò che l’amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in cui l’humanitas sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un destino ormai compiuto per l’eternità non sarà allora neppure pensabile…l’estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso”[198].
La donna “che s’ancise amorosa”[199] non perdona l’amante che l’ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: “Illa solo fixos oculos aversa tenebat “, v. 469, quella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall’altra parte. Eliot nel silenzio di Didone riconosce “il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia” e “non soltanto uno dei brani più commoventi , ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia”[200]. Possiamo accostare a questo rancore muto quello del suicida Aiace nei confronti di Ulisse nell’XI canto dell’Odissea (vv. 542-564).
In effetti non si può manifestare un’ostilità più radicale e nello stesso tempo più educata che opponendo il silenzio ai vani tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.
L’interpretazione pur troppo diffusa dell’amore inteso come rovina massima, piaga e fuoco interni deleteri più di ogni altra ferita e fiamma esterna, viene utilizzata dagli scrittori cristiani e si trova concentrata in un episodio della vita di San Benedetto, una delle Vite dei Santi Padri del domenicano di Pisa Domenico Cavalca (circa 1270-1342). Il pio autore sostiene che all’incendio erotico e al trauma mentale dell’amore sono da preferire le ustioni e le “punture del corpo” e che anzi è consigliabile infliggersi da solo queste per spengere quelle. L’ episodio che riferisco qui di seguito potrebbe inserirsi anche nei Rimedi contro l’amore che tratteremo più avanti ma lo pongo dopo Didone per mostrare quale danno perpetuo e quante altre vittime abbia fatto la grande calunnia nei confronti della gioia più profonda e sublime che gli dèi abbiano concesso al genere umano:”una volta avea Benedetto nel secolo[201]veduto una bella femina; la quale lo nimico li ridusse alla memoria, e formòlli in tal modo nella memoria e immaginazione la bellezza di questa femina, e di tanto fuoco gli accese l’animo, che la fiamma dello amore appena gli capea nel suo petto[202]; e quasi poco meno che vinto di disordinato amore, deliberava di lassare lo eremo. E subitamente soccorso dalla grazia d’Iddio, tornando a se medesimo e vergognandosi, vedendo quivi appresso uno grande spineto e orticheto, spogliandosi ignudo, gittòssi fra quelle spine e ortiche e, quivi poi che fu voltato un buono pezzo, tutto sanguinato e ferito n’uscì. E così per ferite del corpo guarì della ferita della mente, perciò che la voluttà trasse in dolore[203]; e ardendo penosamente per le punture del corpo di fuori, spense il fuoco che illicitamente ardea dentro. Vinse dunque lo peccato perché mutò incendio. E da quel tempo innanzi fu in lui ogni tentazione di carne domata; ché, secondo che elli dicea poi alli suoi discepoli, niun tale disordinamento poi sentì”[204].
L’amore nelle Bucoliche e nelle Georgiche . Teocrito e il sentimento della natura.
Nell opere precedenti all’Eneide Virgilio fa bruciare, soffrire e lottare per amore non solo gli uomini e le donne, ma anche gli animali che sono omologati agli umani nel patimento amoroso.
Fanno eccezione le api che hanno il costume “meraviglioso” di non concedersi all’accoppiamento né di sciogliere neghittose i corpi in Venere né di produrre la prole con le doglie:”neque concubitu indulgent nec corpora segnis/in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt ” (Georgica IV , vv. 198-199). concubitu: è una forma di dativo che si trova anche nella prosa classica.-segnis=segnes con funzione predicativa.
Nella II Bucolica il pastore Coridone arde d’amore per il bell’Alessi. (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin , 1) che non ha pietà di lui. Già nelle Ecloghe Virgilio è il poeta dell’amore infelice e luttuoso, il cantore della passione sulla quale si proietta un’ombra di morte:” O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?/nil nostri miserere? Mori me denique coges” (vv. 6-7), o crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi costringerai a morire , sospira l’innamorato ardente .
Coridone non ha tregua dall’ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[205] perfino i ramarri, riposano al fresco:”Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant / Nunc viridis etiam occultant spineta lacertos ” (vv. 8-9), ora anche il bestiame cercano di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i verdi ramarri.-viridis=virides. Il modello siracusano viene da Virgilio caricato di pathos.
In Teocrito, sostiene Snell, “traspare sempre la dissonanza fra l’elemento bucolico primitivo e quello letterario raffinato, ed è proprio in questo contrasto che si cela il fascino della sua poesia. Nel lamento per Dafni troviamo:”Lo piangevano gli alberi che crescono presso il fiume Imera, mentre si scioglieva come neve dell’Emo o dell’Ato o del Rodope o dell’estremo Caucaso” (VII, 74-77). Questa è letteratura poiché parlare di Emo, di Ato, del Rodope o del Caucaso non è linguaggio di pastori-è tono patetico di tragedia…Quando Teocrito fa enumerare queste montagne ai suoi pastori, è press’a poco come quando Menandro mette in bocca, non a persone colte, ma agli schiavi, citazioni della tragedia. Con cosciente ironia egli si prende gioco dei pastori siciliani. Ma quando Virgilio leggeva queste e simili espressioni in Teocrito, egli le prendeva nel senso che avevano originariamente, cioè come espressioni di contenuto patetico, cariche di sentimento…Se l’Arcadia di Virgilio è traboccante di sentimento, i suoi pastori sono lontani tanto dalla vera vita rustica quanto da quella raffinata delle città. Nel loro idillio campestre la pace delle sere festive prevale sul duro lavoro quotidiano, si dà più rilievo all’ombra fresca che alle intemperie, e alla morbida sponda del fiume che all’aspra montagna. I pastori indugiano a suonare il flauto e a cantare, più che non si occupino di colare il siero o rimestare il formaggio. Tutto ciò si delinea già in Teocrito, ma Teocrito ha ancora molto gusto per il particolare preciso e realistico; Virgilio tende più al sentimentale, cerca ciò che ha un valore interiore. In Arcadia non si fanno calcoli, non si ragiona in termini precisi e definiti. Tutto vive nella luce del sentimento…Virgilio legge in Teocrito che durante le ore meridiane le lucertole dormono nelle siepi spinose. In Teocrito ciò è detto in tono di meraviglia perché qualcuno è per istrada a quell’ora, “quando anche le lucertole fanno la siesta” (VII, 22); ma in Virgilio un pastore infelice in amore canta:”Mentre gli animali cercano ombra e frescura, e le lucertole si nascondono nelle siepi di spino, io devo sempre cantare del mio amore” (II, 8)”[206].
Anche nella poesia bucolica, come nella tragedia e nella commedia “i Greci confermano il talento di creare forme esemplari”[207].
Secondo Max Pohlenz gli idilli bucolici di Teocrito, come altra poesia ellenistica, sono ispirati da un autentico amore della natura:”Non l’umore del momento o una moda han fatto di lui un poeta bucolico, ma un impulso interiore, l’amore sincero per la natura. Quando nel Tirsi [208] narra la morte del primo poeta pastore[209], l’estremo saluto di questo è rivolto alla natura tutta, ai lupi e agli orsi non meno che alle sue greggi, e per la morte di Dafni si lagnano gli usignoli, piangono le fonti, s’attristano i fiori e gli animali”[210]. La natura per Teocrito “rappresenta ancora la sfera vitale cui egli, come una parte del tutto, è indissolubilmente avvinto; essa entra a costituire il contenuto della sua esistenza nella stessa misura della poesia dotta, della sua arte. Diverso fu l’atteggiamento verso la natura di quanti effettivamente vivevano nelle grandi città. Ad Alessandria il re Tolemeo, che soffriva di podagra, invidiava i proletari seminudi e privi di bisogni; l’uomo di cultura vedeva circonfusa d’una luce radiosa la semplice vita dei pescatori e dei lavoratori manuali. Ci si entusiasmava per i lontani popoli viventi allo stato di natura, per tutto ciò che era primitivo. Callimaco esaltò la tranquilla felicità che regnava nella misera capanna di Ecale, e un suo personaggio, Aconzio, cerca la solitudine della foresta per confidare agli alberi le sue pene d’amore e incidere sulla corteccia il nome dell’amataLa fantasia si dipingeva una vita semplice, priva di bisogni, naturalmente innocente: ma come un paradiso che i moderni popoli civilizzati avevano irrimediabilmente perduto”[211].
Alla fine della II bucolica virgiliana il tramonto raddoppia le ombre ma non pone fine all’ardore di Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura :”trahit sua quemque voluptas...et sol crescentes decedens duplicat umbras ./me tamen urit amor : quis enim modus adsit amori? ” (v.65 e 67-68), Chi è afferrato da Eros ignora la giusta misura siccome l’amore è follia:”A Corydon, Corydon, quae te dementia cepit! “, v. 69. Il modus invece, la misura è topicamente la quintessenza del rectum , il giusto in Orazio:”est modus in rebus, sunt certi denique fines,/quos ultra citraque nequit consistere rectum ” (Satire , I, 1, vv. 106-107), c’è una misura nelle cose, ci sono limiti definiti dopotutto al di là e al di qua dei quali non può sussistere il giusto. Per Seneca il modus si identifica sempre con la virtus : “cum sit ubique virtus modus ” (De Beneficiis , II, 16, 2). Dietro questa concezione “vi sono secoli di filosofia ellenistica: la mesovth” era stata peripatetica, la metriovth” era stata definita e propugnata dall’accademico Crantore, poi dal neostoico Panezio, il quale aveva avuto sulla morale della classe colta romana una grande influenza”[212].
L’eccesso è la quintessenza di ogni male nella cultura greca classica.
La formulazione più chiara e sintetica è quella del Solone di Plutarco. Quando Creso, il pacchiano re barbaro gli fece vedere i suoi cospicui tesori e gli chiese se conoscesse qualcuno più felice di lui, nominò personaggi non famosi e non ricchi, ma “belli e buoni”. Allora Creso lo giudicò strambo (ajllovkoto”) e zotico (a[groiko”), tuttavia volle domandargli se lo mettesse in qualche modo nel novero degli uomini felici. Il legislatore ateniese quindi rispose: “Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw” e[cein e[dwken oJ qeov”), e per questa misuratezza ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida “[213]. Erodoto e Sofocle, in quanto seguaci della religione delfica condannano spesso la dismisura. Diamo la formula del Secondo Stasimo dell’Antigone:” Sia nel tempo prossimo sia nel futuro/come nel passato avrà vigore/ questa legge: nulla di smisurato/ si insinua nella vita dei mortali senza rovina” (vv. 611-614).-
Anche il “sacrilego” Euripide considera questo valore:”ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t& ajfrosuvna”-to; tevlo” dustuciva, cantano le Baccanti nel Primo Stasimo (vv. 387-389), di bocche senza freno, di sfrenata stoltezza, il termine è sventura.
Più avanti il coro canta che Dioniso odia chi non si prende cura di tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari[214]:'”ajpevcein prapivda frevna te;;;;;;-perissw’n para; fwtw’n”(vv.427-428).
La virtù che consiste nell’evitare la dismisura si presenta in vari saggi della letteratura antica: ricordo il Catone Uticense della Pharsalia celebrato da Lucano come uomo ricco di virtù in testa alle quali c’è quella serbare la giusta misura (“servare modum “, II, 381).
Secondo questa concezione, l’amore, in quanto dismisura, è vizio che può addirittura arrivare all’abominio di una Pasife, cui Sileno nella VI bucolica rivolge un’ apostrofe, carica di pathos simile a quella diretta a Coridone:”A, virgo infelix, quae te dementia cepit? ” (v. 47).
“Teocrito rappresenta con vivacità il suo mondo pastorale ed è affezionato ai suoi umili personaggi, ma per lo più si sente che guarda ad essi con distacco e anche con ironia, mettendoli lievemente e benevolmente in caricatura. Dell’ironia, della comicità teocritea quasi niente resta in Virgilio. Un esempio molto chiaramente indicativo è nella seconda ecloga. Nel monologo di Coridone che, nella solitudine dei boschi, lamenta il suo amore infelice per Alessi, Virgilio trae spunto dall’idillio 11 di Teocrito, dove il Ciclope Polifemo chiede invano l’amore della ninfa Galatea. Il Ciclope, brutto, rozzo, goffo, è un innamorato ridicolo; Coridone, benché sia un uomo di campagna, non ha nulla di caricaturale: è solo un amante infelice, di animo candido”[215].
La III ecloga è una gara poetica tra due pastori (Menalca e Dameta) che dicono versi alternati , a botta e risposta, in forma di carme amebeo, mentre un terzo pastore (Palemone) fa da arbitro. Il premio è una vitella. Il certame finisce in parità. Per quanto riguarda il nostro argomento, mentre la natura vegetale è in rigoglio e la stagione è splendidissima (nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus , v. 57), il toro che dovrebbe rappresentare il colmo del vigore sessuale nel mondo animale giace emaciato sull’erba grassa e fa esclamare a Dameta:”idem amor exitium pecori pecorisque magistro ” (v. 101), amore è ugualmente una rovina per il gregge e per il custode del gregge !.
Poco dopo Palemone menziona amori dolci accanto agli amari, ma anche i primi vengono neutralizzati dalla paura:”quisquis amores/aut metuet dulcis, aut experietur amaros “, vv. 109-110, chiunque temerà i dolci amori o proverà quelli amari.-dulcis=dulces. In effetti, se torniamo per un momento alla storia precedente vediamo che alla dolcezza dell’amore Enea si lascia andare senza paura, e non senza lacrime, solo quando incontra l’amante morta:”demisit lacrimas dulcique adfatus amorest “, Eneide , VI, 455, lasciò cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.
L’ ecloga VIII, dedicata ad Asinio Pollione[216], è il carme della gelosia che fa soffrire Damone e brucia Amarillide lasciata dal malvagio Dafni: “Dapnhis me malus urit ” (v. 83). Nel racconto di Alfesibeo la ragazza cerca di ricondurre a sé con incantesimi l’amato che l’ha lasciata, al pari dell’abbandonata del secondo idillio di Teocrito, l’incantatrice Simeta la quale ugualmente brucia (“pa’sa kataivqomai” ardo tutta, si duole al v. 35) per Delfi, il traditore che si è scordato di lei.
La storia di Simeta abbandonata dal bell’atleta Delfi contiene i tovpoi dell’amore come fioco, ferita, malattia, follia. La ragazza racconta che come lo vide impazzì e il suo cuore fu lacerato (II, 81-82). Quindi un morbo ardente la devastava (v. 85) e giaceva nel letto gialla, emaciata, perdendo i capelli.
Li usa lo stesso seduttore che finge di essere invaso da passione amorosa:”Amore accende una fiamma più temibile di Efestoe con cattive follie (kakai'” manivai” ) allontana la vergine dal talamo e la sposa che abbandona il letto ancora caldo del marito (II, 133 sgg.). L’impiego del locus ha successo poiché corrisponde allo stato d’animo di Simeta che racconta:” ejpravcqh ta; mevgista” (v. 143), si fece il massimo e giungemmo entrambi al piacere. Qui interviene l’ironia di Teocrito a farci sorridere.
Nel terzo idillio dove un capraio spasima per Amarillide Eros viene definito “un dio tormentoso” (baru;” qeov” , III, 15) che certamente ha succhiato la mammella di una leonessa.
La potenza di Amore è ineluttabile e le pene inflitte da lui sono incurabili: nella X ecloga Cornelio Gallo cerca di sfuggire alla sofferenza amorosa, che Licoride gli infligge , col proposito di percorrere le montagne dell’Arcadia a caccia di aspri cinghiali mescolato alle Ninfe :”Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis,/aut acris venabor apros “(vv. 55-56).-acris=acres.
Andare a caccia è un rimedio d’amore che anche Ovidio suggerirà, , tra altri che vedremo nel prossimo capitolo, sulla linea di Teofrasto il quale considerava la passione amorosa “pavqo” yuch'” scolazouvzh””[217], un’affezione dell’animo disoccupato:” tam Venus otia amat; qui finem quaeris amoris,/cedit amor rebus; res age: tutus eris “[218], così Venere ama il tempo libero; tu che cerchi la fine di un amore, datti a delle attività e sarai sicuro: l’amore si ritira davanti alle attività. Tra quelle raccomandate c’è appunto lo studium venandi:”Vel tu venandi studium cole; saepe recessit/turpiter a Phoebi victa sorore Venus “[219], oppure tu coltiva la passione per la caccia; spesso si è ritirata con vergogna Venere vinta dalla sorella di Febo.
Ma l’infelice poeta elegiaco che cerca di diventare Dafni e resistere all’amore, non ha successo. “La dafnizzazione di Gallo è il dono di Virgilio all’amico”[220], commenta G. B. Conte dopo avere ricordato il primo idillio di Teocrito (il Tirsi) dove Dafni si ricusa ad Eros come al giogo che lo priverebbe della sua libera natura :”Dafni anche nella casa di Ades sarà una dura sofferenza per Eros ” (kakovn … a[ lgo” [ Erwti v. 103). Dafni vuole ribaltare il solito rapporto tra l’uomo e l’amore, e invece di subire sofferenze da Eros intende infliggergliene. Tuttavia non ci riesce perché il bovaro alla fine del suo canto annuncia la sua morte ad opera di Eros che lo trascina nell’Ade.
Gallo della X ecloga virgiliana dunque dovrebbe liberarsi dalla sofferenza amorosa andando tra le belve:”Sede di Eros e del sofferente elegiaco era stata la città; sede nuova non potrà che essere una sede lontana da Eros, a lui estranea, nelle selve, fra le tane delle fiere”[221]. Invano: le fatiche non possono mutare Amore, neppure se diventassero tormentose in quanto affrontate in climi estremi:”omnia vincit Amor, et nos cedamus amori ” (ecloga X, v. 69), tutto vince Amore e noi all’Amore cediamo.
Bruno Snell confronta alcuni versi dell X ecloga con simili esametri del VII idillio del poeta siracusano per notarne le differenze:” In Teocrito (VII, 111sgg.), in una scherzosa preghiera a Pan, troviamo:”Se non esaudirai la mia preghiera, possa tu pascolare il gregge d’inverno nella fredda Tracia presso l’Ebro, e l’estate poi presso gli Etiopi nell’estremo Sud”. In Virgilio, Gallo si lamenta (X, 65 sgg.):”Contro il mio amore infelice nulla mi giova, né se in pieno inverno bevo acqua dell’Ebro ed erro sotto la neve della Tracia, né se le pecore degli Etiopi pascolo, sotto il segno del Cancro” (cioè nella più calda estate). Virgilio trasforma i motivi teocritei in modo che quasi il lettore non se n’accorge, e solo tardi si è compresa l’importanza del passo ch’egli ha compiuto nelle sue Egloghe oltre l’arte giocosa del poeta ellenistico. Virgilio, mentre legge Teocrito, il poeta greco ammirato e apprezzato, e ne ritrae le immagini che vede già, senza volerlo, con gli occhi di nascente classicismo, si riavvicina sempre più alla serietà e al pathos della poesia greca classica…Il ritorno di Virgilio all’arte classica, nelle Egloghe , si rivela innanzitutto in questo, che le sue poesie non sono, come quelle di Teocrito, brevi scenette di vita, ma opere d’arte ordinate ed elaborate. “[222].
Passiamo alle Georgiche.
Nella terza Georgica che tratta l’allevamento la conflagrazione amorosa riguarda, oltre gli umani, anche gli animali:”Carpit enim vires paulatim uritque videndo/ femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae/ dulcibus illa quidem inlecebris et saepe superbos/cornibus inter se subigit decernere amantis, ” (v. 215-218) logora infatti le forze a poco a poco e li brucia guardandoli la femmina, e non lascia che si ricordino dei boschi né dell’erba, ma quella certo li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i fieri pretendenti a combattere con le corna.-femina : che la femmina, tanto quella umana tanto questa bestiale metta in secondo piano tutti gli altri interessi del maschio è scritto nella stessa etimologia del nome : si pensi che esso “deriva dall’indoeuropeo *dha-/dhe- che ha dato come esito in greco qh-, in latino fe -“[223] da cui derivano qhlhv, mammella, qhvleia, femmina appunto, qh’lu” femminile, femina , felix e felicitas . In altre parole: sine femina non est vita; si est tamen, non est vita beata .- amantis=amantes.-cornibusdecernere : in questi versi l’istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris.
Tale istinto è uguale per tutte le creature viventi: “Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque/et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres/ in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem “(vv. 243-244) così ogni specie sulle terre di uomini e di animali, e la razza marina, il bestiame e gli uccelli colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo stesso per tutti. Esso accresce la ferocia delle belve:”Tempore non al’io catulorum oblita leaena/saevior erravit campis nec funera volgo/tam multa informes ursi stragemque dedere/per silvas; tum saevos aper, tum pessima tigris;/heu, male tum Libyae solis erratur in agris ” (vv. 245-249), in nessun altro tempo dimentica dei cuccioli la leonessa ha errato più furiosa per le pianure, né tanti lutti e strage sparsero gli orsi orribili per le selve; allora il cinghiale è furioso, allora la tigre è più feroce che mai; ahi allora si vaga con rischio nei campi deserti della Libia.-leaena: si ricordi la levaina Medea (v. 1342) che avrebbe fatto meglio a dimenticarsi dei figli e la divpou” levaina (Agamennone , 1258), la bipede leonessa Clitennestra che invece ha fatto a pezzi il marito.-saevos=saevus.
L’amore insomma è uguale, o molto simile, per tutti. Già Euripide nel IV Stasimo dell’Ippolito canta la potenza universale di Eros che ammalia (qevlgei) la natura dei cuccioli montani e dei marini e quante creature nutre la terra e quelli che il sole guarda bruciando, e gli uomini. La mandante è Cipride che su tutti questi impone da sola la sua regale maestà (vv. 1274 sgg.).
Orazio nell’Ode III 13, promettendo alla fons Bandusiae il sacrificio di un capretto, mette in rilievo l’aspetto pugnace dell’amore quando nota che la fronte turgida per le corna nascenti prepara alla bestiola amore e battaglie:”cras donaberis haedo,/cui frons turgida cornibus/primis et venerem et proelia destinat ” (vv. 3-5).
Nella letteratura italiana Boccaccio in un brano di chiara derivazione virgiliana fa descrivere l’invasamento erotico e bellicoso degli animali dalla dea Venere che vuole convincere Fiammetta ad assecondare la sua passione amorosa e adulterina:”ne’ boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui[224] li tocca, per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari[225], divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i colli”[226].
Ero e Leandro con altri casi di folle ardore amoroso.
Torniamo alla III Georgica dove Virgilio, volendo significare che la mania amorosa riguarda tutti i viventi, fa l’esempio del giovane Leandro che, incendiato dalla fiamma d’amore, subisce la morte per acqua quando vuole incontrare la sua puella. Non bastano a fermare il ragazzo “magnum cui versat in ossibus ignem/durus amor “(vv. 259-260) cui un amore spietato scatena un grande fuoco nelle ossa, né l’Ellesponto in tempesta né le invocazioni dei genitori “nec moritura super crudeli funere virgo “(v. 263), né la ragazza pronta a morire sopra di lui con morte crudele .
La storia d’amore e morte di Ero e Leandro è stata raccontata da Ovidio in due delle Heroides . La prima (XVIII) è quella del ragazzo che identifica la luce della fiaccola, agitata a Sesto dalla fanciulla, con la ragazza stessa e con l’amore che, riscaldandogli il petto, gli fornisce la forza per superare a nuoto il gelido abisso:”Ut procul adspexi lumen” meus ignis in illo est;/illa meum”dixi” litora lumen habent ” (vv. 87-88), come da lontano vidi la luce, dissi:” il mio fuoco è in quella; quelle spiagge hanno la mia luce.
Nella risposta (XIX) Ero afferma che anche se le loro forze sono impari, loro due bruciano di ugual fuoco:”Urimur igne pari, sed sum tibi viribus impar ” (v. 5). Tuttavia il fuoco che brucia le donne è più pervasivo e consuma completamente la loro anima: gli uomini possono distrarsi ora con la caccia (modo venando ), ora coltivando la terra feconda (modo rus geniale colendo , v. 9), o con gli impegni del foro o della palestra, o domando cavalli, o con l’uccellagione, o con la pesca. Ma ella, anche se ardesse d’amore meno violentemente (vel si minus acriter urar , v. 15) non avrebbe altra possibilità di azione che quella di amare.
Infine ricordo il Leandro del poemetto di Museo[227] dove il giovane qualifica Eros con deinov” (tremendo) e il mare come ajmeivlico” , spietato (Ero e Leandro , v. 245) poi, con immagine derivata da Nonno di Panopoli[228], pensa di contrappesare l’acqua marina con il fuoco amoroso che lo brucia fin dentro le fibre. Quindi incoraggia il cuore ordinandogli di attenersi al fuoco e di non temere l’acqua, anche se priva di fondo (v. 247).
L’acqua poi prevale sulla vita ma, siccome amor omnibus idem, l’amore è il medesimo per tutti, se anche può uccidere, tuttavia non può fermare gli amanti appassionati:”Inde ferae pecudes persultant pabula laeta/et rapidos tranant amnis: ita capta lepore/te sequitur cupide quo quamque inducere pergis ” (De rerum natura , I, 14-16), quindi le bestie selvagge saltano per i pascoli rigogliosi,/e attraversano a nuoto i fiumi vorticosi: così presa dal fascino tuo/ciascuna ti segue cupidamente dove continui a condurla.-amnis=amnes. A proposito di rapidos amnes si ricorderà la Medea di Seneca che sicuramente non ignora questi versi:” :”Non rapidus amnis, non procellosum mare possit inhibere impetum/irasque nostrasAmor timere neminem verus potest “(vv. 411 sgg.), non fiume travolgente, non mare in tempesta potrebbe arrestare l’impeto dell’ira miaIl vero amore non teme nessuno.
Ma torniamo all’amore- guerra della terza Georgica dove la razza aspra dei lupi e dei cani e perfino i cervi imbelli danno battaglia (“dant proelia “, v. 265). Certo però che supera tutto e si distingue il furore delle cavalle:”Scilicet ante omnes furor est insignis equarum ” (v. 266), cui Venere stessa attribuì questa disposizione quando le quattro di Potnia (in Beozia) sbranarono con le mascelle le membra di Glauco che le teneva lontane dai maschi. Come si vede l’amore, consentito o represso che sia, è sempre unito al dolore e alla morte.
Il Socrate dei Memorabili di Senofonte aveva già detto che bisogna guardarsi dal bacio e persino dalla visione dei belli poiché questi iniettano un veleno più dannoso di quello dei ragni (I, 3, 11 sgg.). La guerra amorosa non manca mai di provocare ferite o ustioni che l’amante spesso si procurara da solo.
Properzio addirittura va in cerca della piaga amorosa”Interea nostri quaerunt sibi vulnus ocelli ” (II, 22, 7), intanto i miei occhi cercano chi li ferisca. Su questa elegia torneremo per la presenza di un altro locus.
Anche nel romanzo greco (II d. C.) ci sono cenni alla ferita creata da amore:” davknei to; fivlhma th;n kardivan” (Le avventure pastorali di Dafni e Cloe , 1, 25, 2), il bacio morde il cuore, sussurra il protagonista maschile della storia d’amore di Longo Sofista, quel Dafni cui il bacio di Cloe pare più acerbo dell’ago di un’ape.
Non è da meno Clitofonte di Achille Tazio che dice a Leucippe:”kai; su; mevlittan ejpi; tou’ stovmato” fevrei”: kai; ga;r mevlito” gevmei”, kai; titrwvskei sou ta; filhvmata”, Leucippe e Clitofonte , 2, 6, 6, anche tu devi portare un’ape sulla bocca: infatti sei piena di miele e i tuoi baci feriscono.
C’è, veramente, anche un bacio che non punge, ed è quello che il canto per Adone delle Siracusane teocritee attribuisce al ragazzo amato da Venere:” ouj kentei’ to; fivlhm& , e[ti oiJ peri; ceivlea purraiv” (XV, 130), non punge il tuo bacio, ancora intorno alle labbra c’è la peluria fulva. A questa peluria rossiccia possiamo associare le messi mature di cui Adone è simbolo, secondo l’insegnamento che Ammiano Marcellino attribuisce alle religioni misteriche riguardo a questa storia d’amore e morte nelle[229]:”quod simulacrum aliquod esse frugum adultarum religiones mysticae docent ” (XIX, 1, 11). Particolarmente è l’uccisione del bellissimo giovane che viene interpretata come simbolo della mietitura del grano: quando Giuliano giunge ad Antiochia nell’estate del 361 d. C. si celebravano le feste in onore di Adone, amato da Venere e ucciso dal cinghiale:”quod in adulto flore sectarum est indicium frugum” (XXII, 9, 15), simbolo delle messi recise quando sono del tutto mature. E sono appunto di un biondo tendente al rosso.
Vediamo qualche esempio di ustione amorosa nelle Metamorfosi di Ovidio:”sic deus in flammas abiit, sic pectore toto/uritur ” ( I, 495-496), così il dio si infiammò, così in tutto il petto/brucia. Si tratta di Febo che brucia per Dafne. Più avanti (III, 464) è Narciso che brucia per amore di se stesso:”uror amore mei, flammas moveoque feroque “, brucio per amore di me stesso e porto e agito le fiamme. Il poeta di Sulmona del resto negli Amores presenta anche un altro punto di vista, il proprio, che è ben diverso:” “Candida me capiet, capiet me flava puella;/est etiam in fusco grata colore venus ” ( II, 4, 39- 40) una ragazza chiara mi conquisterà, mi conquisterà una bionda;/l’amore è gradito anche in una scura.
Nel Pervigilium Veneris che celebra l’inizio della primavera e la potenza di Afrodite, Amore è in vacanza (“feriatus est amor “, v. 31) perciò gli è stato ordinato di andare inerme, di andare nudo:”neu quid arcu, neu sagitta, neu quid igne laederet ” (v. 33), per non ferire qualche creatura con l’arco, con la saetta, con il fuoco. Eppure, avverte l’autore, o l’autrice, “Nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est:/ totus est in armis idem quando nudus est amor ” (vv. 34-35), guardatevene o Ninfe, poiché Cupido è bello: ed è tutto armato anche quando è nudo Amore.
Cesare Pavese ribalta la posizione del vulnus : per lui è la vita che infligge ferite e l’amore anestetizza il dolore :”Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness ) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l’amore goduto è un anestetico e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?”[230]. Si potrebbe commentare questa affermazione intelligente con quest’altra di Pindaro:” ejslw’n ga;r uJpo; carmavtwn ph’ma qnavskei-palivgkoton damasqevn” (Olimpica II, 19-20), infatti sotto nobili gioie muore la sciagura recrudescente domata.
Orfeo e Aristeo nell’interpretazione di Gian Biagio Conte. Orfeo poeta d’amore e la poesia elegiaca. Un poco di inglese.
In un suo lavoro in inglese[231] il professore di Pisa individua in Aristeo il più completo eroe del regno georgico, una figura emblematica della cultura dell’agricoltore e il prototipo del perfetto agricola che trova nella tenacia i mezzi più efficaci del successo; egli sarà capace di apprendere da Proteo la causa delle sue disgrazie e di ricevere dalla madre la prescrizione divina di un rituale che deve compiere senza deviare nemmeno nel minimo dettaglio. Le due virtù richieste per il suo successo sono prima la tenacia, per conoscere, poi l’obbedienza, per eseguire. “Tenacitas (persistence), a humble but effective virtue, is exactly the same force as that of the farmer who combacts the relutance of the misrly earth ” (p.54), la tenacia, una virtù umile ma produttiva, è esattemente la stessa forza del contadino che combatte la riluttanza della terra avara.
E’ quella, aggiungo, valorizzata per primo da Esiodo nel suo poema le Opere e i giorni.
Nell’ultimo capitolo del De beneficiis Seneca utilizza il paragone con la figura del contadino operoso per elogiare e rendere visibile la perseveranza nel fare i benefici anche all’ingrato:”huic ipsi beneficium dabo iterum et tamquam bonus agricola cura cultuque sterilitatem soli vincam ” (VII, 32), a questo stesso farò ancora del bene e come un agricoltore bravo vincerò la sterilità del suolo con un lavoro assiduo.
Conte individua una parola chiave nell’avvertimento della madre Cirene:”Nam sine vi non ulla dabit praecepta, neque illum/orando flectes; vim duram et vincula capto/tende “(IV, 398-400), infatti senza violenza non darà alcuna risposta, né lo pregherai con preghiere; dopo averlo preso, tendi i lacci e una dura violenza. “Durus, another key word in these lines, indicates the other, complementary aspect of “tenacity”. It often appears in the Georgics to signify the “hard” reluctance of nature, which can be overcome only by toil. Thus, labor omnia vicit/improbus et duris urgens in rebus egestas (I. 145-146)…durus uterque labor (II. 412)…ipse labore manum duro terat (IV. 114)…and in the end the farmers too must be “hard” themselves, “resistant to toil”: dicendum est quae sint duris agrestibus arma,/quis sine nec potuere seri nec surgere messes (I. 160-161). “. Vediamo la traduzione: durus , un’altra parola chiave in questi versi, indica l’altro, complementare aspetto della tenacia. Essa appare spesso nelle Georgiche per significare la dura riluttanza della natura, che può essere vinta solo dal lavoro. Così il lavoro inflessibile ha domato tutto e l’indigenza che spinge nei duri frangenti (I, 145-146)…dura l’una e l’altra fatica (II, 412)…egli stesso consumi la mano nella dura fatica…e alla fine anche i contadini devono essere duri loro stessi, resistenti alla fatica: bisogna dire quali siano le armi dei duri contadini, senza le quali non avrebbero potuto essere seminate né levarsi le messi (I, 160-161).
Aggiungo di mio che l’agricoltura è come una guerra, non meno dell’amore il quale comporta pure labor , ma mentre la fatica del contadino, secondo Virgilio, è produttiva, quella degli amanti è distruttiva.
Torniamo al Conte:”Resistance to toil, knowing how to persevere in an arduous task with faith and obstinacy-these are Roman virtues. They are ancient virtues but remain relevant, and it is these which obtain success for Aristaeus when they are wedded to scrupulous obedience to divine dictates “, resistenza al lavoro, sapere perseverare in uno strenuo dovere con fede e ostinazione-queste sono virtù romane. Sono virtù antiche ma rimangono rilevanti, e sono queste a ottenere successo per Aristeo quando sono coniugate a scrupolosa obbedienza ai dettami divini.
Orfeo, d’altro lato, fallisce. Egli fallisce perché contravviene alle rigorose condizioni imposte dal dio della morte: rupta tyranni/foedera (Georgica IV. 492-93), è infranto il patto del tiranno…egli volta gli occhi sull’oggetto del suo amore, e così viola la lex (condizione) dettata da Proserpina (487). L’amore lo trasporta e fa di lui un mentecatto…La pazzia d’amore inganna Orfeo: in quanto suo prigioniero, egli non mantiene l’obbedienza alla volontà degli dèi (p. 55). Del resto “Orpheus is not only an unfortunate lover: he is above all a poet, a passionate singer of his love ” (p. 57), Orfeo non è soltanto un amante sfortunato; egli è soprattutto un poeta, un cantore appassionato del suo amore. Procediamo con il testo di Conte già tradotto. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (I. 496-511) Orfeo placa una lite tra i suoi compagni di navigazione cantando un poema scientifico (empedocleo) sulla genesi del cosmo: tale modo quasi lucreziano non sarebbe del tutto estraneo a un poema didattico e georgico, come quello di Virgilio. Ma invece questo Orfeo canta d’amore, il dolore della separazione, la perdita della donna che ama. In breve, questa è una poesia fatta di vicende personali, di passione infelice. In questo modo noi abbiamo identificato un’altra ragione dell’intrinseca debolezza di Orfeo: egli non è solo un amante ma un amante-poeta, un personaggio che rivolge l’amore, o piuttosto la sofferenza d’amore a oggetto esclusivo del suo canto. Egli è davvero il prototipo del poeta-cantore. Materia del suo canto (riassumo) è la sofferenza amorosa. Inoltre egli è solo (un desocializzato aggiungo, come un artista decadente) e il furore erotico che è la vera fonte della sua poesia (il suo canto è nutrito dalla passione che lo accieca) finisce con il distruggerlo. Il medesimo paradosso si trova all’origine di molta poesia elegiaca…Come può un poeta elegiaco essere definito esattamente in un pungente epigramma? Domizio Marso[232] (ex incertis libris , verse 9 Morel corrisponde al frammento 7-3 Courtney) definisce Tibullo come elegis molles qui fleret amores ( un elegiaco che piange su teneri amori), una definizione che potrebbe essere applicata all’elegia in generale. Cantando il suo erotikon pathema (sofferenza amorosa), l’Orfeo di Virgilio canta nei modi di un poeta elegiaco, proprio come Gallo, il fondatore dell’elegia latina che soffre d’amore nella X Ecloga (14-15)…la poesia d’amore fallisce poiché è costituzionalmente separata dall’azione: è completamente e integralmente egotistica…C’è davvero un’opposizione tra poesia georgica e poesia d’amore che nasce da un’opposizione tra una “dimensione pratica” e una “dimensione contemplativa…La solitudine allontana il poeta d’amore dal mondo reale, lo rinvia a se stesso, lo rende egotisticamente indifferente ad ogni sollecitazione esterna. Chiuso in questa autonomia, egli non è capace (né vuole) rompere il suo circolo chiuso, fuori dal quale soltanto può esserci la salvezza. Questo è il paradosso del poeta elegiaco, e il paradosso di Orfeo, uno che ha il potere di cantare ma non quello di agire…Da una parte c’è Virgilio e il mondo di Aristeo, dall’altra una poesia del tutto privata che obbedisce soltanto alla legge del servitium amoris, inventa una forma del mondo chiusa e assoluta, e di fatto sostiene un ideologia anarchica indifferente ai valori della collettività “[233].
Vorrei fare una riflessione su questo e segnalare che i sentimenti privati, quelli conseguenti agli amori penosi in particolare, divengono prevalenti in letteratura rispetto agli interessi storici e politici sotto le tirannidi che tolgono spazio alla dialettica, all’interesse per la collettività e ammettono la propaganda al potere oppure l’effusione di stati d’animo individuali purché innocui o funzionali al regime. La gioia amorosa non lo è mai.
Virgilio del resto, continua Conte, non è che non provi simpatia e comprensione per Orfeo. “Al contrario, Virgilio sa come rendere omaggio alla poesia elegiaca come la forma poetica più adatta a rappresentare la debolezza umana e capace di conquistare la simpatia per la sofferenza di chiunque soffra un fallimento esistenziale…Mentre mostra tutta la forza e la malia del destino del poeta Orfeo, Virgilio simultaneamente denuncia i costi della scelta “debole” , quella dell’elegia, e il prezzo “amaro” della sua scelta “forte” , la missione di una committenza didattica che esalti i valori semplici e solidi della vita del contadino. Il suo arator è durus , e le virtù che lo guidano devono essere indifferenti al funereo lamento del povero usignolo privato del suo nido; ma questa è la dura legge del mondo che Giove ha voluto per gli uomini, il mondo del lavoro.
Conte in una nota segnala opportunamente il nesso di quest’ultima asserzione con i vv. 207-211 della Georgica II :”aut unde iratus silvam devexit arator/et nemora evertit multos ignava per annos/antiquasque domos avium cum stirpibus imis/eruit: illae altum nidis petiere relictis;/at nudis enituit impulso vomere campus “, o da dove l’aratore operò una deforestazione con ira, e sradicò i boschi per molti anni improduttivi, e antiche dimore di uccelli strappò con le radici profonde: quelli volarono in alto lasciati i nidi, ma nuovo brillò sotto la spinta del vomere una campo. In questi versi c’è anche la violenza dell’uomo che pure vuole migliorare la sua condizione sulla terra:” il poeta didattico osserva questa azione violenta dalla prospettiva degli uccelli che vivevano sugli alberi che sono stati tagliati, quando essi vedono il loro nido sacrificato alle dure necessità del contadino…Il protagonista delle Georgiche-il paziente, tenace agricola capace di coronare la sua fatica con il successo-è anche un carattere non privo di ombre, e richiede, anche lui, della vittime”[234]. Come farà Enea.
Aggiungerei che la violenza dell’uomo nei confronti della natura viene segnalata con maggiori indicazioni negative da Sofocle il quale nel primo stasimo dell’Antigone mette in luce l’inanità della sofiva tecnologica:” Possedendo il ritrovato della tecnologia,/ che è un qualche sapere , oltre l’aspettativa (sofovn ti to; macanoven-tevcna” uJpe;r ejlpivd& e[cwn-tote; me;n kakovn, a[llot& ejp& ejsqlo;n eJvrpei)/ora si volge al male, ora al bene./ e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città; bandito dalla città è quello con il quale /coesiste il brutto morale, per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul focolare/né abbia lo stesso pensiero/chi compie queste azioni” (vv. 365-375).
La violenza dell’uomo.
Alla violenza dell’uomo nei confronti della terra coltivata e degli animali aggiogati sembra alludere anche Virgilio quando, nella IV Bucolica , descrive l’età dell’oro:”non rastros patietur humus, non vinea falcem,/robustus quoque iam tauris iuga solvet arator “, (vv. 40-41), la terra non soffrirà i rastrelli, né la vigna la falce, anche il robusto aratore scioglierà i tori dal giogo. Come l’età dell’oro anche le isole beate di Orazio producono pane e vino senza violenza:” Nos manet Oceanus circumvagus arva beata/Petamus, arva divites et insulas,/Reddit ubi Cererem tellus inarata quotannis/Et imputata floret usque vinea ” (Epodi , 16, 41-44), ci attende l’Oceano che gira intorno a campagne felici, dirigiamoci a quelle campagne e isole fertili, dove ogni anno la terra dà le messi senza essere arata, e la vite fiorisce continuamente senza essere potata.
Per la scienza e la tecnica che si volgono al male è molto chiara la condanna di Brecht il quale viene citato da G. Steiner a proposito del canto corale dell’Antigone :”Il commento al secondo stasimo (sic!) che Brecht fornisce con le sue note di lavoro (Anmerkungen zur Bearbeitung ), è lapidario: “L’uomo, mostruosamente grande (ungeheuer gross ) quando sottomette la natura, diventa un grande mostro quando sottomette gli uomini, suoi simili”. Come Hölderlin prima di lui, Brecht traduce ta; deina; con Ungeheuer , parola densa di significati che designa “ciò che è mostruoso”, “ciò che è inquietante”, “ciò che è insolitamente, ossessivantemente eccessivo nel bene e nel male”[235].
Sui limiti della sofiva tecnologica sentiamo anche Di Benedetto:”affiora in Sofocle una tendenza diversa, secondo la quale sofov” appare in contesti che tendono a svuotare l’aggettivo della sua positività e a conferirgli un valore chiaramente negativo. Va menzionato a questo proposito anzitutto il passo del primo stasimo dell’Antigone dove al v. 365 sofovn è associato alle qualità inventive della tevcna: senonché in questo stasimo la tevcna è presentata in un contesto in ultima analisi restrittivo e lo stesso vale per sofovn, collocato con evidenza all’inizio della frase”[236].
Si veda un ancora più esplicito svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di Diotima del Simposio platonico:”kai; oj me;n peri; ta; toiau’ta sofo;” daimovnio” ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;” w[n, hj; peri; tevcna” hj; ceirourgiva” tinav”, bavnauso”” (203a), chi è sapiente in tali rapporti (quelli tra gli uomini e gli dèi) è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos’altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Nel Menesseno Platone chiarisce il disvalore della scienza separata dalla giustizia:”pa’sav te ejpisthvmh cwrizomevnh dikaiosuvnh” kai; th'” a[llh” ajreth'” panourgiva, ouj sofiva faivnetai” (247), la scienza separata dalla giustizia e dalle altre virtù si vede che è malizia, non sapienza.
A questo si può aggiungere la favola di Filemone e Bauci che nel Faust di Goethe vengono sacrificati con tante altre vittime umane, per strappare il terreno al mare e a loro stessi:” E sul principio ,/furono tende e furono capanne./Ma sorse poi, dov’è più folto il verde/subito un gran palazzo” racconta Filemone. E prosegue Bauci”Facevano, di giorno, il finimondo,/senza concluder nulla, i suoi vassalli./Colpi su colpi, di badili e zappe!/Ma dove nella tenebra notturna/era un vagar di vivide fiammelle,/una diga si ergeva all’indomani./Debbono avere sanguinato, a notte,/vittime umane. Ché s’udìan, nel buio,/gemiti di dolore./Verso il mare fluivano torrenti/rossi di fuoco. E al sorgere del sole,/ecco, un canale era scavato, già./Un uomo senza Dio! Gli fanno gola/la nostra capannuccia ed il boschetto./Un vicino orgoglioso e tracotante,/a cui dobbiamo, ahimè, restar soggetti!”[237]. E’ questi lo stesso Faust la cui avidità poi provoca l’assassinio dei due vecchietti.
James Hillman alla giustizia aggiunge la bellezza:”Bellezza e Giustizia sono i veri fini. I pensatori più profondi li hanno individuati. Platone, ad esempio. E ogni anima lo percepisce immediatamente: il benessere economico non fa piacere all’anima quanto la Bellezza e la Giustizia”[238].
Conte conclude il suo saggio del quale ci siamo avvalsi quasi per intero, notando che durities (la durezza) è la fisionomia costitutiva del carattere dell’arator , un aspetto indispensabile di quella perseveranza che lo aiuterà a superare la prova. La sua scelta di vita non conosce insuccesso ma il prezzo è alto. Questo è lo stesso prezzo che il poeta didascalico Virgilio deve pagare per il suo rifiuto della poesia d’amore”. Per questo prezzo pagato, del resto, aggiungo, riceverà non piccoli compensi da Mecenate il quale ebbe in Virgilio il vate desideroso e capace “di trasmettere valori forti e verità antiche”, di soddisfare “la magnifica ambizione di una grande nuova letteratura latina che sceglie di indirizzare essa stessa la coscienza della collettività nazionale”[239].
Voglio ricordare, per mettere di nuovo in luce l’ipocrisia del potere, che Mecenate, etrusco di Arezzo, ha fama di gaudente, anzi di dissoluto se diamo retta a Seneca che lo contrappone a Regolo, documentum fidei, documentum patientiae, modello di lealtà e resistenza, definendolo ” voluptatibus marcidum“[240], smidollato dai piaceri.
Riprendiamo il filo del Terzo Stasimo dell’Antigone (vv. 782-790):
Greco
“Eros che sulle ricchezze ti abbatti,/che nelle morbide guance/della fanciulla trascorri la notte,/vai e vieni tanto sul mare quanto/nelle agresti dimore:/e degli immortali nessuno ti sfugge né degli uomini effimeri;/ma chi ti trattiene è impazzito”.
–kthvmasi :”Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di levargli l’avarizia”[241] . ). Più avanti vedremo che anche Lucrezio ha espresso questo concetto: “l’abitur interea res ” (De rerum natura , IV, 1124), si scial’acqua nel frattempo il patrimonio.
Un altro nesso tra amore e ricchezza viene indicato dal contadino non innamorato di Teocrito nel X idillio: i due dèi che li rappresentano, Eros e Pluto, sono entrambi ciechi di mente in quanto tutti e due dissennati (vv. 19-20). Quanto alla cecità di Pluto, il dio della ricchezza nella parte iniziale dell’ultima commedia di Aristofane afferma di essere stato accecato da Zeus per invidia verso gli uomini, e in particolare nei confronti delle persone oneste che egli voleva beneficare (Pluto, 87-92)- malakai'”: c’è una certa contraddizione con la bellicosità di Eros, e infatti l’amore non rientra nella logica aristotelica, ma fa parte di quelle manie che magari sono più sagge della saggezza del mondo, eppure sono sempre pazzie.-uJperpovntio”: quante volte guardando il mare (povnto”), il pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma” (Prometeo incatenato , 89-90), ” e l’innumerevole sorriso delle onde marine”, abbiamo pensato all’amore, poiché l’uno e l’altro rappresentano l’idea dello sconfinato e dell’eterno! –ajgronovmoi” aujlai'”: i luoghi agresti invece significano raccoglimento, autenticità, introversione e rapporto con se stesso, un poco come l’amore che ci mette in contatto, crediamo, con una creatura comprensiva della nostra umanità, come un altro io molto simile a quello che siamo.
La natura del resto contiene presentimenti d’amore, come ha capito benissimo Dino Buzzati:” Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore…Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere, se non vi fosse implicata una attesa? E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici?…Gli vengono pure in mente le carovane delle miagolanti befane venute dall’America che scendono dai pullmann dinanzi ai musei e alle cattedrali. Forse che anche le sciagurate, nel girovagare da un paese all’altro, inseguono quel presentimento d’amore? Esattamente così, compatitele. Pure in quei ruderi standard pieni di salute resiste ancora, a loro insaputa, il richiamo; hanno sessanta, settanta, ottant’anni, sono donne morigerate e rispettabili, impazzirebbero di vergogna se potessero sapere ciò che le trascina su e giù per il mondo. Eppure se nei viaggi non ci fosse quel barlume romanzesco e inverosimile, mai si muoverebbero di casa. Il vagabondare di frontiera in frontiera, di albergo in albergo, diventerebbe un supplizio”[242]. Un’altra interpretazione possibile dell’amore che va e viene sul mare e nelle dimore agresti è che Eros riguarda i pesci e le bestie dei campi come gli uomini; insomma quell’ amor omnibus idem di cui si è detto.
–ajqanavtwn: anche gli dèi sentono le pene amorose. Si può pensare , per esempio, all’Apollo innamorato di Dafne delle Metamorfosi di Ovidio (I, 495-496) citato sopra.-fuvximo”: sottinteso ejstiv.-aJmerivwn: dorico per hJmerivwn. Proprio perché viviamo un giorno, cerchiamo di immortalarci su questa terra, e una via è fare figli secondo il corpo. Un’altra, meno materiale, è farli secondo lo spirito. Infatti lo scopo cui tende amore, secondo la Diotima di Platone, è la procreazione nel bello secondo il corpo e secondo l’anima:”tovko” ejn kalw’/ kai; kata; to; sw’ma kai; kata; th;n yuchvn” (Simposio , 2O6b).-mevmhnen: perfetto di maivnomai. L’innamorato del Duvskolo” di Menandro, Sostrato, dice:”Sono giunto qui, perché non posso dirlo, tranne che questa faccenda mi trascina in questo luogo ( e{lkei dev m j aujtovmaton to; pra’gm j eij” to;n tovpon , v. 545).
Apriamo una sezione relativa all’amore come punizione e malattia mentale.
La donna quale nemica o inganno. Compresenza di amore e odio.
Esiodo considera la femmina umana quale agente patogeno per l’umanità. In tutta la sua opera “traspare un apprezzamento crudo e malevolo della donna quale causa d’ogni male, estraneo alle concezioni cavalleresche”[243] .
Nella Teogonia il poeta racconta che Zeus si era sdegnato poiché Prometeo l’aveva ingannato donando agli uomini il fuoco, ed egli, subito, in cambio del fuoco preparò per loro un malanno ( ” aujti;ka d& ajnti; puro;” teu’xen kako;n ajnqrwvpoisi ” (v. 570). Esso fu plasmato da Efesto con la terra: era simile ad una vereconda fanciulla che Atena adornò con un cinto, una veste, un velo, serti di fiori e una corona d’oro dove lo stesso Ambidestro aveva cesellato figure di fiere terribili, quanti ne nutre la terra ed il mare (v. 582). Una prefigurazione delle leonesse, le tigri e le scille in cui abbiamo visto trasfigurate Clitennestre e Medee. Comunque questa creatura divenne uno splendido malanno (“kalo;n kakovn”, v. 585) per gli uomini, un inganno scosceso (” dovlon aijpuvn”[244], v. 589) e senza rimedio. Ecco già delineato il “popolo nemico” da cui derivano a quello dei maschi malanno e sciagura (“ph’ma”, v.592).
La donna come inganno scosceso e letale rimarrà topica: Orazio mette in guardia da Pirra, che è simplex munditiis ma provoca il naufragio degli amanti inesperti,:”Miseri, quibus/intemptata nites : me tabula sacer/votiva paries indicat uvida/ suspendisse potenti/vestimenta maris deo “, poveretti quelli cui brilli senza che ti abbiano conosciuta: la sacra parete con la tavola votiva rivela che io ho appeso le vesti fradicie al potente dio del mare (Odi , I, 5, 12-16). Il poeta scampato al pelago dell’amore è grato al dio Nettuno che l’ha salvato.
L’uomo innamorato è come un marinaio nel mare in tempesta. Chi si libera dall’amore fugge da un pericolo mortale. Questo locus sembra capovolgere il mito di Ulisse il quale si salva dai flutti per tornare dalla sua donna. Properzio nella penultima elegia del III libro identifica la fine dell’inganno amoroso con l’ingresso della sua nave nel porto dove finalmente può sentirsi libero dal servitium amoris .
Cito alcuni versi nei quali oltre il topos del naufragio si trova quello della cottura :”Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ Ecce coronatae portum tetigere carinae,/Traiectae Syrtes, ancora iacta mihi est ” (III, 24, 13-16), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena. Ecco che la nave ha toccato il porto incoronate di fiori, e oltrepassate le Sirti, ho gettato l’ancora. L’ incantatrice è stata travisata dallo sguardo ammaliato dell’amante il quale a sua volta adorandola l’ha illusa sull’onnipotenza della bellezza che ha visto in lei :”Falsa est ista tuae, mulier fiducia formae,/olim oculis nimium facta superba meis./ Noster amor tales tribuit tibi, Cyntia, laudes ” (III, 24, 1-3), è ingannevole questa tua fiducia nell’aspetto, donna, resa una volta troppo superba dai miei occhi. Fu il mio amore a donarti, Cinzia, tali lodi. Nell’ultima elegia di questo libro lo schiavo d’amore per liberarsi dal servitium si aiuta con il ricordo (di ascendenza catulliana[245]) dell’iniuria: “Flebo ego discedens, sed fletum iniuria vincit ” (III, 25, 7), piangerò nel lasciarti ma l’offesa vince il pianto, e si consola con la previsione dell’invecchiamento della sua domina :”At te celatis aetas gravis urgeat annis,/et veniat formae ruga sinistra tuae./Vellere tum cupias albos a stirpe capillos/ah speculo rugas increpitante tibi,/ exclusa inque vicem fastus patiare superbos, et quae fecisti facta queraris anus./ Has tibi fatalis cecinit mea pagina diras./Eventum formae disce timere tuae ” (III, 25, 11-18), ma l’età greve incomba sugli anni dissimulati e vengano rughe sinistre sulla tua immagine bella. Che allora tu voglia strappare dalla radice i capelli bianchi, quando lo specchio ti rinfaccerà le rughe, e a tua volta respinta possa tu sopportare la sprezzante alterigia, e lamentarti ormai vecchia del male che hai fatto. Questi cattivi presagi ti ha cantato la mia pagina fatale, impara a temere la fine della tua bellezza.
Questa dunque è ingannevole come l’amore ed effimera come mutevoli sono le donne.
In conclusione:”Giovane: un antro arabescato di fiori. Vecchia: un drago che esce fuori”[246].
Ancora qualche considerazione sull’iniuria che, ovviamente, appartiene anche alla sfera morale giuridica, politica ed economica: Cicerone nel De Officiis afferma che essa deve essere sempre evitata”fugienda semper iniuria est ” (I, 25). Ebbene grandissimo movente di iniuria è la cupiditas : in questo caso non quella amorosa ma imperiorum, honorum, gloriae . E’ il caso di Giulio Cesare qui omnia iura divina et humana pervertit (I, 26) il quale sconvolse tutte la leggi divine e umane. Anche in questo caso è stato messo in discussione il diritto di proprietà: non dell’uomo sulla donna ma del padrone di casa. Sentiamone il commento di C. E. Gadda:”Così…fra Poseidonio e Panezio, fra Peripatetici ed Accademici, e nel bel mezzo dell’onesto e dell’utile, della Giustizia e della Temperanza, della Prudenza e della Fortezza, salta fuori tutt’a un tratto, una rabbia pazza, da padron di casa con la museruola, contro i decreti-legge del 707[247] che rimettevano agli inquilini…non i loro peccati, ma i fitti arretrati. Con repertini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron di casa azzanna da morto colui , “qui omnia iura divina et humana pervertit ” . La stizza dell’aver dovuto condonare quei fitti mescolata con quella del prestito forzoso impsto dal dittatore a tutta la gente per bene, gli fa esclamare che quegli non fu un uomo, ma un mostro, un sadico folle, assetato di voluttà malvagia:”Tanta in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret peccare, etiamsi causa non esset “[248], tanto grande fu in lui la brama di commettere falli che gli piaceva questo stesso commetterli, anche se non c’era motivo.
La causa che scatena l’iniuria e il peccare è comunque la libido .
Voglio prendere ancora una riflessione ciceroniana sull’iniuria e applicarla al nostro discorso erotico: se la più odiosa delle offese è quella fatta con la frode, meno quella con la forza, il tradimento amoroso è quello più lontano dalla dignità dell’uomo (e della donna):”Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissinum, sed fraus odio digna maiore ” ( De officiis , I, 41), siccome l’offesa si fa in due modi, cioè con la violenza o con la frode, la frode sembra il mezzo della volpastra, la violenza del leone; l’una e l’altra sono del tutto estranee all’uomo, ma la frode merita maggior odio.
Nelle Opere Esiodo torna sull’argomento: Zeus diede agli uomini un male, la donna in cambio del fuoco:”Toi'” d& ejgw; ajnti; puro;” dwvsw kakovn” (v. 57). Anche nel ” più recente e paesano dei due poemi d’Esiodo che ci restano”[249] la donna riceve ornamenti e attributi speciosi, e, per quanto riguarda il nostro tema, Afrodite le versò sul capo la grazia e la passione struggente e gli affanni che fiaccano le membra (“cavrin…kai; povqon ajrgalevon kai; guiokovrou” meledwvna” “, vv. 65-66).
Nella Teogonia [Ero” stesso viene qualificato come lusimelhv” (120-121), che strugge le membra.
Questo epiteto viene attribuito alla brama amorosa pure da Archiloco (frammento 118 D) :”mi prostra, amico, il desiderio che strugge le membra”(lusimelhv”…povqo”).
Il topos dello struggimento dovuto a Eros viene riproposto da Saffo:” Eros che strugge le membra (lusimevlh”) di nuovo mi agita,/dolceamara (glukuvpikron) implacabile (ajmavcanon) belva (o[rpeton) (fr. 130 V.).
“La parola lusimevlh” è tradizionale[250], ma Saffo le conferisce una forza nuova combinandola con quello che segue. Amore è visto come o[rpeton, e il termine è, senza dubbio intenzionalmente, vago: esso può indicare pressoché ogni creatura che cammina a quattro zampe o striscia, da un serpente[251] fino al gigante Tifone imprigionato sotto l’Etna[252]; e può anche implicare qualcosa di sinistro, e quindi è precisato con ajmavcanon, poiché da una creatura del genere non ci si può difendere…Infine c’è glukuvpikron; e con questa parola, che non si ritrova più sino all’età ellenistica, Saffo esprime la quintessenza dei suoi sentimenti contraddittori riguardo all’amore. Il grado di concentrazione espressiva di Saffo si può vedere paragonandolo con la maniera più diffusa di Teognide, che dice di Amore
pikro;” kai; glukuv” ejsti kai; ajrpalevo” kai; ajphnhv”[253]
In pochissime parole Saffo esprime la propria tumultuosa condizione, insieme fisica e mentale, desiderata e odiata ad un tempo”[254].
L’amore dolceamaro trova un’eco nel carme 68 di Catullo (vv. 17-18):”non est dea nescia nostri,/quae dulcem curis miscet amaritiem “, non mi ignora la dea[255] che agli affanni mescola dolce amarezza. L’ossimoro è divenuto un luogo comune della letteratura: si possono ricordare il dulcium/mater saeva Cupidinum , madre crudele[256] di dolci amori di Orazio (Odi , IV, 1, 4-5) e la “dolcezza amara”, sia pure non erotica, di Giuseppe Giusti (Sant’Ambrogio , 65).
Questa prima donna, chiamata Pandora poiché tutti gli dèi le avevano fatto un dono, questo inganno scosceso e senza rimedio (“dovlon aijpu;n ajmhvcanon” Opere , v. 83), accolto incautamente da Epimeteo invano avvertito da Prometeo, diffuse mali e malattie sulla terra e sul mare togliendo il coperchio all’orcio dove erano rinchiusi:”pleivh me;n ga;r gai’a kakw’n, pleivh de; qavlassa”, v. 101, piena è la terra di mali e pieno il mare. Nel vaso, sul quale infine Pandora ripose il coperchio per volere di Zeus, rimase solo la Speranza (Mouvnh d& aujtovqi jElpiv”, v. 96).
A questo punto il mito della prima donna si collega a quello dell’età dell’oro.
La storia del decadimento dall’aurea stirpe primigenia (cruvseon me;n prwvtista gevno”, v. 109) a quella finale, e attuale, ferrigna ( nu’n ga;r dh; gevno” ejsti; sidhvreon, v. 176), prende l’avvio dal racconto dei mali conseguiti alla mossa malaccorta o malvagia di Pandora, l’Eva dei Greci. La descrizione dell’età del ferro è ancora attuale: i suoi delitti assomigliano molto a quelli dell’ epoca moderna che “Fichte definisce epoca della colpevolezza, della “compiuta peccaminosità” ovvero della libertà vuota, del feroce conflitto che disgrega ogni ordine, della lotta egocentrica e spietata di tutti contro tutti, dell’anarchia dei particolari sradicati da ogni totalità”[257]. In sintesi estrema Esiodo afferma che gli uomini useranno il diritto del più forte (ceirodivkai , v. 189) in tutte le loro relazioni, una legge che è naturale per gli animali ma non per gli uomini: infatti la violenza è cattiva per il misero mortale (v. 214) e la giustizia prevale sulla violenza:”divkh d j uJpe;r u{brio” i[scei” (v. 217).
Lucrezio considera non del tutto aurea l’età primitiva: allora un genere umano molto più duro (multo…durius V, 925-926) in quanto creato da una tellus…dura , tirava avanti la vita secondo il modo errabondo delle belve (“vulgivago vitam tractabant more ferarum “, v. 932). Gli esseri umani non coltivavano la terra accontentandosi di quello che essa creava “sponte sua “, v. 938). Mangiavano ghiande e corbezzole e altre dure pasture (pabula dura , v. 944) comunque abbondanti per i miseri mortali (miseris mortalibus ampla ). Per quanto riguarda il nostro tema, ossia il rapporto tra i sessi, “Et Venus in silvis iungebat corpora amantum;/conciliabat enim vel mutua quamque cupido/vel violenta viri vis atque impensa libido/vel pretium, glandes atque arbuta vel pira lecta ” (V, 962-965), e Venere nelle selve congiungeva i corpi degli amanti; infatti conquistava ciascuna o la reciproca brama o l’impetuosa violenza dell’uomo e la passione sfrenata o una mercede: ghiande e corbezzole o pere scelte.
Condizioni, a dire il vero, non molto diverse dalle attuali. In fondo la prima mossa che si fa, tra persone civili, quando si vuole corteggiare una donna è invitarla a cena.
Il pericolo delle belve era più terrificante e deleterio: capitava spesso che qualcuno di quei primitivi offrisse viva pastura alle fiere (pabula viva feris praebebat , v. 991) “et nemora ac montis gemitu silvasque replebat/viva videns vivo sepeliri viscera busto ” (vv. 992-993), e riempiva i boschi i monti e le foreste di gemiti, vedendo i visceri vivi mentre venivano sepolti in un vivo sepolcro. Nota bene Ivano Dionigi che “la sapiente combinazione degli elementi fonici (allitterazione e poliptoto) conferisce al verso pateticità e anche cupezza (si badi al martellante suono v )”[258]. Il professore dell’Ateneo bolognese ricorda anche, molto a proposito, che l’immagine dell’animale come sepolcro vivente risale a Gorgia che definisce così gli avvoltoi:” Gu’pe” e[myucoi tavfoi” (in Subl. 3, 2). Quelli che non morivano subito rimanevano straziati finché atroci spasimi li privavano della vita. Questa è la parte negativa, ma ce n’è anche una positiva nell’età più antica: le guerre non distruggevano in un sol giorno molte miglia di uomini schierati, né c’era la morte per acqua marina:”nec poterat quemquam placidi pellacia ponti/subdola pellicere [259] in fraudem ridentibus undis./Improba navigii ratio tum caeca iacebat “(V, 1004-1006), né la seduzione subdola del mare in bonaccia poteva trarre in inganno alcuno con il sorriso delle onde[260]. Allora la detestabile arte del navigare giaceva sconosciuta.
E’ questa una delle tante espressioni contrarie alla navigazione dettata da brama di lucro. Si ritrova nell’età dell’oro raffigurata da Tibullo: sotto il regno di Saturno, al tempo dell’armonia tra l’uomo e la natura, non c’erano le navi, non c’era il commercio, né l’aggiogamento del toro, né l’imbrigliamento del cavallo, né la proprietà privata, né il profitto: allora la terra con i suoi figli, piante e animali, erano generosi nei confronti degli uomini e questi vivevano senza preoccupazioni :”nondum caeruleas pinus contempserat undas,/effusum ventis praebueratque sinum;//nec vagus ignotis repetens compendia terris/presserat externa navita merce ratem.// llo non validus subiit iuga tempore taurus,/non domito frenos ore momordit equus; // non domus ulla fores habuit, non fixus in agris/qui regeret certis finibus arva lapis// Ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant/obvia securis ubera lactis oves” (I, 3, 37-46), ancora il pino non aveva sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti il seno aperto[261]: né il marinaio errante cercando profitti in terre ignote aveva caricato la barca di merci straniere. in quel tempo il toro robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non morse il freno con bocca domata; le dimore non avevano porte, non c’era pietra conficcata nei campi che segnasse la terra da arare con limiti certi. Le querce offrivano il miele da sé, e le pecore spontaneamente portavano le poppe gonfie di latte a quegli uomini senza preoccupazioni. La navigazione è uno degli aspetti della violenza umana nei confronti della natura, come fa notare già Sofocle nel Primo Stasimo dell’Antigone .
Non meno negativamente considera la traversata marina Properzio il quale anzi impreca contro l’inventore di quel viaggiare marino che lo ha portato lontano da Cinzia:”A pereat, quicumque ratis et vela paravit/primus et invito gurgite fecit iter ” (I, 17, 13-14), ah, perisca chiunque per primo costruì le navi, e si aprì il cammino tra i gorghi riluttanti.-ratis=rates.
Anche Seneca attraverso il coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo audace per l’uomo:” Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque sua posterga videns/animam levibus credidit auris ” (vv. 301-304), Audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la terraferma affidò la vita ai venti incostanti.
Ma torniamo a Lucrezio il quale procede con una riflessione anticonsumistica e con una denuncia morale dal tono ironico:” Tum penuria deinde cibi languentia leto/membra dabat, contra nunc rerum copia mersat ./Illi imprudentes ipsi sibi saepe venenum/vergebant, nunc dant (aliis) sollertius ipsi ” (vv. 1007-1010), allora la penuria di cibo dava di conseguenza alla morte le membra stremate, ora al contrario le sommerge la dismisura dei consumi. Quelli senza saperlo spesso versavano veleno a se stessi, ora più ingegnosamente gli stessi lo somministrano ad altri.
Seguono alcune luci sull’incivilimento che ammorbidisce gli animi , ma come si vede non mancano le ombre. Il verbo mollescere del v. 1014:”tum genus humanum primum mollescere coepit ” significa diventare mollis e quindi si può tradurre con “rammollirsi”. Dionigi nel commento citato sopra sostiene che Lucrezio “sembra preferire” la vita dell’uomo primitivo “a quella dell’uomo civilizzato, minacciato da guerre, sazietà, inganni (vv. 999-1010)”[262], mentre secondo Bettini l’intento di Lucrezio è stato quello di indicare “nel lavoro un valore positivo e laico, l’unico mezzo attraverso il quale, faticosamente, l’uomo poteva elevarsi al di sopra di una condizione primitiva semiferina”[263]. Forse la soluzione di sintesi tra il bello arcaico e quello moderno si trova nella dichiarazione di Pericle, emblematica non solo della cultura greca ma di tutta la migliore cultura europea :”filokalou’mevn te ga;r met& eujteleiva” kai; filosofou’men a[neu malakiva””(II, 40, 1), amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.
Il veternus in Virgilio e Orazio.
Virgilio nella I Georgica dà una spiegazione diversa della genesi dell’età moderna: Giove procurò agli uomini fatiche e angosce (curae ) in quanto non lasciò che il suo regno restasse paralizzato in un pesante letargo”nec torpere gravi passus sua regna veterno ” (v. 124). Secondo Bettini, l’autore delle Georgiche tenta di mediare tra la posizione di Lucrezio e quella di Esiodo il quale “aveva affermato che il lavoro umano aveva avuto origine da una punizione divina, secondo una prospettiva religiosa che ritroviamo anche nella Bibbia”. Virgilio dunque compie la sua mediazione “conservando da un lato il valore positivo del lavoro, ma conciliandolo dall’altro con l’idea di una giustizia e di una provvidenza divina. Centrale è il concetto di veternus , una specie di pigra indolenza, un torpore che affliggeva l’umanità nell’età dell’oro, e che avrebbe indotto Giove a introdurre il lavoro nel mondo, per stimolare l’ingegno umano e rendere gli uomini attivi, vigile e intraprendenti”[264] . Concezione simile si trova nel De providentia di Seneca il quale trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda) nei dolori e nelle perdite quali prove per esercitare e temprare la virtus :”Marcet sine adversario virtus” (2, 4), senza un avversario la virtù marcisce; e dio nei confronti degli uomini buoni ha l’animo di un padre, li ama con forza, e ha questi progetti:”Operibus, inquit, doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robur” (2, 6), con lavori, dolori, perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. “Languent per inertiam saginata nel labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt“, infiacchiscono nell’ozio i corpi ingrassati e non solo per la fatica ma per il movimento e il loro stesso peso vengono meno. E’ la medesima impostazione del Giobbe biblico:”Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l’innesto operato dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di questo “perché”[265] potrebbe essere il Libro di Giobbe “[266]. Questo dovrebbe risalire al V sec. a. C. Ne riporto una massima:”Felice l’uomo che è corretto da Dio”[267]. C’è un Giobbe moderno (1930) di Joseph Roth, un pio ebreo orientale, Mendel Singer:”la sua vita era una perpetua fatica”. Aveva un figlio piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre Deborah:”il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l’amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanze”[268].
Il veternus è presente in un’accezione psicologica-individuale in un altro poeta augusteo: Orazio nell’Epistola I, 8 lo menziona come un vizio della sua anima malata: egli vive male non perché gli manchino i mezzi materiali “sed quia mente minus validus quam corpore toto/nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum;/fidis offendar medicis, irascar amicis,/ cur me funesto properent arcere veterno;/ quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam;/ Romae Tibur amem ventosus, Tibure Romam ” (vv. 7-12), ma perché meno forte nello spirito che in tutto il corpo, niente voglio sentire, niente imparare che mi tiri fuori dalla malattia, mi urto con i medici fidati, mi arrabbio con gli amici, perché hanno premura di allontanarmi da questo letargo funesto: seguo ciò che mi ha danneggiato, fuggo ciò che penso mi gioverà; a Roma amo Tivoli, in preda ai venti, a Tivoli Roma.
La stessa malattia che spinge a cambiare continuamente luogo per trovare la pace, invano, chi sta male con se stesso è denunciata, in Epistola I, 11, con un ossimoro:”caelum, non animum mutant qui trans mare currunt./Strenua nos exercet inertia ” (vv. 27-28), cambiano il cielo, non lo stato d’animo quelli che corrono al di là del mare, non ci lascia in pace un’ agitata indolenza. Questa deriva dalla sensazione che gli spiriti raffinati provano quando tutto viene deciso dall’alto, di non potere cambiare nulla. E’ uno stato d’animo descritto da Musil con l’immagine efficace, il correlativo oggettivo, della carta moschicida che un poco alla volta blocca le vite dei giovani come fossero mosche: “qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché son sepolti in un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale”[269].
Ma torniamo alla considerazione delle età del mondo.
Più nota è la precedente posizione di Virgilio nella quarta ecloga dove è annunciato una nuovo ciclo di età (saeclorum ordo , v. 5) coincidente con la nascita di un puer (v. 8), il ritorno della Virgo (la Giustizia), dei Saturnia regna (v. 6), di una nova progenies, una nuova razza (v. 7) e della gens aurea al posto di quella ferrea (v. 8 e v. 9). Qui c’è l’attesa della seconda età dell’oro che giungerà alla perfezione quando il misterioso puer sarà giunto all’età virile: allora ogni terra produrrà tutto da sola senza subire violenza dall’uomo, le dure querce suderanno roridi mieli, il mare sarà libero dalle navi e il marinaio liberato dai pericoli marini, mentre gli animali nocivi periranno, quelli utili verranno liberati, e, per quanto riguarda la donna-madre ella dovrà sorridere al bambino, il puer simbolo della rinascita, chiunque egli sia. Infatti il bambino privato del sorriso dei genitori non potrà mai raggiungere l’eccellenza.
L’età del ferro viceversa, e la terra ammorbata dai delitti dei capi, sono caratterizzati dalla mancanza di sorrisi: la Tebe di Edipo è piena di gemiti (Edipo re , v. 5) e nella Scozia che, sconciata dai delitti di Macbeth, sembra una tomba, non si vede sorridere nessuno se non chi nulla conosce (IV, 3). E’ il mondo nuovo, o rinnovato, e l’umanità non ancora conosciuta che fa sorridere di speranza: alla fine del La Tempesta Miranda esclama: oh meraviglia ! Quante creature ottime ci sono qui! Com’è bella l’umanità! O prode mondo nuovo (brave new world) con tali persone; e il padre, Prospero, che il mondo lo conosce, le fa: ‘ Tis new to thee , per te è nuovo (V, 1).
Per quanto riguarda i Saturnia regna, il regno di Saturno, questo coincide con l’età dell’oro che “una tradizione particolarmente ravvivata nell’età augustea poneva sotto il regno di Saturno nel Lazio (cfr. Aen. VIII 319 ss.)[270]“, ma Virgilio non chiarisce il problema del potere ideale che invece è spiegato da Seneca il quale in un’ Epistola a Lucilio cita Posidonio[271] :”Illo ergo saeculo quod aureum perhibent penes sapientes fuisse regnum Posidonius iudicat. Hi continebant manus et infirmiores a validioribus tuebantur, suadebant dissuadebantque et utilia atque inutilia monstrabant; horum prudentia ne quid deesset suis providebat, fortitudo pericula arcebat, beneficentia augebat ornabatque subiectos. Officium erat imperare non regnum ” (90, 5), Posidonio ritiene che in quella famosa età che chiamano dell’oro il potere fosse in mano ai sapienti. Questi reprimevano la volenza, e proteggevano i più deboli dai più forti, persuadevano e dissuadevano e indicavano le cose utili e le inutili; la loro preveggenza faceva in modo che nulla mancasse ai loro concittadini, la loro energia teneva lontani i pericoli, i benefici potenziavano e onoravano i sudditi. Comandare era un dovere non un atto di potere. Pensiero analogo nel Manzoni che scrive a proposito del cardinal Federigo Borromeo:”Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle”[272] Lo stesso concetto si trova in di E. Fromm:”Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l’uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà” [273].
Poco posteriore alla IV ecloga ( scritta nel 40 a. C. anno della pace di Brindisi tra Ottaviano e Antonio e del consolato di Asinio Pollione) è l’Epodo 16 di Orazio composto probabilmente “dopo che Sesto Pompeo nel 38 ha ricominciato la sua guerra sul mare, minacciando di affamare l’Italia”[274]. Roma che i tanti nemici esterni non riuscirono a distruggere, prevede cupamente il poeta, “impia perdemus devoti sanguinis aetas “(v. 9), la distruggeremo noi, generazione empia nata da un sangue maledetto, con riferimento al fratricidio primigenio di Romolo. Anche la funzione della donna è ribaltata rispetto al messianico testo virgiliano dove la madre è rappresentata ridente: alle donne, con ricordo archilocheo[275] che avrà un seguito in Tacito[276], si addice il luctus che il vir, cui si confà la virtus, deve evitare:”vos quibus est virtus, muliebrem tollite luctum ” (v. 39), voi che avete coraggio virile togliete di mezzo il lamento da femmine. Si dovrà volare al di là dei lidi etruschi, verso le isole felici dell’Oceano. In quei luoghi la terra è generosa, gli animali produttivi, il clima mite, le donne pudiche poiché non hanno avuto il cattivo esempio di quella sporcacciona di Medea:”Non huc Argoo contendit remige pinus/neque impudica Colchis intulit pedem ” (vv. 59-60), qua non ha diretto la rotta la nave con i rematori di Argo, né la svergognata donna di Colchide vi ha messo piede.
Ma se le donne, soprattutto le impudiche che si innamorano e fanno l’amore, sono tanto deleterie perché gli uomini le cercano, se ne innamorano, addirittura le sposano? Lo domanda direttamente e ripetutamente la corifea nella Parabasi delle Tesmoforiazuse di Aristofane, una specie di satira della vera o presunta misoginia euripidea:” eij kako;n ejsmen, tiv gameiq& hJma’”, ei[per ajlhqw'” kakovn ejsmen” (v. 789), se siamo un male, perché ci sposate, se davvero siamo un male? Quindi la donna precisa e conclude la domanda chiedendo:”ajll& ouJtwsi; pollh’/ spoudh’/ to; kako;n bouvlesqe fulavttein; (v. 791), ma perché volete tenere con tanta cura un male del genere?
A parte che non tutti gli uomini, nemmeno tutti gli eterosessuali si sposano, una risposta a perché molti lo fanno l’ha data Schopenhauer nei Parerga E Paralipomena :”La natura ha destinato le giovinette a quello che, in termini teatrali, si chiama “colpo di scena”: infatti, per pochi anni la natura ha donato loro rigogliosa bellezza, fascino e pienezza di forme, a spese di tutto il resto della loro vita, affinché, cioè, siano capaci di impadronirsi durante quegli anni della fantasia di un uomo in misura tale, che egli si lasci indurre a prendersi onestamente una di loro per tutta la vita, in una forma qualsiasi, passo al quale la mera riflessione razionale non sembrerebbe aver dato nessuna sicura garanzia di invogliare l’uomo. Perciò la natura ha provvisto la femmina, appunto come ogni altra delle sue creature, delle armi e degli utensili di cui ha bisogno per la sicurezza della sua esistenza e per tutto il periodo in cui ne ha bisogno; e anche qui la natura ha provveduto con la sua consueta parsimonia. Come ad esempio, la formica femmina, dopo l’accoppiamento, perde per sempre le ali, superflue, anzi pericolose per la prole, così, di solito, dopo una o due gravidanze, la donna perde la sua bellezza e probabilmente, perfino, per la stessa ragione. In conformità con ciò, le giovinette considerano nel segreto del loro cuore, i loro lavori domestici o professionali una cosa secondaria, forse, perfino, un semplice trastullo: come loro unica seria professione esse considerano l’amore, le conquiste e ciò che vi si collega, come acconciature, balli, eccetera”[277]. E, poco più avanti:” per la donna una sola cosa è decisiva, vale a dire a quale uomo essa sia piaciuta” (p. 838).
L’amore che porta l’uomo a sposarsi dunque è conseguenza di un inganno, una trappola preparata dalla natura e fatta scattare dalle giovani femmine umane .
Di questo parere è anche l’uxoricida della Sonata a Kreutzer di Tolstoj:” Che poi una sia molto versata in matematica, un’altra brava a suonar l’arpa, non cambia nulla. La donna è felice e soddisfatta in ogni suo desiderio soltanto quando riesce a intrappolare un uomo. Né ad altro si ingegna, perché tale è il suo compito. Così è stato, così sarà. Così nel nostro ambiente fa una fanciulla da marito, così fa quando è maritata. Quando una è ragazza, pensa ad accaparrarsi uomini per la scelta-quando è maritata, a tener sotto i piedi il marito” (p. 341). Tutt’altra risposta ho trovato nel “dramma inedito” Platonov di Cechov :”Senza la donna l’uomo è come una locomotiva senza vapore!” (IV, 7).
Per quanto riguarda l’amore come malattia dalla quale non possiamo liberarci con la volontà sono degne di nota le considerazioni di Proust sulla mania di Swann, un ricchissimo colto, elegante signore ebreo innamorato di una cocotte, oltretutto senza esserne contraccambiato e con un’ossessione che rendeva il pover’uomo infelice fino al desiderio di morire: ebbene chi notava la sproporzione tra i due e la follia di quel sentimento parlava “con la saggezza di chi non è innamorato, che pensa che un uomo d’ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una persona che ne mettesse conto; all’incirca è come stupire che ci si degni di soffrire del colera per opera d’un essere così piccolo come il bacillo virgola”[278].
L’amore di Swann per Odette ha qualche cosa di malato dall’inizio alla fine.
La prima volta che si videro “ella era apparsa a Swann non senza bellezza certo, ma di un tipo di bellezza che gli era indifferente, che non gl’ispirava nessun desiderio, che gli dava anzi una specie di repulsione fisica” (p. 209). Alla fine della morbo amoroso, come svegliatosi da un’operazione, Swann penserà” E dire che ho perduto tanti anni della mia vita, che ho voluto morire, che ho avuto il mio più grande amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo” (p. 403). La similitudine medico-chirurgica mi è stata suggerita dallo stesso testo di Proust:”E questa malattia ch’era l’amore di Swann s’era così moltiplicata, era avvinta così strettamente ad ogni consuetudine di lui, ad ogni suo atto, alla sua mente, alla sua salute, al suo sonno, alla sua esistenza, perfino a ciò ch’egli desiderava dopo la morte, aveva finito ormai col formare una cosa sola con lui a tal punto che non sarebbe stato possibile strappargliela senza distruggere lui stesso quasi per intero: come si dice in chirurgia, il suo amore non era più “operabile” (p. 327).
Questa espressione si può accostare a una concettualmente analoga di Petronio:”sed antiquus amor ” (Satyricon 42, 7), ma un amore vecchio è un cancro.
Questo morbo era parzialità di visione, una forma di a[th o accecamento mentale che impediva di vedere nella donna :”il disordine della mente, l’insufficienza dell’educazione, la mancanza di franchezza e di volontà” (p. 237). La freccia amorosa era partita dall’impressione di una somiglianza:”ella colpì Swann per la sua rassomiglianza con quella figura di Sefora, la figlia di Ietro, che si vede in un affresco della cappella Sistina” (p.237). Dopo avere assimilato Odette all’immagine del Botticelli, egli vedeva in quella creatura “una matassa di linee sottili e belle che i suoi sguardi dipanarono, seguendo la curva del loro avviluppamento, ricongiungendo la cadenza della nuca con la flessione delle palpebre, come in un suo ritratto nel quale il suo tipo divenisse intellegibile e chiaro”( p. 238). Il mal d’amore poi crescendo diviene “una necessità ansiosa, che ha per oggetto quello stesso essere, una necessità assurda, che le leggi di questo mondo rendono impossibile da soddisfare e difficile da guarire: la necessità insensata e dolorosa di possederlo” (p. 246). L’angoscia era scoppiata una sera che Swann non trovò Odette dai Verdurin i borghesi bottegai dai quali solitamente si recava:”forse, anzi, proprio a quell’angoscia andava debitore dell’importanza che Odette aveva presa per lui. Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia”(p. 251).
La Gelosia e l’invidia “sguardo obliquo”[279].
La necessità dolorosa di dominare Odette era attivata dalla gelosia. Questa, che fa sempre parte della malattia d’amore, è descritta come un mostro edace il quale ricorda da lontano quello di Shakespeare: “il mostro dagli occhi verdi che deride il cibo di cui si pasce”[280]. Swann la sentiva “quasi che questa avesse avuto una vitalità indipendente, egoistica, vorace di tutto quanto l’alimentasse” (p. 300). Essa era “come una piovra che getta un primo, poi un secondo, poi un terzo tentacolo” (p. 301). E in un volume successivo:”La gelosia, avendo gli occhi bendati, non solo è incapace di scoprire alcunché nelle tenebre onde è avvolta; è, inoltre, uno di quei supplizi nei quali si è costretti a ricominciare senza posa il proprio lavoro, come quello d’Issione o delle Danaidi”[281].
Simile a questa gelosia l’invidia descritta dalla Zambrano come morbo sacro:”Alcune di quelle che vengono comunemente chiamate passioni, come l’invidia, distruggono l’essere che le patisce e che, allo stesso tempo, riceve vigore da esse. Chi è roso dall’invidia trova in essa il suo alimento. Una distruzione che alimenta se stessa; tale sembra essere la prima, originaria, definizione dell’invidiaLa maniera più benevola di indicare l’invidia potrebbe essere avidità “dell’altro”Avidità dell’altro potrebbe essere ugualmente la definizione dell’amorel’amore è, come l’invidia, un tormento che si alimenta di se stesso. Amore e invidia sono processi dell’anima umana in cui il patire non provoca nessuna diminuzione; il patire è il loro alimento”[282].
La follia dell’innamorato, come l’intelligenza, è intermittente, e talora Swann poteva essere lucido, almeno nelle parole, e dire a Odette:”Sei dell’acqua informe che scorre a seconda della china, un pesce immemore e senza pensiero che, finché vive nel suo acquario, cozzerà cento volte ogni giorno nel vetro, seguitando a scambiarlo con l’acqua” (p. 308). Provava con questo a dirle che avrebbe potuto cessare di amarla, ma Odette di intrighi amorosi se ne intendeva e “la sua esperienza degli uomini le permetteva di concludere, senza fermarsi ai particolari delle parole, che non le avrebbero proferite se non fossero stati innamorati, e che, poiché erano innamorati, era inutile obbedir loro, che lo sarebbero stati ancor di più dopo” (p. 309). Eppure questa malattia è anche sensibilità e vita, come per il poeta d’amore la sua schiavitù morbosa è la condizione necessaria alla poesia. Swann:”esaminando il suo male con sagacità non minore che se lo fosse incollato per studiarlo, si diceva che se se lo fosse inoculato per studiarlo, quel che faceva Odette gli sarebbe stato indifferente. Ma, in seno al suo stato morboso, a dir vero, temeva come la morte simile guarigione, che difatti sarebbe stata la morte di tutto ciò ch’egli era al presente” (p. 318).
L’amore come sofferenza e malattia risale, abbia
mo visto alla poesia greco-latina.
Archiloco è il primo poeta che dà voce alla pena amorosa:”
“infelice giaccio nella brama,/senza vita, trapassato attraverso le ossa/da duri spasimi per volere degli dèi”(fr. 104 D.).
In Archiloco il desiderio erotico diviene acuminato quanto un coltello appuntito, e il sentimento amoroso si avvicina al senso di morte, come sarà in Saffo che esprime lo smarrimento e la debolezza infusi da Eros.
Vediamo alcuni versi della poetessa di Lesbo.
Il fr.2 D. è la parte dell’ode conservata dall’Anonimo Sul sublime. del I secolo d. C. E’ forse la poesia più nota di Saffo poiché è stata tradotta in latino da Catullo nel carme 51.
Cominciamo con il darne una traduzione italiana :
” Quello mi sembra pari agli dei/essere l’uomo che davanti a te/sta seduto e da vicino ti ascolta/dolcemente parlare/e sorridere amabilmente, cosa che a me certo/sconvolge il cuore nel petto:/ appena infatti ti guardo per un momento, allora non/è possibile più che io dica niente/ma la lingua mi rimane spezzata,/un fuoco sottile subito corre sotto la pelle,/e con gli occhi non vedo nulla e mi/rombano le orecchie/e un sudore freddo mi cola addosso, e un tremore/mi prende tutta, e sono più verde/dell’erba, poco lontana dall’essere morta/appaio a me stessa/ma bisogna sopportare tutto poiché…”. Se traduciamo pa;n tovlmaton (= attico tolmhtovn) ” tutto si deve osare” possiamo trovare in queste ultime parole del frammento saffico un’anticipazione del tolmhtevon tavd& della Medea di Euripide (v.1051).
La traduzione “sopportare” invece possiamo commentarla con la Medea della Wolf:”Non sapevo che cosa è capace di sopportare un essere umano. Ora me ne sto qui seduto e sono costretto a dirmi che proprio su questa capacità di sopportare l’insopportabile e tuttavia continuare a fare ciò che si è abituati a fare, proprio su questa sinistra capacità si fonda la stabilità del genere umano”[283].
Abbiamo già detto a propsito dell’Ode chiamata “La cosa più bella” (fr. 16 LP) che Saffo costituisce anche l’archetipo delle rivendicazioni femminili. Apollonio Rodio imita quest’ode nel descrivere l’incantamento di Medea cui il cuore cadde dal petto, si oscurarono gli occhi, un caldo rossore prese le guance; inoltre non ebbe la forza di sollevare le ginocchia né avanti né indietro, ma restò pietrificata sotto, nei piedi. E’ una descrizione più precisa e dettagliata ma la noncuranza spesso geniale, talvolta difettosa, dei grandi è comunque preferibile all’ineccepibile correttezza di Apollonio Rodio, come ha già detto l’Anonimo Sul Sublime .
Qui finisce la citazione dell’Anonimo Sul Sublime il quale si chiede (10) dove stia la grandezza di Saffo e risponde che la poetessa “è straordinaria nello scegliere e connettere insieme i vertici e le tensioni massime” della pazzia amorosa.
Anche Leopardi, quando tratta di bellezza nello Zibaldone (pp. 3443-3444), cita, in greco, i vv. 5-6 di questo carme , dopo avere riportato questi della Canzone XIV di Petrarca ( Rime , CXXVI, 53-55): “Quante volte diss’io/allor pien di spavento/”Costei per fermo nacque in paradiso!”.
Dicevo che il carme 51 di Catullo traduce questi versi fino al 12, quindi abbandona il modello, forse per un altro, operando così una contaminatio .
Diamo anche la traduzione dell’ode catulliana:”Quello mi sembra essere simile a un dio/quello, se non è una bestemmia, superare gli dei/l’uomo che sedendo di fronte continuamente ti/osserva e ti ascolta/mentre sorridi con dolcezza, il che a me infelice/porta via tutti i sensi: infatti appena ti vedo, Lesbia, non mi rimane nemmeno/un filo di voce in bocca/ Ma la lingua si paralizza, sotto le membra sottile/scorre una fiamma, e per un suono loro/squillano le orecchie, gli occhi si coprono/di una doppia notte./Lo stare senza far niente ti fa male Catullo:/stando senza far niente ti esalti e ti sfreni troppo./Lo stare senza far niente ha già mandato in rovina/ re e città opulente “.
Direi che le parole della poetessa greca sono più concrete non solo perché, come scrive Pavese “il realismo, in arte, è greco”[284], ma anche perché nella donna l’amore mancato, o la gelosia qual è in questo caso il motivo della pena, infligge maggiore sofferenza corporea; così l’amore appagato dà più gioia anche fisica al sesso femminile. Lo rinfaccia Giove a Giunone dopo avere ruzzato con lei, come si legge in un passo delle Metamorfosi di Ovidio considerato, anche da Eliot[285] “di grande interesse antropologico”: Maior vestra profecto est/quam quae contingit maribus, dixisse, voluptas “, certo il vostro piacere, disse, è più grande di quello che tocca ai maschi (III, 320-321) . La dea non fu d’accordo, quindi decisero di chiedere il parere del sapiente Tiresia il quale era esperto di entrambi i sessi:”Illa negat ; placuit quae sit sententia docti/quaerere Tiresiae: Venus huic erat utraque nota, vv. 322-323). Il doctus confermò la tesi di Giove, a carissimo prezzo: la dea, adiratasi più del giusto, gli tolse gli occhi . Allora il padre onnipotente “pro lumine adempto/scire futura dedit” (vv. 337-338), per la luce perduta gli diede la preveggenza del futuro.
Il tovpo” è quello della cecità fisica che, come in Edipo, diviene lucidità e chiaroveggenza mentale. Il punto di partenza è il sesso.
Un altro frammento di Saffo rappresenta lo sconvolgimento causato dall’amore come una tempesta:” Eros mi ha squassato l’anima, come vento che nel monte si abbatte sulle querce” (fr. 50 D.). “L’immagine è singolare e pertinente: l’amore scuote Saffo come il vento scuote le querce, e il dato essenziale del paragone è che l’attacco è violento e fisico: la raffica improvvisa è simile al tipo di passione a cui ella si riferisce”. Così Bowra[286], ma io credo che lo scuotimento sia prima di tutto mentale.
Amore come uragano e follia si trova successivamente nel frammento (6 D.) più famoso di Ibico (seconda metà del VI secolo): “in primavera firiscono i meli cotogni, alberi sacri ad Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov’è il giardino intatto delle vergini, e i fiori della vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e tormentoso. Come Borea tracio bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di Cipride con aride follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al mio cuore”.
“Questa visione di Eros divinità terribile per la follia che provoca nella vita umana, magico potere che impone all’uomo una condotta a lui estranea, trovava forse consonanze (non ancora rilevate dalla critica) nella cultura tardo arcaica, se Simonide poteva rappresentare la passione d’amore come assillo (oi’jstro”) di Afrodite, come divino potere ossessivo capace di limitare in chi ne è posseduto la possibilità di essere valente nei termini dell’etica aristocratica dell’ ajgaqov”. Di qui l’avvio verso opinioni, che diverranno correnti nella cultura del IV secolo, di Eros demone distruttore da temersi per le catastrofi che suscita con le folli passioni, o dell’amore come malattia, come elemento negativo della fuvsi”, o come fatto dell’io irrazionale. La struttura del frammento si articola nell’antitesi tra la figurazione realistica di un giardino sacro alle ninfe, fiorente nel lieto rigoglio di primavera, e il destino del poeta custodito senza tregua da un Eros ardente e tempestoso come l’invernale vento di Tracia”[287].
L’assillo potente di Afrodite tessitrice di inganni in Simonide è una delle cause (con la brama di guadagno e quella delle contese) che possono impedire all’uomo di essere valente. L’ assillo che tormenta come persecuzione amorosa si trova anche in Eschilo: nel Prometeo incatenato la fanciulla Iò bramata da Zeus e trasfigurata in mucca (v. 588) , viene punta, perseguitata da un assillo (oistro” , v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi(v. 569).
Dostoevskij attraverso Dimitri Karamazov interpreta lo struggente desiderio amoroso come una tempesta nel sangue:”Sono tempeste, perché la lussuria è una tempesta più di ogni altra”. Tali perturbazioni sono scatenate dalla bellezza:”La bellezza è una cosa terribile, una cosa spaventosa. E’ terribile perché è indefinibile, e non si può definirla perché Dio l’ha circondata di enigmi”[288].
La sofferenza amorosa può essere tanto intensa da portare al desiderio di morire.
L’affratellamento amore/morte più famoso è quello del canto di Leopardi, ma il nesso è già reperibile in Saffo:”teqnavkhn d& ajdovlw” qevlw” (96D., v. 1) sinceramente vorrei essere morta. In questo frammento tra l’altro ci sono corone di rose e viole (i[wn kai; brovdwn) con lo “strano” accostamento floreale che si ritrova nel poeta di Recanati[289]. Vediamo la prima parte di quest’ode, fin dove è intellegibile: “Vorrei davvero essere morta./Ella mi lasciava, piangendo/ molto e questo mi disse:/”ahimé come terribilmente soffriamo,/Saffo, certo contro voglia ti lascio”./Io allora le rispondevo con queste parole:/”vai, sii felice e ricordati/di me: sai infatti quanto mi prendevo cura di te./Se no, io voglio/ ricordarti/di quante cose belle e delicate abbiamo gioito:/infatti vicina a me ti cingesti/il capo con molte corone/di viole, di rose[290]/e di crochi insieme,/e molti serti intrecciati fatti di fiori/ponesti intorno/ al collo delicato/e tutto il corpo ungesti/con unguento regale..”.
Bowra parla del legame tra amore e morte partendo dal primo verso citato sopra in greco: “Il desiderio di morte degli amanti è un luogo comune della poesia a partire dall’età ellenistica, e benché rifletta un’emozione genuina, è spesso un cliché privo di sincerità; ma noi sentiamo che Saffo dice proprio quello che prova. Le sue parole sono così disadorne che non possiamo prenderle se non alla lettera, e dobbiamo prestarle fede quando afferma di parlare ajdovlw”. Si ha l’impressione che il suo senso di abbandono, di solitudine l’abbia così stremata da farle sembrare desiderabile l’annientamento. Forse in uno stato d’animo del genere ella scrisse i versi seguenti:”un desiderio di morire mi possiede, e di vedere le rugiadose spiagge dell’Acheronte coperte di loto” (Fr. 95, 11-13 L.-P.). La visione dell’Acheronte, con la vivacità dei particolari, implica un dolore meno violento: Saffo è qui per lo meno in grado di chiedersi che cosa significhi la morte”[291]. Un’esempio di poesia ellenistica di questo connubio amore/morte possiamo ricavarlo dal primo idillio di Teocrito dove Dafni canta:” h’j ga;r ejgw;n uJp& e[rwto” ej” JvAidan eJlkomai h[dh” (v. 130), io oramai da Eros vengo trascinato nell’Ade.
Il desiderio di morte nell’amante può essere volontà eroica di salvare l’amato e la famiglia:”uJperapoqnhv/skein ge movnoi ejqevluosin oiJ ejrw’nte”” (Simposio , 179b), e non solo gli uomini, precisa Platone, ma anche le donne, come fece Alcesti .
” Eroe è Alcesti, come nel suo stesso nome si annuncia: alké è il coraggio, ma il coraggio che si manifesta essenzialmente nel prestare aiuto, nell’aver cura, nel proteggere (Alkìdes, l’attributo di Ercole). Tale coraggio la rende famosa (eukleés[292]), la fa migliore di tutte (arìste[293]): così lei stessa si apostrofava nella tragedia di Euripide[294], e così già Omero la chiamava (Iliade, II, 715): dia Alkestis, Alcesti divina, arìste tra le figlie di Pelia”[295].
L’eroismo più in generale comporta anche la disponibilità a morire nel caso che non si possa vivere secondo la propria natura e il proprio destino. Achille non può cedere in battaglia (ouj lhvxw , non cederò grida in Iliade , XIX, 423) né Alcesti può diventare vedova: “l’areté di Alcesti si staglia sullo sfondo della philopsychìa[296] dei polloì, dei molti ‘cattivi’ e cioè privi di valore, che hanno come unico fine il proprio benessere. Per l’eroe non vale mai quella dira cupido di sopravvivere, che domina l’animo dei molti. Per lui è possibile vita solo se perfettamente fedele-responsabile del proprio destino”[297].
In Amore e Morte di Leopardi il principio e la fine del nostro esistere sono quanto di meglio c’è nell’universo mondo: due fratelli, due fanciulli bellissimi che vengono in soccorso dei mortali:” Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ingenerò la sorte./ Cose quaggiù sì belle/ altre il mondo non ha, non han le stelle./ Nasce dall’uno il bene,/nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell’essere si trova;/l’altra ogni gran dolore,/ogni gran male annulla./Bellissima fanciulla,/dolce a veder, non quale/la si dipinge la codarda gente,/gode il fanciullo Amore/accompagnar sovente;/e sorvolano insiem la via mortale,/primi conforti d’ogni saggio core” (vv. 10-16). Non solo la morte ma soprattutto l’amore era stato ampiamente calunniato dai poeti, come si è visto nel nostro percorso, e Leopardi, nonostante la sua “vita strozzata” lo riabilita rappresentandolo come un “fanciullo” che rivitalizza le anime morte degli adulti poiché “I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto”[298]. Un concetto ribadito, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri :” Diceva che i diletti più veri della nostra vita sono quelli che nascono dalle immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uonini il niente nel tutto”. Nella vita umana c’è la possibilità miracolosa di ritrovare la forte capacità immaginativa dei fanciulli anche dopo che l’adolescenza è passata. Quando riceviamo i benefici di Amore, che arriva come la grazia di Dio, tornano a confortarci “le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana…E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri”[299]. La Storia del genere umano finisce ricordando gli innumerevoli “obbrobri” che gli uomini “inesperti e incapaci de’ suoi diletti” hanno rivolto contro Amore ma questo dio non li ode “e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto”. La punizione di chi non comprende Lui e gli altri dei è “di essere alieni anche per proprio nome dalla grazia di quelli”. Così, citando Leopardi, cerchiamo di farci perdonare per tutte le maldicenze e le maledizioni precedenti contro l’unico dio che rende degna di essere vissuta questa vita altrimenti squallida e a stento degna di essere vissuta.
In D’Annunzio il desiderio di morte collegato all’amore è solo distruttivo. Ne La città morta ( dramma del1896) si trova l’intreccio amore incestuoso-morte violenta. Qui la voluttà suprema è data dalla soppressione del corpo amato. Il dramma è ambientato nell’Argolide sitibonda, vicino alle rovine di Micene ricca d’oro. In questo luogo Bianca Maria legge l’Antigone e sente di avere il destino dell’eroina greca: di essere consacrata al fratello Leonardo. Ebbene questo la uccide poiché è innamorato della morte e non vuole che la sorella si contamini:”Per poterla riamare così, io l’ho uccisa…Ella è perfetta; ora ella è perfetta. Ora ella può essere adorata come una creatura divina”.
Sentiamo ancora G. B. Conte sull’amore come malattia:”L’esperienza d’amore come esperienza di sofferenza non è novità dell’elegia latina. E’ questo, anzi, il nucleo generatore di un’ampia serie di connotazioni che nella tradizione della letteratura d’amore si dispongono tutt’intorno alla metafora dell’eros-nosos: amore malattia, amore-ferita, amore-follia, amore-veleno (l’elegia latina, si sa, lavora quasi sempre su materiale di riuso, mutuandolo consapevolmente dal tesoro della grande erotica greca; parla, con accenti propri, una lingua comune). Nel caso dell’eros-nosos la cifra propriamente elegiaca consiste in una particolare declinazione del paradigma: amore non soltanto è malattia, ma anche e soprattutto malattia immedicabile: Omnis humanos sanat medicina dolores:/solus amor morbi non habet artificem [300] (Properzio 2, 1, 57 s.). La medicina toglierebbe la malattia, ma insieme toglierebbe la possibilità stessa di fare poesia in forma elegiaca, giacché la forma dell’esperienza elegiaca sta anche nella costrittività di questo binomio: malattia e rifiuto di guarigione. Non a caso la guarigione riuscita ( e la liberazione dai vincoli dolorosi del servitium ) sarà posta alla chiusa della più grande raccolta di Properzio, dove significa insieme fine reale dell’amore e commiato del genere (3, 24, 17 s.)”[301]. Concludo questa serie di considerazioni malevole sull’amore mettendo in guardia i giovani contro i luoghi comuni, letterari e non, se essi non accrescono la vita. Autorizzo questa mia avversione attraverso Seneca:”nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur ” (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori che il fatto di regolarci secondo il “si dice”. Questi qui presentati sono naturalmente tovpoi assai nobili, ma bisogna stare sempre attenti a non vivere “ad similitudinem ” invece che “ad rationem “, imitando piuttosto che ragionando.
Concludiamo il capitolo con alcune testimonianze sull’ Amore come squilibrio e contraddizione insanabile.
Anacreonte confessa la propria follia intermittente nell’amore dissociato e contraddittorio:” ejrevw te dhute koujk ejrevw-kai; maivnomai kouj maivnomai” (fr. 79 D.), amo e poi invece non amo, sono pazzo e non sono pazzo.
Questi dimetri giambici contengono un motivo topico che si trova pure nella silloge teognidea (“il mio animo sta in pena per amor tuo, e non posso odiarti né amarti”, vv. 1091-1092) e avrà un lungo seguito nella letteratura europea.
Molto noto è il distico elegiaco del carme 85 di Catullo:“Odi et amo . Quare id faciam, fortasse requiris./Nescio, sed fieri sentio et excrucior .”, odio e amo. Forse tu domandi come faccia questo. Non so, ma sento che accade e mi tormento. “Nota l’antitesi fra faciam e fieri : quello che accade non è un qualcosa che Catullo sia in grado di controllare, ma qualcosa che accade e che lui può solo subire, sentire nelle sue conseguenze dolorose (non a caso il poeta dice excrucior , utilizzando una forma medio-passiva, anziché usare il riflessivo me excrucio , che porrebbe con maggior vigore l’accento sul suo ruolo di soggetto attivo). L’analisi razionale non conduce al dominio dei sentimenti ma solo alla loro osservazione, all’ammissione di trovarsi in loro balia”.[302]
L’ossimòro condensa la contraddizione lacerante del poeta che dissocia l’amare dal bene velle: la componente sensuale da quella affettiva, come chiarisce bene il distico finale del carme 72 :”Qui potis est?, inquis. Quod amantem iniuria talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus “(vv. 7-8), come può essere?, chiedi. Poiché una tale offesa costringe l’amante ad amare di più ma a voler bene di meno.
Su questa linea Paolo Silenziario, autore che si colloca tra la tarda antichità e l’inizio della cultura bizantina (VI sec. d. C), in uno dei suoi circa ottanta epigrammi rimasti nell’ Antologia Palatina considera l’oltraggio della donna che gli ha sbattuto la porta in faccia aggiungendo parole ingiuriose come una forma di uJvJJJvJvbri” che eccita ancora di più il suo folle amore:”uJvbri” ejmh;n ejrevqei ma’llon ejrwmanivhn” (V, 256)
Il poeta di Sirmione nel carme 8 rivolge un’apostrofe a se stesso per trovare la forza di uscire dallo squilibrio che lo tormenta:”Miser Catulle, desinas ineptire ” (v. 1), povero Catullo smetti di essere folle.
“La logica che domina la poesia d’amore di Catullo è quella della contraddizione: nel compiaciuto e insistente ricorso all’autocommiserazione, che lo spinge addirittura a trasferire il proprio ego in personaggi femminili (Arianna, Berenice)…Nell’ambito della logica della contraddizione è scontato che si debba assistere a tentativi di conciliazione degli opposti: nel c. 85 l’antitesi fra bene velle e amare si condensa nell’ossimorico odi et amo , mentre nel c. 92 a Lesbia, che parla male di Catullo fa da pendant un Catullo che la copre d’improperi e tuttavia l’ama”[303].
La logica aperta al contrasto è tipica dei Greci.
Questa logica che non esclude la contraddizione secondo S. Mazzarino è tipica della cultura aristocratica dei Greci:”La nostra logica è rettilinea, astratta: quella dei Greci è sempre aperta al contrasto. Nell’Oresteia di Eschilo Divka Divkai (xymbaleî ) “Dika si scontrerà con Dika”[304]: ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell’Oresteia , quella “matriarcale” di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos di Eschilo non può sacrificare) contro quella “patrilinea” di Oreste (e di Apollo, il dio degli Alcmeonidi legati al ghénos Eupatrida di Eschilo). Così in Erodoto: c’è la “tirannide” dei Greci nemica di Dike; ma c’è anche la “tirannide” di Deioce per cui i Medi hanno kòsmos ed eunomìa , e la “tirannide” di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono “libertà”, eleutherìa “[305]. Più avanti (p. 329) l’autore de Il pensiero storico classico aggiunge:”Tucidide esprime una società aristocratica, la quale svolge sino alle estreme conseguenze la capacità greca di contemplare teoricamente le aporie del lovgo” , ed insomma fonda il suo pensiero sullo ajntilogei’n “parlare in sensi opposti”, egualmente validi. Dobbiamo ribadire questo punto: per la società aristocratica tucididea non ci può essere una Divkh sola: Divkh si scontra contro Divkh, come aveva già detto Eschilo; “utilità” si oppone a “giustizia”, come nel tucidideo dialogo dei Melii. La cultura borghese di Socrate ha invece un punto fermo: e lo può trovare soltanto nell’identificazione dell’utile col giusto, nella presenza di una giustizia assoluta”.
Il tema misei’n-filei’n prosegue in Ovidio il quale negli Amores scrive:”Odi, nec possum cupiens non esse quod odi ” (II, 4, 5) odio e non posso non desiderare quello che odio.
Nei Remedia amoris il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento tipico di anime poco fini:”sed modo dilectam scelus est odisse puellam.;/exitus ingeniis convenit iste feris./ Non curare sat est ; odio qui finit amorem,/aut amat aut aegre desinet esse miser ” (vv. 655-658), ma è un delitto odiare una ragazza amata fino a poco tempo prima;/una conclusione del genere si addice ad animi rozzi./Basta non curarsene; chi vuole finire l’amore con l’odio/o ama o con fatica smetterà di essere disgraziato.
Su questo poemetto torneremo, a lungo, tra poco, nella prossima stazione.
Ritroviamo la compresenza di stati d’animo contraddittori nell’ondeggiare psicologico e sentimentale del Petrarca:”Pace non trovo e non ho da far guerra/ e temo e spero, et ardo e son un ghiaccio,/e volo sopra ‘l cielo e giaccio in terra/e nulla stringo e tutto ‘l mondo abbraccio…Pascomi di dolor, piangendo rido,/egualmente mi spiace morte e vita:/in questo stato son, Donna, per vui” (Canzoniere , CXXXIV).
Saltiamo a D’Annunzio e al già citato Trionfo della morte dove troviamo le coppie amore-odio e amore-morte.
Questo romanzo (de1894) è il manifesto sensuale del superuomo o piuttosto della superfemmina: Ippolita Sanzio, amante e nemica del protagonista Giorgio Aurispa, alter ego dell’autore.
La donna aveva quel genere di bellezza che flagella gli uomini e li fa desiderosi. L’uomo sa che lei è volgare e che è lui a vestirla di idealità:” sotto al sentimento da lei suscitato si moveva quel medesimo odio: il mortale odio dei sessi. Ella è dunque la Nemica, pensò Giorgio. “Finché vivrà, finché potrà esercitare sopra di me il suo impero, ella mi impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo..Per rivivere e per conquistare, bisognerebbe che io mi affrancassi dall’amore, che io mi disfacessi della Nemica”[306]. Ippolita operava su di lui un’ossessione carnale. Giorgio, “come il poeta dell’Epipsychidion [307] , in un’esistenza anteriore non aveva forse amato Antigone?” (p.338). Ma questo non bastava poiché “ancora una volta la Nemica esperimentava su di lui trionfalmente, il suo potere” (p. 339).
Dalla dialettica di ostilità e desiderio sorgeva una lussuria più acre e penetrante. Aurispa pensava: “La vita interiore è stata sempre ed è sempre in lei fittizia. Interrotta la mia suggestione, ella ritorna alla sua natura, ella ridiviene una femmina, uno strumento di bassa lascivia. Nulla potrà mutare la sua sostanza, nulla potrà purificarla. Ella ha il sangue plebeo, e nel sangue chi sa quali eredità ignobili! Ma io non potrò mai sottrarmi al desiderio ch’ella ha acceso in me. Non potrò mai estirparla dalla mia carne. E da ora in poi non potrò vivere né con lei né senza di lei. So che debbo morire. Ma la lascerò io a un successore? L’odio contro la creatura inconsapevole non gli si era mai sollevato con tanto impeto “(p.378). Abbiamo già detto che i due amanti finiranno precipitando “nella morte avvinti” (p. 404).
Ne Il fuoco ( del 1900), il romanzo che costituisce il manifesto letterario del superuomo, la Foscarina, la grande attrice amante di Stelio Effrena l’imaginifico, è altresì la sua nemica, avvelenata dall’arte:”s’erano congiunti come in una mischia; avevano sentito nella saliva il sapore del sangue. D’improvviso, avevano ceduto a un impeto di desiderio come a una cieca volontà di distruggersi. L’uno aveva scosso la vita dell’altra come per isvellerla dalle infime radici. Spasimando avevano sentito l’acutezza dei denti nei loro baci crudeli…V’erano azioni da compiere pel mondo, conquiste da proseguire, sogni da esaltare, destini da sforzare, enigmi da tentare, lauri da cogliere. V’erano cammini laggiù, misteriosi d’imprevedibili incontri…Ma egli era là, nella carcere del suo corpo, giacente sotto il peso della donna disperata…La volontà dell’una diceva:”Io ti amo e ti voglio tutto per me sola, anima e corpo”. La volontà dell’altro diceva:”Io voglio che tu mi ami e mi serva, ma non posso rinunziare nella vita a nessuna cosa che ecciti il mio desiderio”. La lotta era ineguale e atroce”[308].
In conclusione :”La donna impara ad odiare nella misura in cui disimpara a sedurre”[309].
L’uomo forse si avvia piuttosto a morire come abbiamo visto nel caso di Alcibiade.
Dal momento che si tratta di follia ora passiamo alla psicoanalisi, non senza l’antichità.
Freud sostiene che l’atto sessuale contiene le due pulsioni originarie, Eros e Distruzione, già individuate da Empedocle di cui l’inventore della psicoanalisi si riconosce debitore :” Empedocle di Acraga (Agrigento), nato all’incirca nel 495 a. C., si presenta come una figura tra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca…il filosofo, dunque, insegna che due sono i princìpi che governano ciò che accade nella vita dell’universo e nella vita della psiche, e che essi sono in perpetua lotta tra loro. Egli li chiama filiva (amore o amicizia), e nei’ko” (discordia o odio). Uno di questi poteri-che in sostanza sono per lui “forze motrici naturali, e niente affatto intelligenze con la consapevolezza di un fine”-tende ad agglomerare in unità le particelle originarie dei quattro elementi, mentre l’altro, al contrario, mira a far recedere queste mescolanze e a separare le une dalle altre le particelle originarie degli elementi…I due princìpi fondamentali di Empedocle-filiva e nei’ko”- sia per il nome, sia per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione , la prima delle quali tende ad agglomerare tutto ciò che esiste in unità sempre più vaste, mentre l’altra mira a dissolvere queste combinazioni e a distruggere le strutture cui esse hanno dato luogo”[310]. La teoria di Empedocle può avere influenzato il proemio del De rerum natura di Lucrezio:” E’ possibile che nella contrapposizione fra Venere, dea della pace, e Marte, dio della guerra, e nella possibilità dell’almeno temporanea sopravvento del principio “positivo” su quello “negativo” si debba avvertire un’influenza della teoria empedoclea relativa alla vicenda ciclica degli elementi, dominata alternativamente dai due principi cosmici di Amicizia (Filiva) e Contesa (Nei’ko” )”[311].
Il discorso viene ripreso in uno scritto successivo:”Dopo molte esitazioni e oscillazioni ci siamo decisi ad ammettere soltanto due pulsioni fondamentali: l’Eros e la pulsione di distruzione . Meta della prima di queste due pulsioni è stabilire unità sempre più vaste e tenerle in vita: unire in vita dunque; meta dell’altra, al contrario, è dissolvere nessi e in questo modo distruggere le cose. Nel caso della pulsione di distruzione possiamo supporre che il suo fine ultimo sia di portare il vivente allo stato inorganico…Nelle funzioni biologiche le due pulsioni fondamentali agiscono l’una contro l’altra oppure si combinano insieme. Così l’atto del mangiare è una distruzione dell’oggetto con il fine ultimo di incorporarlo, l’atto sessuale è un’aggressione che si propone la più profonda delle unificazioni. Da questa cooperazione e da questo contrasto delle due pulsioni fondamentali traggono origine i molteplici e variopinti fenomeni dell’esistenza. L’analogia delle nostre due pulsioni fondamentali si estende al di là del campo vivente fino a raggiungere la sfera inorganica dominata dalla coppia degli opposti attrazione-repulsione”[312].
L’amore in definitiva, come la vita, è conciliazione di contrari:”to; ajntivston sumfevron kai; ejk tw’n diaferovntwn kallivsthn aJrmonivan”[313] , ciò che contrasta concorre e dai contrari bellissima armonia; questa è un grande approdo, però non è evidente a tutti:”aJrmonivh ajfanh;” fanerh'” kreivttwn”[314], l’armonia invisibile è più forte di quella visibile. Lo stesso medico Erissimaco, che nel Simposio di Platone critica Eraclito, dice che ci sono due Amori (to;n kalovn te kai; aijscro;n e[rwta, 186d), uno bello e uno turpe, e che il primo costituisce quella ajrmoniva che è sumfwniva (consonanza) e oJmologiva (accordo) le quali sono il fine di ogni attività. JArmoniva è formato sulla radice ajr-/aJr dalla quale deriva anche ajrevskw, piaccio, ed è imparentata etimologicamente con ars che significa dunque l’abilità di connettere (ajrarivskein) in modo adeguato e da piacevole.
Per concludere questa sezione diamo ancora qualche testimonianza sullo squilibrio amoroso che ostacola il lavoro agricolo.
Teocrito nel X idillio contrappone la savietà dell’infaticabile mietitore Milone non innamorato alla la cecità mentale di Buceo che, pervaso da amore, cerca di giustificarsi affermando:”tuflo;” d& oujk aujto;” oJ Plou’to” ,-ajlla; kai; wJfrovntisto” [Erw”” (vv. 19-20), cieco non è solo Pluto, ma anche Eros irriflessivo.
Virgilio alla fine della IV Georgica contrappone la serietà vincente di Aristeo alla follia perdente dell’ incauto amante preso da subita dementia :” L’amore è forza ma dementia (v. 488: cum subita incautum dementia cepit amantem )”[315], quando una pazzia improvvisa prese l’incauto amante. La stessa Euridice strappata all’amante gli grida:”Quis et me…miseram et te perdidit, Orpheu,/ quis tantus furor? “(vv. 494-495), quale…quale follia così grande ha perduto me e te, Orfeo?
Abbiamo visto che G. B. Conte interpreta la figura del contadino Aristeo “scrupoloso e pio” come positiva e quella dell’amante Orfeo che disobbedisce agli dèi come negativa:” Non si può far nulla contro la volontà degli dèi; il trionfo su di loro è ingannevole. Bisogna invece seguirne scrupolosamente i voleri, riconoscerne la divinità e il potere. E ciò non è senza evidente accordo con l’ideologia delle Georgiche “[316].
I motivi comuni a quest’opera e a tutte le rappresentazioni idealizzate della vita rustica “corrispondono al disegno del principe, che fin dall’epoca dello scontro con Antonio aveva manifestato la sua intenzione di risollevare le sorti dell’agricoltura italica duramente provata dalle guerre civili e di creare un florido ceto di piccoli proprietari terrieri, giustamente considerati un fattore importante di stabilità sociale.”[317]. Simile funzione ha l’elegia proemiale del II libro di Tibullo “nella quale il poeta prende a pretesto la festa rurale degli Ambarvalia per tessere le lodi del lavoro dei campi: l’agricoltura ha consentito all’ uomo di abbandonare le abitudini nomadi e d’incivilirsi, lo ha spinto ad apprendere l’arte di costruirsi una dimora stabile e di procurarsi del cibo”[318].
Il latino dunque è anche la letteratura del potere: ebbene durante l’ultimo (2001) Certamen Horatianum di Venosa Ivano Dionigi ha detto che il compito di noi antichisti sarà quello di imparare a utilizzare questa poesia e lingua per difenderci dal potere. Latino e greco infatti servono comunque a trovare e definire la nostra identità linguistica e culturale ed è soltanto con la forte coscienza della propria identità che questa può essere difesa e magari confrontata con le altre.
note:
[1] Si pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo incatenato, tormentata da un assillo appunto (oistro~ , v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi: ” E subito l’aspetto e la mente furono/stravolti: divenni cornigera, come vedete, e punta/da un assillo dall’acuto morso, con salti furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e alla fonte di Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento nell’ira mi scortava/ spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).
[2] Le avventure pastorali di Dafni e Cloe (II-III sec. d. C.) , II, 7.
[3]J. P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore , p. 118.
[4] Pindaro, Nemea X , vv. 72-73. E’ la grande ode di Castore e Polluce, un esempio sublime di amore fraterno. Lo scontro invero avviene tra i Dioscuri e i due fratelli, loro cugini, Ida e Linceo. Questi muoiono e pure Castore, figlio di Tindaro e Leda, Ma Polluce figlio di Leda e Zeus, cedette al fratello parte della propria divinità immortale.
[5] Pollh; me;n ejn brotoi'” koujk ajnwvnumo” (Ippolito , 1)
[6] Arcaico per vivus.
[7] Conte, Scriptorium classicum , 5, p. 18.
[8] Lucrezio, La Natura Delle Cose, testo e commento di Ivano Dionigi, p. 320.
[9]Lucrezio, La Natura Delle Cose , commento di I. Dionigi, p. 408.
[10] J. Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 66-67.
[11] Agamennone, 177.
[12]Siddharta , p.135.
[13]G. B. Conte, Introduzione a Lucrezio, La Natura Delle Cose , p. 7.
[14] G. G. Màrquez, L’amore ai tempi del colera p. 350.
[15] Si tratta di Lavinia che era promessa sposa di Turno ma sposerà Enea.
[16]Edito con i primi due nel 23 a. C.
[17] E. Morin, L’identità umana, p.19 n. 6.
[18] E. Morin, op. cit., p. 94.
[19]Edito nel 13 a. C.
[20]A. La Penna, Orazio, Le Opere, Antologia , p. 438.
[21] glukei’a=dolce.
[22]Ho colto diversi suggerimenti su questa Ode da una conferenza tenuta da Paolo Fedeli durante il XV Certamen Horatianum di Venosa (maggio 2001).
[23]H. Hesse, La Cura , p. 73.
[24] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.
[25]Cfr. perfide in Catullo 64, 133 già visto; più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide IV 305.
[26]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 484.
[27]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[28]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[29] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[30] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.
[31] Pasquali, op. cit., p. 485. Gli Epodi furono pubblicati intorno al 30 a. C.
[32] Odi , I, 6, 6.
[33] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481.
[34] G. Pasquali, Orazio lirico, p.482.
[35] Shakespeare, Timone d’Atene, IV, 3.
[36] G. Pasquali, Orazio lirico, p.483.
[37] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[38] Soggetto, posseduto dalle Ninfe appunto.
[39] Le ninfe indulgenti risero.
[40] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485 n. 1.
[41] La Penna, Orazio, Le opere, Antologia, p.156.
[42]Cfr. Meleagro in Anth. Pal. V, 180, 7-8.
[43] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal del 1904, p.51.
[44] L’amore ai tempi del colera , p. 186.
[45] Op. cit., p. 487, n. 1.
[46] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 489.
[47]G. B. Conte, (a cura di) Scriptorium Classicum 2, p. 166.
[48] G. Chiarini La rappresentazione teatrale in Lo spazio letterario di Roma antica, volume II, p. 162.
[49]G. B. Conte, (a cura di) Scriptorium Classicum 2, p. 165.
[50]Se ne ricorderà Valerio Flacco (I sec. d. C.) che negli Argonautica definisce saevus l’amor che incalza (urget ) Medea spingendola verso Giasone (VII, 307-308).
[51] G. Flaubert, Madame Bovary, p. 177.
[52] Leggi, 701a
[53]Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p. 26.
[54] N. Hawthorne, La lettera scarlatta, p. 180.
[55]J. P. Vernant, Tra mito e politica , p. 136.
[56]L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877) , p. 711.
95 Trad. it. Lerici, Milano, 1964.
[58]Il mestiere di vivere , 9 settembre 1946.
[59] Il mestiere di vivere ,18 novembre 1945.
[60]Il mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.
[61] “Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri”, nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore, ricorda Ovidio (Tristia , II, 369).
[62]M. Kundera, L’immortalità , p. 169.
[63] Medea, p. 203.
[64]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 357.
[65]L’uomo senza qualità , p. 270.
[66]Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 153.
[67] Fantasia dell’inconscio e altri saggi sul desiderio, l’amore, il piacere , Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d’amore , pp. 427-428.
[68] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 43.
[69] G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani, 1997, p. 16. La tesi è di Alessandra Neri, alumna optima .
[70] G. Flaubert, Madame Bovary, p. 74.
[71]Guerra e pace , p. 855.
[72] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, p. 262.
[73]. A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 352
[74] Che nella fattispecie sono in particolare le donne innamorate.
[75] E. Morin, op. cit., p. 49.
[76]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 364.
[77]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 365.
[78] Appellata est enim ex viro virtus: viri autem propria maxime est fortitudo, cuius munera duo sunt maxima: mortis dolorisque contemptio ” (Cicerone , Tusc., 2, 43), la virtù infatti deriva da vir ed è soprattutto propria dell’uomo la fortezza i cui principali compiti sono due: il disprezzo della morte e del dolore. Enea disprezzerà sì la morte e il dolore, ma quelli dell’amante Didone.
[79] Eneide I, 588-593.
[80] Odissea, VI, 232-235)
[81]J. P. Vernant, Tra mito e politica , pp. 210-211.
[82] Giordano, Piazzi, Tumscitz, Integros accedere fontis , Cappelli, Bologna, 1966, p. 105.
[83]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 373.
[84] Factorum et dictorum memorabilium libri , VI, 1.
[85]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 299.
[86]Jaeger, op. cit., p. 285.
[87]Paradiso , XV, 97 e 99.
[88] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.
[89] J. Hillman, Variazioni su Edipo, p. 76.
[90] E. Morin, op. cit., p. 69.
[91] Seneca, De ira , II, 21.
[92]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 358.
[93]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 356.
[94]Secretum , III, 40.
[95]Ep. , I, 11, 27.
[96]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli , p. 57.
[97] E. Morin, La testa ben fatta, p. 37.
[98]A. Taylor, Platone , p. 475.
[99] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 124.
[100] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 122.
[101]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 361.
[102] E’ l’episodio imitato da Dante nella selva dei suicidi (Inferno, XIII; qui il terrore è limitato a “ond’io lascia la cima cadere/e stetti come l’uom che teme”, vv. 44-45.
[103]64, 133.
[104]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 425.
[105]Inferno , XXVI, 80-81.
[106]Jaeger, op. cit., p. 285.
[107]p. 167.
[108]Plutarco, Sull’amore (47, 751D)
[109] Op. cit., p. 428.
[110] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 271.
[111]G. B. Conte, Virgilio, Il genere e i suoi confini , p. 89.
[112] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p 274.
[113] Studi su Dante, p. 73.
[114] La nascita della tragedia , IX capitolo.
[115] Op. cit. p. 441
[116]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 408.
[117] A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 446.
[118]Virgilio , p. 94.
[119] Decameron , V, 8.
[120] M. Zambrano, L’uomo e il divino, p. 187.
[121] E. Auerbach, Studi su Dante, p. 33.
[122]I migliori editori espungono questo verso considerandolo un’interpol’azione ricavata dal molto simile IX 225).
[123]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 481.
[124]L’interpretazione dei sogni , p. 23.
[125]Freud, Il sogno e la sua interpretazione , pp. 45 e 53
[126]Freud, op. cit., p. 59
[127] E. Auerbach, Studi su Dante, p.12.
[128] Plutarco, Vita di Alcibiade , 16.
[129]Curiosità estetiche , trad. it. in Il Sistema Letterario , Ottocento , di Guglielmino/Grosser, Principato, Milano, 1992, p. 1150.
[130]Plutarco, Vita di Alcibiade , 37.
[131]Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, Alcibiades , 9, 3.
[132]Baudelaire, op. cit., p. 1151.
[133]D’Annunzio, Il Piacere , Mondadori, Milano, 1990, pp. 42-43.
[134]D’Annunzio, Il Piacere , p. 278.
[135]Plutarco, op. cit., 23, 4- 5.
[136]Op. cit., 1, 4.
[137] S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843), Tomo Primo, p. 158.
[138]S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843), Tomo Quarto trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 40..
[139]S. Kierkegaard, Diario del seduttore (1843) , trad. it. Rizzoli, Milano, 1974, pp. 23 e 139
[140] S. Kierkegaard, In vino veritas (1845), p. 92.
[141]Baudelaire, op. cit., p. 1151.
[142]Plutarco, op. cit. , 38.
[143]Annales , XVI, 18.
[144]Plutarco, op. cit., 38, 4.
[145]Lisia, XII, 19.
[146]Op. cit., p. 1150
[147]Op. cit., pp. 1150-1151
[148]Annales , XVI, 18
[149]Plutarco, op. cit., 38, 6.
[150]Op. cit., p. 1152. I mirmidoni sono i soldati di Achille.
[151]Erodoto, V, 92.
[152] F. Dostoevkij, Delitto e castigo, pp. 290 sgg.
[153] Ivan Gon?arov, Oblomov, del 1859, p. 124
[154]VI, 15.
[155]Historiae , I, 18.
[156]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Tomo Primo, , trad. it. Adelphi, Milano, 1976, p. 172.
[157]Si vede dall’episodio della moglie di Agide, Timea che Alcibiade sedusse mentre il marito era assente per una spedizione militare. Ella rimase in cinta e non lo negò(” Timaivan ga;r th;n [Agido” gunai’ka tou’ basilevw” strateuomevnou kai; ajpodhmou’nto” ouJvtw dievfqeiren, wJvste kai; kuvein ejx jAlkibiavdou kai; mh; ajrnei’sqai”), anzi in privato chiamava “Alcibiade” il figlio il cui nome ufficiale era Leotichide. Il seduttore soleva dire che lo aveva fatto, non per offendere Agide né perché vinto dal piacere, ma perché i suoi discendenti regnassero su Sparta:”oJvpw” Lakedaimonivwn basileuvswsin oiJ ejx aujtou’ gegonovte””(Plutarco, op. cit. 23) Si vede dunque da questo episodio che la “passion predominante” del nostro personaggio era comandare e che il sedurre era strumentale al fine di dominare. Insomma “luxuriosus, dissolutus, libidinosus “(Cornelio Nepote, op. cit , 1) ma prima di tutto ambizioso. Di lui in effetti Tucidide scrive, tra l’altro:”kai; mavlista strathgh’saiv te ejpiqumw’n” , VI, 15, e bramando al di sopra di tutto comandare. Il che non toglie che fosse un seduttore di razza.
[158]Don Giovanni , I, 5. Un collegamento con il Don Giovanni , e con Le nozze di Figaro , ugualmente di Mozart-Da Ponte, viene fatto anche per Andrea Sperelli:”Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l’uomo di una notte erculea e l’amante timido, candido, quasi verginale.( Il piacere , p. 19)
[159]Baudelaire, op. cit., p. 1152.
[160]Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, II, 19.
[161] Trad. it., Rizzoli, Milano, 1974, p. 22.
[162]Alcibiades , 10, 6.
[163]Tucidide, VI, 17.
[164] J. de Romilly, Alcibiade , p. 23.
[165]Cfr. Aristofane, Rane , 1423.
[166]Pericle, di cui Plutarco (Vita di Pericle , 3) racconta che la madre Agariste, prossima a partorirlo, sognò di generare un leone.
[167]Tucidide, II, 41.
[168]O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray , in Wilde Opere , trad. it. Mondadori, Milano, 1982, p. 32.
[169]Arthur Schnitzer, Il ritorno di Casanova , trad. it., Bompiani, Milano, 1982, pp. 1-2.
[170] Plutarco, Vita di Alcibiade , 16.
[171]Si noti il nesso allitterante
[172]Forma sincopata di extinxissem .
[173] Nel mio commento all’Antigone (Loffredo, Napoli 2001) di Sofocle ho fatto una scheda che raccoglie le testimonianze degli echi letterari di questo culto solare .
[174]I sepolcri , v. 71-72
[175] Cfr. Timeo 70 b, Repubblica 560b
[176]Intervista a Saul Bellow nel quotidiano “la Repubblica “del 17 agosto dal titolo Odio il sussiego europeo (p. 42) .
[177]=exoriaris , seconda persona del congiuntivo, come sequare =sequaris .
[178]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 499.
[179]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 499.
[180]Foscolo, Dei Sepolcri , vv. 121-122.
[181]S. Freud, L’interpretazione dei sogni , p. 327.
[182] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 275.
[183]Che poi era suo padre
[184]fr. 359 Nauck.
[185] Dove era dovuto andare nel 41 d. C. La Consolatio è del 42 o 43 d. C.
[186]Il Principe , XXV.
[187]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 276.
[188]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. XXVIII.
[189]Una città occupata assomiglia a una ragazza che ha perduto il suo onore. Guerra e pace , p. 1311.
[190]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 278.
[191] Shakespeare, Giulio Cesare , III, 2.
[192] J. Hillman, Il piacere di pensare , p. 66.
[193]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 358.
[194] Interea medium Aeneas iam classe tenebat/certus iter fluctusque atros aquilone secabat, vv. 1-2, intanto Enea già con la flotta teneva risoluto la rotta in mezzo al mare, e sotto la tramontana fendeva i flutti scuri. Il primo verso è echeggiato dal primo della Commedia di Dante: Enea e Dante sono entrambi in fuga dal peccato, ma il secondo non è ancora certus.
[195] Storiografo vissuto alla corte di Nerone.
[196]L. Tolstoj, Anna Karenina , p. 148.
[197] M. Fusillo, op. cit., p. 129.
[198]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 359 e p. 561
[199]Dante, Inferno , V, 61.
[200]Che cos’è un classico? , in T. S. Eliot, Opere , p. 966.
[201] Cioè prima di farsi monaco per sempre.
[202] A stento si conteneva nel suo petto.
[203] Convertì il piacere in dolore.
[204] Traggo questo brano de Le vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca da Lunario dei giorni d’amore a cura di G. Davico Bonino, p. 135.
[205]Cfr. VII, Le Talisie , 22.
[206]B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 392 e ss.
[207] B. Snell, Poesia e società, p. 152.
[208] E’ il nome del bovaro che nell’Idill’io I canta la morte di Dafni.
[209] Dafni appunto
[210] Max Pohlenz, L’uomo greco, p. 555.
[211]Max Pohlenz, L’uomo greco, p. 556.
[212] A. La Penna, Orazio, Le Opere. Antologia , p. 16.
[213] Plutarco , Vita di Solone , 27.
[214] In Delitto e castigo di Dostoevskij, “gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un pò, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d’essere straordinari”(p.290).
[215]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. XIX.
[216] Nato nel 76 a. C. fu console nel 40, e, come proconsole, nel 39 sconfisse i Dalmati. Fu anche autore di tragedie e di una storia delle guerre civili. Orazio gli dedicò un’Ode alcaica (II, 1). S. Mazzarino definisce Asinio Pollione “l’ufficiale più indipendente e acuto” di Giulio Cesare. Dalle sue Historiae, iniziate verso il 30 a. C. verrebbe fuori il Cesare ricco di pathos del dado è tratto; mentre lo stesso Cesare “scrittore “tucididèo” ossia razionale, non poteva intendere abbastanza i momenti irrazionali della sua stessa impresa” (Il pensiero storico classico, 2, p. 200).
[217]In Stob. 4, 20, 66.
[218]Ovidio, Remedia amoris , vv. 143-144.
[219]Ovidio, op. cit., vv. 199-200.
[220]Virgilio, il genere e i suoi confini , p. 20.
[221]Conte, op. cit., p. 28.
[222]B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , pp. 396-397.
[223]G. Ugolini, Lexis , p. 241.
[224]Amore
[225] Da confrontare con “tum pessima tigris ” e ” tum saevos aper ” visti sopra ( Georgica III , v. 248)
[226] Elegia di Madonna Fiammetta , cap. 1.
[227]Vissuto tra V e VI secolo d. C.
[228]Vissuto nel V secolo d. C. ha scritto le Dionisiache , un poema di 48 libri e 21000 esametri. Museo dipende da Nonno per la tecnica del verso, ma non certo per la lunghezza del suo epill’io che consta di soli 343 esametri.
[229] Nato ad Antiochia, vissuto fra il 334 e il 400 d. C., ha scritto Rerum gestarum libri XXXI che andavano dalla morte di Nerva (96 d. C.) al 378 d. C. (morte dell’imperatore Valente). Ci sono arrivati i libri XIV-XXI, dal 353 al 378 d. C. Il suo eroe è l’imperatore Giuliano, quello che i cristiani infamano chiamandolo “l’apostata”.
[230]Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1938.
[231]Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press.
[232] Poeta dell’età augustea, ammiratore di Tibullo.
[233]Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 58 s.
[234]G. B. Conte, op. cit., n. 30, p. 205.
[235]Le Antigoni , p.194)
[236]Sofocle , p. 99.
[237]Goethe, Faust , seconda parte, atto quinto.
[238] Il piacere di pensare , pp. 134-135.
[239]Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 63.
[240] De providentia, 4, 10.
[241]Svevo, La coscienza di Zeno , p. 318.
[242]Dino Buzzati, Un Amore , pp. 112 e 113.
[243]W. Jaeger, Paideia 1, p. 129.
[244] Nell’Odissea l’aggettivo è riferito alla morte:” aijpu;n oJvleqron”, I, 11.
[245] Cfr. 72, 7-8.
[246]Nietzsche, Di là dal bene e dal male , p. 157.
[247]47 a. C.
[248]Da “San Giorgio in casa Brocchi” in Le novelle del ducato in fiamme, ristampato in I racconti. Accoppiamenti giudiziosi , Milano, 1963, pp. 97-100.
[249]Jaeger, Paideia 1, p. 121.
[250]Archil. fr. 118 D; Hes. Theog. 121.
[251]Eur. Andr. 269.
[252]Pind. Pyth. I, 25.
[253] è amaro e dolce e rapace e desiderato e crudele, 1353.
[254]C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide , p. 265
[255] Venere, naturalmente.
[256] Sempre Venere.
[257]C. Magris, L’anello di Clarisse , p. 17.
[258]Lucrezio, LA NATURA DELLE COSE, BUR, Milano, 1997, p. 496.
[259]Si noti l’allitterazione con la p che sembra preludere all’esplosione della successiva tempesta marina.
[260]Traduco così, come del resto ha già fatto Luca Canali nel testo commentato da Dionigi citato sopra, poiché a parer mio l’espressione di Lucrezio risente di quella eschilèa:” pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma” (Prometeo incatenato , 89-90), innumerevole sorriso delle onde marine.
[261]Quello delle vele, quasi fossero donne sfacciate.
[262]Op. cit., p. 493.
[263]M. Bettini, La letteratura latina 2 , p. 453.
[264] La letteratura latina, 2, p. 453.
[265] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum providentia sit . E’ il sottotitolo, probabilmente autentico, del De providentia: perché agli uomini buoni capitano delle disgrazie dal momento che c’è la provvidenza.
[266] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p. 8.
[267] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.
[268] J. Roth, Giobbe, p. 19.
[269]L’ uomo senza qualità , p.124.
[270] La Penna-Grassi, Virgilio. Le opere. Antologia , p. 36.
[271] Posidonio di Apamea (135-51 a. C.) è il maggior esponente dello stoicismo medio. Fu discepolo di Panezio e maestro di Cicerone.
[272] I Promessi sposi cap. XXII
[273] Psicanalisi della società contemporanea , p. 299.
[274]La Penna (a cura di) Orazio, Le Opere, Antologia , p. 162.
[275]Fr. 7 D., v. 10:”tlh’te gunaikei’on pevnqo” ajpwsavmenoi “, sopportate, respingendo il lutto femmineo.
[276]“Feminis lugere honestum est, viris meminisse ” Germania (27, 1), per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
[277] Tomo II, pp. 832-833.
[278]La strada di Swann , p. 363.
[279] M. Zambrano, L’uomo e il divino, p. 262.
[280]Otello , III, 3.
[281] M. Proust, La prigioniera, p. 151.
[282] L’uomo e il divino, pp. 256 e 257
[283] Medea , p. 211.
[284] Il mestiere di vivere , 29 settembre 1946.
[285] In nota al v. 218 di The Waste Land (I Tiresias, though blind, throbbing between two lives , io Tiresia, sebbene cieco, pulsando tra le due vite) dove l’autore spiega che “i due sessi si incontrano in Tiresia. Ciò che Tiresia vede, infatti è la sostanza del poema”. Quindi cita i vv. 320-338 del III libro delle Metamorfosi .
[286]La lirica greca da Alcmane a Simonide , p. 264.
[287]G. Perrotta-B. Gentili, Polinnia , p. 299.
[288]I fratelli Karamazov , p. 160.
[289]Il sabato del villaggio , 5.
[290]il nesso rose-viole si trova pure, forse non per caso, nel mazzolino interstagionale de Il sabato del villaggio (v. 4:”un mazzolin di rose e di viole” appunto, ) di Leopardi.
[291]C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide , p. 276.
[292] Alcesti, v. 150.
[293] Alcesti, v. 151.
[294] V. 151 già citato.
[295] M. Cacciari, L’arcipelago, pp. 52-53.
[296] Con ancora più forza è un’altra donna, Polissena nell’Ecuba di Euripide, a rifiutare di apparire philòpsychos, amante della sola propria vita.
[297]. M. Cacciari, L’arcipelago, p 59.
[298]Zibaldone , p. 527.
[299]Storia del genere umano .
[300]La medicina guarisce tutti i dolori umani:/solo l’amore non ha uno capace di curarlo.
[301]G. B. Conte, Ovidio Rimedi contro l’amore , pp. 18-19.
[302]G. B. Conte (a cura di) Scriptorium Classicum 2, p. 17.
[303]P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica , I, p. 151.
[304]Coefore 461:” [Arh” [Arei xumbalei’, Divka/ Divka”.
[305]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , I, p. 175.
[306]G. D’Annunzio, Trionfo Della Morte , Mondadori, Milano, 1977, p. 247.
[307]Poemetto di P. B. Shelley, del 1821.
[308]G. D’Annunzio, Il fuoco , Mondadori, Milano, 1977, p. 164-165, 167, 260
[309] Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p. 87.
[310]S. Freud, Analisi terminabile e interminabile , in Freud Opere volume 11, p. 527 e ss.
[311] Conte, Scriptorium classicum , 5, p. 18.
[312]Freud, Compendio di psicoanalisi , 1938, vol.. cit., p. 575 s.
[313]Eraclito, fr.24 Diano
[314]Eraclito, fr.27 Diano
[315]G. B. Conte, Virgilio , p. 47.
[316]G. B. Conte, Virgilio , p. 48
[317]P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica , I, p. 158.
[318] P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica , I, p. 157.
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