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Alberto Bairati
ARTHUR SCHOPENHAUER: TRA DOLORE E NOIA
Secondo il filosofo tedesco il mondo è una rappresentazione ordinata dalle forme a priori dello spazio e del tempo e dalla categoria della casualità. L’intelletto ordina e sistema, attraverso la categoria della causalità, i dati delle intuizioni spazio-temporali, e coglie cosi i nessi tra gli oggetti, le leggi del loro comportamento. Ma, pur stando le cose in questo modo l’intelletto non ci porta oltre il mondo sensibile. Il mondo come rappresentazione è fenomeno, e per questo non -è possibile -una reale e netta distinzione tra il sonno e la veglia: il sogno ha soltanto meno continuità e coerenza della veglia. Tra la vita e il sogno c’è stretta parentela e “noi, dice Schopenauer, non ci vergognano di confessarla: tanti spiriti l’hanno riconosciuta e proclamata”. I Veda (i testi sacri più antichi in lingua sanscrita) e i Purana (una raccolta di testi sacri indiani a carattere religioso e etico) chiamano la conoscenza del mondo “Il velo di Maya”; Platone afferma spesso che gli uomini vivono nel sogno; Pindaro dice che “l’uomo è il sogno di un’ombra”; Sofocle paragona gli uomini a simulacri e ombre leggere; è Shakespeare a sentenziare che “noi siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata da un sonno?; e per Calderon “la vita è un sogno”. Sulla scia di questi pensatori e per la precisa ragione per cui il mondo è una sua rappresentazione, Shopenhauer scrive che “la vita e i sogni son pagine dello stesso libro”.
Il mondo come rappresentazione non è una cosa in se, è fenomeno, “è un oggetto per il soggetto”. Ma Schopenhauer non parla al pari di Kant del fenomeno come di una rappresentazione che non concerne e non può cogliere il noumeno, cioè la cosa in sé. Per Schopenhauer il fenomeno, ciò di cui parla la rappresentazione, è illusione ed apparenza, è quel che nella filosofia indiana, si chiama “il velo di Maya” che copre il volto delle cose. Per Kant, insomma il fenomeno è l’unica realtà conoscibile; per Schopenhauer, invece, il fenomeno è l’illusione che vela la realtà delle cose nella loro essenza primigenia ed autentica.
Ebbene, questa essenza della realtà, il noumeno che per Kant resta inconoscibile può, ad avviso di Shopenhauer, venire raggiunta. Egli paragona la via che conduce all’essenza della realtà ad una sorta di passaggio sotterraneo che, a tradimento, porta proprio all’interno di quella fortezza che era impossibile espugnare dal di fuori. Difatti l’uomo è rappresentazione e fenomeno ma non è soltanto questo giacché esso è anche soggetto conoscente. per di più l’uomo è anche “corpo”.
Ora però, al soggetto conoscente il corpo è dato in due maniere del tutto diverse: da un lato come rappresentazione, come oggetto fra oggetto sottostante alle loro leggi; ma, dall’altro, “è dato come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato coi nome di volontà. Ogni atto reale della sua volontà è sempre infallibilmente anche un movimento dei suo corpo; il soggetto non può volere effettivamente un atto, senza insieme constatare che questo appare come movimento del suo corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo sono una sola e medesima cosa che ci è data in due maniere essenzialmente diverse: da un lato immediatamente,- dall’altro come intuizione per l’intelletto”. Il corpo è dunque volontà resa visibile. Certo, noi possiamo guardare e parlare del nostro corpo come di un qualsiasi altro oggetto, ed in questo caso esso è fenomeno. Ma è attraverso il nostro corpo che noi sentiamo di vivere e che proviamo piacere e dolore e avvertiamo la brama di vivere e l’impulso alla conservazione. Ed è attraverso il proprio corpo che ognuno di noi sente che l’intima essenza del proprio fenomeno (manifestantesi a lui come rappresentazione tanto per mezzo delle sue azioni, quanto per mezzo del loro substrato permanente, il corpo) non è altro che la sua volontà, la quale costituisce l’oggetto immediato della propria coscienza” e questa volontà non rientra nel modo di conoscenza in cui soggetto ed oggetto si contrappongono l’un l’altro, “ma ci si presenta per una via immediata nella quale non si può più nettamente distinguere il soggetto dall’oggetto”.
L’essenza del nostre essere è dunque, volontà; l’immersione del profondo di noi stessi ci fa scoprire che noi siamo volontà. Ma simultaneamente questa immersione squarcia “il velo di Maya” e ci fa ritrovare come parti di quell’unica volontà, di quel “cieco ed irresistibile impeto” che pervade, si agita e si squaderna per tutto l’universo. In altri termini la coscienza e il sentimento del nostro corpo come volontà ci portano a riconoscere che tutta l’universalità dei fenomeni pur così diversi nelle loro manifestazioni ha una sola identica essenza. quella che da noi è conosciuta più direttamente, più intimamente e meglio di ogni altra: quella che nella sua più fulgida manifestazione prende il nome di volontà. Chi avrà compreso questo, afferma Schopenhauer, “volontà vedrà nella forza che fa crescere e vegetare la pianta; in quella che dà forma al cristallo; in quella che dirige lago calamitato al nord; quella commozione che prova al contatto di due metalli eterogenei; nella forza che si manifesta nelle affinità elettive della materia in forma di repulsione ed attrazione, di combinazione e decomposizione; e persino nella gravità, che agisce con tanta potenza in ogni materia ed attira la pietra a terra come la terra al cielo”. E’ questa pertanto la riflessione che rende possibile oltrepassare il fenomeno e pervenire alla cosa in se’. Il fenomeno è rappresentazione e nulla più; ‘cosa in sé è soltanto la volontà, che a tal titolo non è affatto rappresentazione, anzi ne differisce toto genere”. I fenomeni legati al principio di individuazione che è lo spazio-tempo sono molteplici, la volontà è invece unica, ed è cieca, libera, senza scopo ed irrazionale. E’ l’insaziabile e l’eterna insoddisfazione che darà luogo ad una catena ascensionale di esseri nelle forze della natura, nel regno vegetale, in quello animale, e nel regno umano, esseri che pressati da un impeto cieco ed irresistibile lottano per imporsi e dominare il reale. Questa lacerazione, questa lotta senza posa e senza fine si accresce nella coscientazione dell’uomo a soggiogare e a sfruttare la natura da un lato, e nel crudele scontro tra i diversi indomabili egoismi dall’altro. In poche parole, ” la volontà è la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare del tutto; è quella che appare nella forza naturale, cieca, e quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo; l’enorme differenza che separa i due casi non concerne se non il grado della manifestazione; l’essenza di ciò che si manifesta ne rimane assolutamente intatta”.
L’essenza del mondo è volontà insaziabile. La volontà è conflitto e lacerazione, e quindi dolore. E “man mano che la conoscenza di-viene più distinta, e che la conoscenza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge nell’uomo il grado più alto, quanto più l’uomo è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più”.
Come dice l’Ecclesiaste ” Qui auget scientiam, auget et dolorem”. La volontà è tensione continua e “perché ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza dei proprio stato, è dunque, finché non soddisfatto, un soffrire; ma nessuna soddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere. li tendere si vede sempre impedito, sempre in lotta, è dunque sempre un soffrire; non c’è nessun fine ultimo al tendere: dunque, nessuna misura e nessun fine al soffrire’.
L’essenza della natura incosciente è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; e parimenti l’essenza del bruto e dell’uomo è volere e aspirare: una sete inestinguibile. E l’uomo essendo l’oggettivazione più perfetta della volontà di vivere, è anche il più bisognoso degli esseri; non è che volontà e bisogno, e lo si potrebbe definire una concrezione di bisogni”.
La vita è bisogno e dolore. Se il bisogno viene soddisfatto, allora si piomba nella sazietà e nella noia: il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio nasce in forma nuova, e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno”.
Da ciò segue che la vita umana oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia. Dei sette giorni della settimana, sei sono dolore e bisogno, e il settimo è noia.
E in Parerga e Paralipomena Schopenhauer sostiene che l’uomo è in fondo un animale selvaggio e feroce. Noi conosciamo l’uomo solo in quello stato di ammansimento e di domesticità che è detto civiltà; ma basta un po’ di anarchia perché si manifesti la -vera natura umana: l’uomo è runico animale che faccia soffrire gli altri per il solo scopo di far soffrire”.
In sostanza, ciò che è positivo, cioè reale, è il dolore; mentre ciò che è negativo, vale a dire illusorio,e la felicità: “Nessun oggetto della volontà, una volta conseguito, può date appagamento durevole, che più non muti; ma rassomiglia solo all’elemosina che, gettata al mendico, prolunga oggi la sua vita, per continuare domani il suo tormento”. E il dolore e la tragedia non sono soltanto l’essenza della vita dei singolo ma anche della storia dell’intera umanità.
La vita è dolore e la storia è cieco caso. Il progresso è un’illusione. La storia non è, come pretende Hegel, razionalità e progresso; ogni finalismo e qualsiasi ottimismo sono ingiustificati.
Il mondo come fenomeno è rappresentazione, ma nella sua essenza è volontà cieca e irrefrenabile, perennemente insoddisfatta, lacerantesi tra forze contrastanti. Ma quando l’uomo, inabissandosi nel proprio intimo, arriva a capire questo, che la realtà è volontà e che egli stesso è volontà, allora egli è pronto per la sua redenzione: e questa può darsi solo col cessare di volere”.
Ci si può, insomma, liberare, ad avviso di Schopenhauer, dal dolore e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei bisogni attraverso carte e l’ascesi.
Nell’esperienza estetica infatti l’individuo si stacca dalle catene della volontà, si allontana dai suoi desideri annulla i suoi bisogni: non guarda gli oggetti per quel che possono essere utili o nocivi. L’uomo nell’esperienza estetica, si annienta come volontà, e si trasforma in puro occhio del mondo, si immerge nell’oggetto e dimentica se stesso e il suo dolore.
Questo puro occhio del mondo non vede più oggetti che hanno rapporti con altre cose, non vede oggetti che sono per me utili o nocivi, ma scorge idee, essenze, modelli delle cose, al di fuori dello spazio, del tempo e della casualità. L’arte esprime, oggettiva l’essenza delle cose, e proprio per questo ci aiuta a distaccarci dalla volontà. Il genio, appunto, coglie le Idee eterne, e la contemplazione estetica si immerge in esse, annullando quella volontà che, avendo optato per la vita e per il tempo, è solo peccato e dolore.
Nell’esperienza estetica, in breve, non siamo più consapevoli di noi stessi ma solo degli oggetti intuiti. L’esperienza estetica è l’annullamento temporaneo della volontà, e quindi del dolore: nell’intuizione estetica l’intelletto infrange la sua servitù alla volontà, non è più lo strumento che le procura i mezzi per soddisfarla, ma puro occhio contemplante.
L’arte – che dall’architettura (la quale esprime l’idea delle forze naturali), alla scultura, alla pittura e alla poesia, arriva alla tragedia, la forma più alta dell’arte – oggettiva la volontà, e chi contempla ne è, in certo modo, fuori. Cosi “la tragedia esprime ed oggettiva il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti”; ed è in questo modo che essa ci permette di contemplare la natura del mondo.
Tra le arti, poi la musica non è che esprima le idee, cioè i gradi dell’oggettivazione della volontà, ma la volontà stessa. Per questo essa è l’arte più universale e più profonda: la musica è capace di narrare “la storia più segreta della volontà”.
L’arte, dunque, è liberatrice. Sennonché, questi momenti felici della contemplazione estetica, in cui ci sentiamo liberati dalla tirannia furiosa della volontà, sono istanti brevi e rari. Di conseguenza, la liberazione dal dolore della vita, la redenzione totale dell’uomo deve avvenire per altra via. E questa è la via dell’ascesi.
L’ascesi significa che la liberazione dell’uomo dal fatale alternarsi dei dolore e della noia deve realizzarsi solo sopprimendo in noi stessi la radice del male, cioè la volontà di vivere. E il primo passo verso siffatta soppressione si ha realizzando la giustizia, vale a dire attraverso il riconoscimento degli altri come uguali a noi stessi. Tuttavia, la giustizia si dà, sì, un colpo all’egoismo, ma mi fa considerare gli altri come distinti da me, come diversi da me, e per questo non abbatte quel pricipium individuationis che fonda il mio egoismo e mi contrappone agli altri. Bisogna oltrepassare la giustizia e avere il coraggio di eliminare ogni distinzione tra la nostra individualità e quella degli altri aprendo gli occhi sul fatto che siamo tutti impastati della medesima sventura.
Questo ulteriore passo è la bontà, l’amore disinteressato verso esseri che potano la nostra medesima croce e vivono il nostro medesimo tragico destino. Bontà che è, dunque, compassione, un sentire l’altrui dolore attraverso la comprensione del nostro: “ogni amore è compassione”.
Ed proprio la compassione che Schopenhauer pone a fondamento dell’etica. In ogni caso, pero, anche la pietà , cioè il compatire, è pur tuttavia un patire e la via per sradicare il modo decisivo la volontà di vivere e quindi il dolore, è la via dell’ascesi, di quell’ascesi che fa sentire il filosofo vicino ai saggi indiani e ai santi asceti del Cristianesimo. L’ascesi è l’orrore che si prova per un mondo pieno di dolore. E “il primo passo nell’ascesi o nella negazione della volontà, è una libera e perfetta castità”. La castità perfetta libera dalla realizzazione fondamentale della volontà, nel suo impulso di generazione. Allo stesso scopo, cioè all’annullamento della volontà, tendono la povertà volontaria, la rassegnazione, il sacrificio.
L’uomo è, in quanto fenomeno, un anello della catena casuale dei mondo fenomenico; ma, riconoscendo la volontà come cosa in sé, si ha che questa conoscenza agisce su di lui come un quietivo del suo volere. E’ cosi che l’uomo diventa libero, si redime ed entra in quello che i cristiani chiamano stato di grazia. L’ascesi strappa l’uomo dalla volontà di vita, dal legame con gli oggetti ed è così che gli permette di quietarsi.
Quando la voluntas diventa noluntas, l’uomo è redento.
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