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FISICA
Albert Einstein, il genio folle della relatività
L’elemento comune di tutte le correnti filosofiche degli inizi dei 900 era costituito da un approccio più complesso nei confronti dei procedimenti delle scienze esatte, non più oggetto di quella fiducia illimitata che aveva rappresentato il tratto essenziale della cultura positivistici. Gli stessi sviluppi del pensiero scientifico contribuivano del resto, a mettere in crisi il quadro di certezze su cui quella cultura si ere fondata. Si pensi alla elaborazione della “teoria ristretta o speciale” della relatività formulato da Albert Einstein nel 1905.
Questa nacque dell’esigenza di conciliare due scoperte apparentemente incompatibili fra loro, cioè il principio della relatività del movimento, già scoperto da Galilei, secondo il quale le leggi che regolano i mutamenti interni dei sistemi fisici sono indipendenti dallo stato di quiete o di moto in cui si trovano tali sistemi, ed il carattere assoluto della velocità della luce, la quale si propaga nel vuoto a velocità costante (c), indipendentemente dal fatto di essere emessa da un corpo in quiete o di moto.
Einstein comprese che queste due scoperte, le quali sembrano inconciliabili perché affermano rispettivamente il carattere relativo ed il carattere assoluto del movimento, potevano essere conciliate fra loro solo se si ammetteva che lo spazio ed il tempo, in due sistemi di cui l’uno si muova uniformemente rispetto all’altro, non hanno gli stessi valori, ma valori dipendenti dallo stato del sistema a cui si riferiscono. Ciò significa che i valori dello spazio e del tempo cambiano quando si possa da un sistema di riferimento ad un altro, per cui non si può parlare di contemporaneità fra due avvenimenti che si verificano in sistemi diversi, di cui l’uno sia in movimento rispetto all’ altro.
Ad esempio, due eventi luminosi che ad un osservatore rispetto ad essi equidistante appaiono contemporanei, qualora siano considerati da un osservatore in movimento verso uno o verso l’altro di essi, appariranno l’uno successivo all’altro.
Questa teoria comportava conseguenze enormi nella rappresentazione dell’universo, quali l’eliminazione della necessità di ammettere l’etere come mostrato della luce, il ritardo degli orologi in moto rispetto e quelli in quiete (empiricamente verificato) e soprattutto la “relativizzazione della massa”, cioè il fatto che la massa, anziché essere una proprietà costante dei corpi, varia in dipendenza della velocità con cui i corpi si muovono. Einstein espresse questa dipendenza nella celebre equazione che pone l’energia (E) uguale alla massa (m) moltiplicato per il quadrato della velocità della luce (c).
E=mc2
STUDIO SULLA RELATIVITA’
Nella “teoria generale” della relatività, formulata nel 1916, Einstein estese l’affermazione della relatività del tempo e dello spazio, già effettuata a proposito di due sistemi in movimento l’uno rispetto all’altro, a tutti i sistemi di riferimento possibili, dichiarando che le leggi della natura restano sempre le stesse, qualunque sia il sistema di riferimento che si assume, cioè si riferiscono a valori che variano tutti insieme a seconda dei sistema ci cui si fa riferimento, mantenendo inalterati i rapporti reciproci . In tal modo non solo il tempo e lo spazio, ma tutte le grandezze naturali (movimento, massa, energia, etc.), hanno valori relativi al sistema di riferimento che si considera, e non esiste un sistema privilegiato rispetto a tutti gli altri. Anche questa teoria era gravida di conseguenze di carattere generale, quali l’idea dello spazio ed il tempo possono essere unificati in una unica grandezza a quattro dimensioni chiamate “crono – topo”, costituita dalle relazioni esistenti tra i corpi; che l’universo nel suo complesso è di dimensioni finite, anche se non ha limiti; che infine la geometrici più adatto ci descriverlo non è quella di Euclide, basata su uno spazio infinito ed uniforme, ma quella di Riemann, basata su uno spazio “curvo”, i cui piani siano superfici sferiche. L’intera meccanica Newtoniona veniva in tal modo, come si vede, rivoluzionata, poiché si riduceva ad essere un caso particolare, valido per un singolo sistema, della teoria generale della relatività. Einstein portò importanti contributi anche ad altre teorie fisiche, quali la teoria quantistica, con la scoperta dell’effetto fotoelettrico, ed elaborò riflessioni di carattere filosofico sulla fisica, negando che la fisica quantistica possa portare ad una concezione deterministica dell’universo. E’ celebre, a questo proposito, la suo frase secondo cui “Dio non gioca a dadi”, la quale rivede una concezione teistica della realtà, anche se Einstein non ebbe un’idea precisa della trascendenza divina, ma fu piuttosto propenso a pensare Dio come una specie di natura imminente a tutte e cose.
ALBERT EINSTEIN E IL PENSIERO FILOSOFICO
Einstein definì i principi fisici come “libere invenzioni dei nostro intelletto” anziché come a comode formulazioni sintetiche dei rapporti fra fenomeni, come avrebbe supposto un vero seguace di Mach. Benché, però, potesse esserci bisogno dell’intelletto creativo umano per andare oltre i modi di pensiero tradizionali, ciò non significava che secondo Einstein qualsiasi vecchio principio potesse funzionare. Egli pensava, piuttosto, che quando uno teorici riusciva a dare una correlazione matematica semplice e uno rappresentazione altrettanto semplice dell’esperienza, stava fornendo una “copia” adeguato della realtà. Senza dubbio non intendeva asserire che la scienza sarebbe riuscita infine a conseguire una descrizione complete e definitiva dei mondo. Nella suo filosofici della scienza c’era nondimeno una forte componente “realistica”: egli credeva che una teoria scientifica fosse composta da un insieme di assiomi o principi fondamentali che potevano essere scelti liberamente dall’atto creativo dello scienziato. Da questi assiomi si potevano dedurre matematicamente teoremi, i quali dovevano poi essere verificati sperimentalmente. A differenza di Newton, Einstein non credeva che gli assiomi potessero venire derivati direttamente o logicamente dal dati dell’esperienza, da fenomeni. Essi richiedevano, invece, un atto creativo di costruzione matematica. La connessione con i fenomeni veniva alla fine della catena di deduzioni, quando i teoremi dei sistema matematico venivano messi a confronto con l’esperienza. l’intero processo era guidato da un assunto apparentemente ci priori, che ci fosse una sorta di “armonia prestabilita” fra pensiero e realtà, quasi come avevano supposto molto tempo prima gli aristotelici.